Già a dicembre 2012 gli studenti di Hong Kong avevano organizzato una protesta dopo che il governo locale aveva introdotto la cosiddetta “educazione morale e nazionale” il cui scopo era cominciare a diffondere tra i residenti il senso di appartenenza alla Repubblica popolare cinese, protesta che non portò a nulla se non qualche atto sparuto di solidarietà internazionale e la stampa cinese contro, col silenzio (a parte poche eccezioni), di quella internazionale.
In quella occasioni si vide chiaramente che l’idea di fondo del Partito Comunista era è quella di colmare il gap esistente tra i cinesi continentali e hongkonghesi, che troppo spesso indugiano orgogliosamente sulla loro indipendenza e guardano dall’alto in basso i loro “compatrioti”.
In quella occasione la memoria tornò ai lunghi giorni di sciopero della fame degli studenti in piazza Tian’anmen nel lontano 1989, anche perché, con un tweet, Wang Dan – tra i principali ispiratori di Tian’anmen riparato a Taiwan, annunciò uno sciopero della fame per solidarietà con gli studenti Hong Kong.
Ora, dopo due anni, quegli studenti tornano in piazza per manifestare contro la decisione della Cina di non permettere libere elezioni nel 2017, con manifestazioni degli attivisti democratici, organizzata dal movimento locale Occupy central, cominciate il 27 settembre e l’occupazione, il 28, della sede del governo, mentre la polizia ha ha lanciato gas lacrimogeni e usato manganelli per disperdere la folla.
Hong Kong sta vivendo una grave crisi politica e culturale da quando, nel 1997, è tornata sotto il controllo cinese e l’esplosione del malcontento è iniziata dal 31 agosto, quando Pechino ha annunciato che non accoglierà la proposta di riforma elettorale presentata dagli studenti e dagli attivisti democratici, che da mesi chiedevano elezioni libere e a suffragio universale nel 2017.
Il congresso nazionale del popolo cinese ha annunciato che i candidati alla carica di governatore della città dovranno avere il sostegno di almeno il 50 per cento di un comitato elettorale centrale nominato da Pechino e, pertanto, solo pochi candidati riusciranno a superare la selezione e quelli che ci riusciranno avranno l’appoggio della Cina.
Durissima la risposta delle autorità alle proteste continuate anche oggi con migliaia di manifestanti in piazza, con la penisola di Kowloon ed il quartiere commerciale di Causeway Bay, teatri di sit-in, cariche della polizia e manifestazioni di studenti e dei loro sostenitori.
Le autorità hanno anche cercato di bloccare internet, il che non ha fatto altro che aumentare in modo esponenziale la presenza nelle piazze e a nulla è valso il rilascio del leader degli studenti Joshua Wong, 17 anni, dopo due giorni trascorsi in prigione.
I corrispondenti stranieri parlano di una violenza repressiva inaudita, con manifestanti con in mano ombrelli e cellophane con i quali proteggersi dagli spray urticanti e dai lacrimogeni, dotati di grande capacità organizzativa e disciplina, con, dietro di loro, gruppi di volontari che raccolgono la spazzatura, dividendola per il riciclaggio.
Un grande esempio di civiltà a cui la polizia risponde con determinazione e violenza, con arresti (78 pare sin’ora), gas lacrimogeni e proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo.
Proprio per evitare la diffusione di informazioni e immagini dal centro della protesta, il governo sta cercando di isolare anche la zona di Admiralty, fulcro della manifestazione, mentre l’amministratore dell’isola, Leung Chun-ying, ha dichiarato illegali i movimenti che sono scesi in piazza, dopo una settimana in cui ha ignorato le richieste di dialogo con i contrari al progetto di riforma, anche se si è reso disponibile ad avviare nuove consultazioni sulla riforma elettorale.
La protesta ad Hong Kong non sorprende, perché questo territorio ha uno status amministrativo speciale, che dipende per la politica estera e la difesa dal Governo Centrale Cinese, ma e'( o almeno dovrebbe) essere autonomo per il resto; infatti ha una propria moneta ( HKD) , emette propri passaporti e tra HK e la Cina esistono controlli di immigrazioni e di dogana.
Inoltre, ha una specie di ordinamento politico separato dalla Madrepatria, anche se poi, a conti fatti, il governatore e’sempre scelto dalla Cina, come anche i membri esecutivi dell’amministrazione.
Intanto Pechino è molto preoccupata e tuona contro l’Occidente, con il ministero degli Esteri, secondo quanto riportato dal quotidiano South China Morning Post, che ha avvertito Stati Uniti e altre nazioni di non immischiarsi negli affari di Hong Kong perchè le proteste sono una questione interna.
In verità, come scrivono vari giornali, la lotta per la democrazia a Hong Kong va avanti da diverse decadi e la novità che rende questa protesta più seria e più grave è che in piazza si danno sostegno reciproco almeno quattro generazioni di attivisti, uniti per la prima volta intorno a un’unica battaglia: che a Hong Kong sia concesso il suffragio universale senza che Pechino pre-approvi i candidati.
Ching Cheong, giornalista appartenente alla corrente del movimento che vorrebbe vedere tanto Hong Kong che la Cina democratizzarsi, lamenta che le azioni delle forze dell’ordine: “stanno alienando i giovani dalla Cina. Pechino è riuscita a gettare fertilizzante sui germogli di un movimento indipendentista che non aveva tanta forza. Adesso, i giovani vogliono autodeterminazione, dicono che non hanno nulla, nulla a che vedere con la Cina. Ma se Pechino non è abbastanza saggia da calmare le cose, e usa solo la forza, allora Hong Kong può diventare un altro Tibet”.
Comincia a preoccuparsi anche Renzi che su Rai3 da Fazio e poi in ogni luogo mediatico, ripete che sul Job Act tirerà dritto e leverà l’articolo 18, che è ideologico ed anacronistico, riuscendo a cementare i tre sindacati Cgil, Cisl e Uil che cercano, faticosamente, un’intesa per una manifestazione unitaria contro le politiche del lavoro del governo e la minoranza del Pd, a cui, nel direttivo di questo pomeriggio, replica che “L’imprenditore non è uno cattivo e deve avere diritto di lasciare a casa” e che “l’unica azienda al di sopra dei 15 dipendenti che non ha l’articolo 18 è il sindacato che poi ci viene a fare lezioni”.
Non vuole fare contento D’Alema o Bersani o Civati, Renzi, che, dichiara, di sognare una sinistra “sinistra che dà un’opportunità, non quella degli opportunisti. Non quella che gode al pensiero di stare inchiodati al 25% e gode a parlare fra di noi e non degli italiani”.
In direzione Pd sta dicendo che non torna indietro, che vuole cancellar i Cocopro e tutte quelle In forme di collaborazione che hanno fatto del precariato la forma prevalente del lavoro, che vuole scrivere le nuove regole del lavoro per i prossimi 30 anni, con il superamento dell’articolo 18, ma anche dei vari contratti incerti per “un mercato libero e flessibile”.
Belle parole che infiammano i cuori, ma il voto contrario di larga parte della minoranza Pd potrebbe rendere davvero concreto il rischio di scissione del partito. Uno spettro allontanato da Cuperlo: “Non voglio nemmeno sentire evocare quel termine – afferma il leader di Sinistradem -. Nel Pd ci siamo, è il nostro partito, la nostra casa, l’abbiamo voluta con tutta la passione possibile. Dopo la direzione si andrà in Parlamento, i gruppi discuteranno e assumeranno le loro posizioni com’è giusto che sia”. Ma sull’articolo 18 insiste: “Non basta dire che si confermerà il diritto di reintegra per i licenziamenti discriminatori”. Il leader dei giovani turchi, Matteo Orfini, chiede “robuste correzioni”. Un margine di mediazione è ancora aperto, tutto dipenderà dalla disponibilità di Renzi a cedere su qualche modifica al testo. Pippo Civati, però, è poco speranzoso. Dice che “l’unico che si è scisso è Renzi dal programma elettorale del Pd”. Acque agitate anche nel centrodestra. In Forza Italia – dove si discute sulla proposta di Silvio Berlusconi di fondere partito e club “Forza Silvio” – l’ala radunata intorno a Raffaele Fitto contesta un atteggiamento troppo morbido nei confronti del governo.
Carlo Di Stanislao
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