“Abbiamo 21 mila PMI che esportano in modo rapsodico, ovvero senza programma e quindi casualmente.
70mila aziende piccole e medie hanno le potenzialità per espugnare i loro mercati di elezione anche all’estero, ma non lo fanno.
20-40mila sono invece le PMI italiane che operano stabilmente e programmaticamente sui mercati esteri.
Sul piano del bilancio nazionale, le cose vanno piuttosto bene: nel 2013 l’avanzo commerciale ha raggiunto i 30,4 miliardi di Euro, con un balzo di +9,9 miliardi rispetto all’anno precedente, mentre al netto del big business energetico l’avanzo primario del manifatturiero è di 85 miliardi l’anno.
Quindi è facile dedurre che le nostre PMI siano un bel boccone per le loro concorrenti sui mercati internazionali.
Le PMI tedesche, per esempio, fanno man bassa, sostenute anche dal loro governo, di PMI italiane.
Nel solo 2013 ci sono stati 23 accordi per imprese italiane acquisite da concorrenti tedeschi, 20 nell’anno precedente.
Un trend stabile, quindi. Le aziende tedesche hanno un atout rispetto alle loro concorrenti italiane, hanno credito facile nelle loro banche, cosa che le nostre PMI non si sognano ormai più di avere da anni.
Abbiamo recentemente chiesto la creazione di una struttura bancaria che sia dedicata al credito alle sole PMI, accettando la loro commercial paper da scontare e favorendo, visto che nel nostro Paese esiste già in modo embrionale, la loro entrata nella Borsa Titoli ad esse dedicata, creando anche un mercato istituzionale e affidabile, per il risparmiatore, per il loro flottante.
Certo, non si tratta di arroccarsi in vecchi e usurati nazionalismi economici ma, se abbiamo un tessuto industriale di PMI sottocapitalizzate, costrette ad esportare, e quindi costrette inoltre a rafforzare il loro assetto finanziario, e ce le comprano, cosa ne sarà del nostro manifatturiero, ancora tra i primi posti nel mondo?
E’ probabilmente anche questa una “strategia indiretta” di guerra economica, e le aziende tedesche la stanno mettendo in atto con tecniche da manuale.
Le PMI vendute a saldo, come è spesso accaduto recentemente, non sono un bel segnale per la nostra economia che, invece, andrebbe rifinanziata con criteri selettivi ma, nondimeno, di grande entità finanziaria.
L’outlet Italia di cui parla l’Eurispes è quindi una soluzione immediata e un pericolo a medio-lungo termine. Una guerra economica vincente e sottotraccia sferrata dalla Kerneuropa verso l’anello debole della UE, le economia del Meridione. Se non faremo presto le riforme del mercato del lavoro, del sistema pensionistico, della scuola, esse ci saranno forzate da un sistema produttivo ormai in gran parte in mano straniera, che peraltro potrà chiudere o trasferire, in modo punitivo verso la “politica”, macchinari e maestranze altrove.
Anche il settore del lusso e della moda, così tipicamente italiano, per non parlare del food&beverage ormai quasi completamente in mani straniere, è in gran parte acquisito da gruppi esteri: Fiorucci è giapponese dal 1990, Mila Schoen lo è dal 1992, Ferrè è francese dal 2011, Valentino ed altre grandi firme sono, dal 2012, proprietà di un gruppo finanziario con sede a Singapore. Per non parlare poi dell’artigianato veneto, delle cucine e del settore delle ceramiche toscano e emiliano, ormai completamente controllati da gruppi stranieri dall’inizio degli anni ’90.
Se non fermiamo, ripeto, senza nazionalismi ma con una idea razionale di strategia industriale nazionale,questo processo, anche le PMI finora salve saranno integrate nei processi produttivi di altri Paesi UE (e degli USA).
Fino a qualche tempo fa, nella grande stampa economico-finanziaria statunitense, c’era una rubrica giornaliera che segnalava i migliori affari nell’acquisizione o nella fusione di Piccole e Medie Imprese italiane.
Vi immaginate una politica fiscale o una politica di fondi-pensione di livello nazionale (che è la sua dimensione ottimale) con gran parte delle imprese di proprietà straniera? Impossibile. Lo Stato e il Governo devono sapere che se le PMI se ne vanno in altre mani, la loro fiscalità sarà minima e, comunque, seguirà il business cycle e fiscale del Paese che l’ha acquisita.
Quando il Presidente Matteo Renzi, che viene da una delle regioni principe del manifatturiero di qualità, parla di “salvare il Made in Italy” lo sa che ormai stiamo parlando di un mito?
Per non parlare del fatto che le PMI ormai estere trascureranno il mercato interno nazionale, e lo lasceranno a imprese globali ad alto valore aggiunto, alti prezzi e, quindi, si creerà un ulteriore debilitazione del mercato interno, che è essenziale per una sana crescita economica, anche dell’export.
Il mercato interno impoverito e ristretto genererà crisi di carattere politico e previdenziale di notevolissimo impatto sui nostri futuri modi di vita.
Quindi, bene l’internazionalizzazione delle PMI italiane, che spingono l’export con un + 4,1% nell’anno scorso, ma meglio ancora una tutela finanziaria delle Piccole e Medie Imprese, per evitare che, proprio grazie ai loro successi, il Lupo Cattivo, travestito da Nonna Buona, ce le porti via.
Ipotizziamo quindi la creazione di una vera e propria Banca Nazionale della Piccole e Media Impresa.
Lo fanno già in Francia e Gran Bretagna, per non parlare dei “distretti” del Canton Ticino, pensati per diventare lo hub produttivo della grande mode in EU, o la rete ottimale dal punto di vista fiscale e burocratico che la Francia, appena fuori dalla Val d’Aosta di cui De Gaulle non digeriva l’italianità, ha creato per attirare le PMI piemontesi stanche di fisco eccessivo e di vessazioni amministrative.
La nuova Banca Nazionale per le Piccole e Medie Imprese ( e ricordiamo che oggi la redditività delle nostre aziende è al minimo, lo dice Bankitalia) dovrebbe gestire tutto il processo della finanziarizzazione delle PMI, dall’assicurazione del credito al factoring, cruciale in un contesto di pagamenti irragionevolmente “lunghi”, ai consorzi di garanzia e al rating del credito commerciale. La BNPMI si occuperà anche dei covenant creditizi, della gestione della titolarità delle garanzie, il medio-lungo termine, il rafforzamento patrimoniale.
Poi, in particolare, l’entrata in Borsa. Tutti sappiamo dell’indice PMI di Piazza Affari, e del mercato piccolo e specifico per alcuni titoli PMI.
Ma moltissime imprese non sono in forma giuridica azionaria, non possono quindi generare flottante per il mercato, e magari molte imprese hanno paura di vedersi sgusciare tra le mani il controllo da qualche raider, magari straniero, che ti sfila di sotto i piedi la tua azienda.
L’ipotesi più ottimista per i “mini-bond” delle PMI, che sarebbero un ottimo meccanismo di redistribuzione dei finanziamenti TLTRO varati da poco dalla BCE per l’Italia, è quella di 4mila PMI che emettono mini-bond, che sono obbligazioni, con tagli fino a 5 milioni di Euro.
Mini-bond di durata compatibile con quelle dei titoli di Stato, per evitare confusione nell’investitore, che potrebbero sostituire a determinate condizioni i Titoli di Stato con varie tipologie di rischio di investimento, che sarebbero comunque supportate dalla immissione di liquidità della BCE con la sua Targeted Long Term Refinancing Operation.
Se invece prevedessimo un mercato fisiologicamente piccolo, ma sicuro e stabile, di titoli emessi dalle PMI non costituite in SpA, allora si potrebbe immaginare una piccola Borsa autonoma che, con le garanzie di legge e internazionali, gestisce obbligazioni generate dalla nostra Banca delle PMI e da altri primari istituti di credito nazionali.
Vedremo cosa verrà fuori da questa proposta”.
Così il Prof. Giancarlo Elia VALORI, Presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa, in una nota.
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