Dal 7 al 9 settembre, 350 leader delle diverse religioni del mondo si sono dati appuntamento ad Anversa, in Belgio, per dire no alla guerra, ad ogni tipo di guerra, soprattutto di quelle combattute in nome di Dio, come accade ancora in Medio Oriente, in Nigeria, in Iraq, con jihad contro crociata, scordando che è solo la pace il vero futuro dell’umanità.
Proprio per questo l’incontro, nello spirito di quelli di Assisi, si chiama “Peace is the Future” e si svolge, da 19 anni, ogni anno in una diversa città, promosso dalla comunità “le Nazioni Unite di Trastevere”, caduto, quest’anno, nel centenario della I guerra mondiale e in un frangente geopolitico segnato da guerre in tutti i continenti.
In apertura, domenica, Andrea Ricciardi, fondatore della Comunità di S. Egidio, ministro del governo Monti, ha ricordato che “la guerra è tornata sul territorio europeo tra Russia e Ucraina e l’architettura del Medio Oriente è saltata in due anni, mentre i profughi fuggono perseguitati dal Nord Iraq. La Siria è in preda a una guerra dilaniante e inumana, con storie dolorose che nascono dalla riabilitazione dello strumento della guerra, ma pure dalla commistione tra religione e violenza”.
Durante la tre giorni interreligiosa, in primo piano, la situazione in Medio Oriente e in Maghreb, con il Gran Mufti della Repubblica Araba d’Egitto Shawki Ibrahim Abdel-Karim Allam che ha detto: “l’Islam è contro l’estremismo e il terrorismo in maniera assoluta, ma se non comprendiamo i fattori che contribuiscono a giustificare terrorismo ed estremismo, non potremo mai sradicare questa epidemia”.
L’inviato della Stampa Domenico Quirico, rapito per cinque mesi in Siria, ha affermato: “In Siria ci sono stati 200mila morti che non erano combattenti, ma bambini, donne e anziani indifesi. Dio sembra essere evaporato mentre il diavolo lavora alacremente”.
Aui perseguitati cristiani in Medio Oriente hanno dato voce il patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente Mor Ignatius Aphrem II e il patriarca di Babilonia dei caldei Louis Raphael I Sako, che hanno ribadito la speranza di vedere un giorno il Papa in persona in Iraq.
In una lunga lettera autografa indirizzata al vescovo di Anversa, mons. Johan Jozef Bonny, il Papa si è rivolto capi delle religioni chiamandoli ad essere “uomini e donne di pace”, capaci di “promuovere una cultura dell’incontro e della pace, quando altre opzioni falliscono o vacillano”.
Ed ha aggiunto: “Dobbiamo essere costruttori di pace e le nostre comunità devono essere scuole di rispetto e di dialogo con quelle di altri gruppi etnici o religiosi, luoghi in cui s’impara a superare le tensioni, a promuovere rapporti equi e pacifici tra i popoli e i gruppi sociali e a costruire un futuro migliore per le generazioni a venire”.
Leggendo queste cronache mi è venuto fatto di pensare alla differenza fra religione e fede perché, molto spesso, la prima è di ostacolo alla seconda a causa del fatto, come nota Enzo Bianchi, si presenta sempre come un sistema ben organizzato, che definisce, in un momento preciso, in un luogo determinato, in un contesto particolare, il modo di vivere la fede. Tutte le religioni lo fanno, e siccome questo riguarda Dio che viene definito immutabile, atemporale, e riguarda i rapporti umani con Dio, le definizioni che le religioni ne danno diventano automaticamente sacri, quindi immutabili e atemporali.
In questo modo la religione, è nemica del progresso e del dialogo, mentre, la fede, come nota Raimon Panikkar, deve interdersi come la capacità di aprirsi all’ulteriorità, a qualcosa di più, di oltre e di diverso.
Credo sia interessante a questo punto, occuparci di una religione minore, quella Bahá’í , in passato e a torto interpretata come di area islamica, secondo cui, nel corso della storia, Dio si è rivelato all’umanità con una serie di messaggeri divini, ognuno dei quali ha fondato una religione.; sicché parlano con linguaggi diversi dello stesso Dio Abramo, Krishna, Zoroastro, Mosè, Buddha, Gesù e Maometto.
Il 24 luglio, su il Fatto Quotidiano, Giampiero Gramaglia, ci ricordava che la principale vittima delle religioni è la verità e che, se una guerra è ideologica, o religiosa, la verità, lì muore più volte.
Il califfo al Baghdadi, alfiere della contrapposizione tra sunniti e sciiti ed epigono di al Qaeda, suscita ostilità nel mondo islamico: la sua pretesa di rivitalizzare il califfato, morto con la fine dell’impero ottomano, non è avallata dalle maggiori autorità religiose islamiche. E i cristiani gli rimproverano la persecuzione delle chiese a Mosul e altrove nei territori da lui controllati.
Ma quanto ci sarebbe da rimproverare ai cristiani e mussulmani che, di fatto e nel corso del tempo e della storia, hanno creato questo mostro di integralismo e di brutalità?
Alle tre del mattino da noi (21 negli USA9, Barack Obama ha cercato, in diretta tv, di convincere gli americani della necessità di una vasta offensiva, anche militare, contro la minaccia jihadista in Iraq e in Siria, senza però trascinare l’America in una nuova guerra, senza l’invio di truppe sul campo, con una ipocrisia difficile da sostenere, con bombardamenti aerei (proseguiti anche nelle ultime ore nell’ovest dell’Iraq) per agevolare il compito delle forze irachene, curde e sunnite che combattono l’esercito dello stato islamico sul campo e con il via a raid anche sulla Siria.
Una nuova crociata combattuta dal cielo, da lontano, come in un videogioco, ma non per questo meno feroce e crudele.
Il 6 settembre, a venezia, è andato il film americanissimo e di guerra “Good Kill” di Andrew Nicol, storia degli spedizionieri della morte, con uno di essi, ex pilota, che sogna il volo dei caccia ed entra in crisi, a poco a poco, nelle raffiche di missili inesorabili che ti mostrano come un film sul display il nemico che puoi colpire, senza rischiare. Il valore del film sta tutto in questo tormento: uccidere con un pulsante, colpendo un ragazzino o una donna che passa e non hai potuto evitare; una cosa di una crudeltà indicibile, anche se la memoria dell’11 settembre e dei fanatici sgozzatori suggerisce di farlo, mentre la guerra assomiglia sempre più a un assassinio organizzato con crudele vigliaccheria.
L’idea che solo l’occidente porta vera democrazia, la stessa che ha ispirato “I mastini della guerra”, il film ed il romanzo di Frederick Forsyth è una religione pericoloso quanto lo jiadismo, la versione moderna dello spirito delle crociate o del pensiero di grandi pensatori classici quali Clausewitz, generale prussiano, teorico e stratega sotto il regno di Federico Guglielmo III, che considera la guerra alla stregua di un duello, la cui violenza serve a costringere l’avversario ad eseguire la nostra volontà ed ha come scopo finale il disarmo dell’avversario stesso.
Come ha scritto due anni fa Luca Francesco Vismara in una acuta riflessione geopolitica, la vigliaccheria dell’Occidente oggi si spinge fino al punto di non pronunciare mai o quasi mai la parola guerra, sicché seminiamo violenza e scompiglio (in Iraq, Libia, Afganistan e altrove) senza, un vero e proprio cerimoniale che ne indichi l’inizio, col tutto che si riduce ad una votazione favorevole del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e molte volte, in verità, all’unilateralismo delle potenze dominanti) che decide di usare la forza etichettandola come “intervento umanitario” e di “peace keeping operations”.
Nel giugno del 2011, a Villa d’este a Tivoli, ho visitato la mostra “I battaglisti” ed ammirato, soprattutto, i quadri pieni di pietà e di orrore per la guerra, di Michelangelo Cerquozz, pittore romano nato nel 1602 e morto nel 1660, esponente di quella visione vernacolare e anticlassica che è la pittura dei “Bamboccianti”, anche noto come “Michelangelo delle battaglie”, che esprime il suo rifiuto per la guerra attraverso raffinati giochi di colore: il tocco di rosso nei pantaloni del ferito che accendere il quadro sulla destra; ed ecco il mantello su cui giace il cavallo, che è di un azzurro così intenso e brillante come non può essere il cielo, offuscato com’è dal fumo delle artiglierie, dal polverone della cavalleria e da minacciose nuvole all’orizzonte.
Rispetto alle grandi battaglie di Paolo Uccello, Tiziano, di Leonardo e Michelangelo, Raffaello fino al Cavalier d’Arpino in Campidoglio, le scene di guerra che si iniziano a dipingere dopo il 1630 non hanno intenti celebrativi o commemorativi.
Ma, nonostante siano passati quattro secoli, continuiamo a celebrare la guerra come eroica soluzione, dissimulandola di “artifici chirurgici” che vigliaccamente ci proteggono da rischi fisici e di coscienza.
La guerra riproduce se stessa e riproduce l’oscurità che l’uomo si porta nel cuore, come mostra il quadro per frattali di Dalì “Il volto della guerra” e come la storia, ancora oggi, ci insegna.
Carlo Di Stanislao
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