Dei termini celibe e nubile tutti sappiamo il significato, non fosse altro per avercelo trovato scritto sulla carta d’identità in un momento della nostra vita, alla voce: stato civile. È la condizione personale del cittadino o della cittadina, adulti, pubblicamente accettata e dichiarata di fronte alla collettività, precedente il matrimonio dei soggetti interessati; e perciò ufficialmente riconosciuta (e registrata) dall’amministrazione dello Stato. (Tant’è che tra i documenti necessari per contrarre matrimonio viene richiesta anche una certificazione di “stato libero”.)
La serie completa, che si usa trascrivere nei pubblici registri dell’anagrafe, e riportata sui documenti dello stato civile compresa la carta d’identità, è: celibe o nubile; coniugato o coniugata; divorziato o divorziata; vedovo o vedova, a secondo della situazione particolare. Non sarà di poco rilievo notare che, contrariamente alle altre parole della serie, utilizzate per le diverse condizioni di stato civile, la coppia delle parole celibe/nubile si specializza come opposizione semantica: celibe = uomo; nubile = donna. Proprio come tante altre coppie complementari di termini della famiglia, che indicano rapporti di parentela. Celibe è l’uomo; nubile è la donna, così come: padre/madre; marito/moglie; fratello/sorella; genero/nuora, per restare nella lingua italiana. Evidentemente, prima di arrivare alla forma astratta dell’opposizione grammaticale maschile/femminile, queste parole mantengono una loro caratterizzazione in base al sesso della persona denotata, alla sua funzione specifica, alla cultura del gruppo sociale, e, per finire, alla tradizione linguistica (la pratica dell’uso della lingua o semantica storica) della comunità. Non tutte le lingue hanno la medesima caratterizzazione, le quali pur conservando le stesse parole, ne usano solo una, indistintamente per l’uomo e per la donna: basti dare uno sguardo al francese (célibataire), o ad una delle altre lingue indeuropee. La stessa cosa succede – sempre nella lingua francese – con marié(e) (sposato) che si adatta al maschile e al femminile per indicare la persona sposata, mentre in italiano resiste ancora la distinzione tra maritata e ammogliato.
Il caelebs dei latini era l’uomo non ammogliato (anche vedovo). Ed è la forma che si conserva nell’italiano celibe.
Mentre nubilis è la ragazza in età da marito. Da nubo (nubo, nupsi, nuptum, nùbere = velarsi, prendere il velo da sposa, sposarsi) legato a nubes (nuvola). Come dire “entrare nella nuvola”. Metafora di un certo effetto che ben si adatta ai comportamenti delle ragazze che, trovato lo sposo, sognano il giorno delle nozze. (Ma forse questa è una mia suggestione dovuta alle espressioni moderne come “essere tra le nuvole”.)
A proposito di “nozze”, notiamo come anche questa parola derivi da nubo. Secondo lo schema: nubo nuptus e nupta (lo sposo, la sposa) nuptiae (le nozze).
Tenendo ancora un piede nella lingua (e nella cultura) latina vediamo anche come i Romani denominavano lo sposarsi dell’uomo. Mentre la donna “si sposa a un uomo (nubit = prende il velo in favore di N…)”, l’uomo “si porta a casa la donna” (uxorem ducit = conduce – porta a casa – come moglie M….).
Dallo stesso verbo duco (duco, duxi, ductum, dùcere = condurre) si sono formate anche le parole sedurre e seduzione.
Quanto a uxorem (uxor = moglie), poi, oltre che nella parola uxoricidio (omicidio del coniuge), la troviamo nella parola della parlata napoletana ‘nzura’ (‘nzurare [uxorare] = ammogliarsi ; ‘nzurato [uxorato] = ammogliato) usata per lo sposarsi dell’uomo. Per la donna si usa mmarità (maritarsi) come in altre regioni d’Italia.
Luigi Casale
Lascia un commento