Ha ragione Lucio D’Ubaldo: “Eravamo un popolo di emigranti, oggi osserviamo con sorpresa mista a sgomento l’invasione di milioni di immigrati nei nostri centri urbani”.
Così, mentre mi vesto per andare a lavoro, debbo sorbirmi le follie di Matteo Salvini che parla della necessità di respingimenti, perché “prima ci si deve occupare degli italiani”, ignorando che sono loro, gli immigrati, a fornire attualmente il 10% del nostro debole Pil e a svolgere funzioni che gli italiani, molti italiani, rifiutano.
Anche se si dice che il nome compone il destino, omen nomen non funziona nel caso di questo e dell’altro Matteo (Renzi), che non sembrano “doni di Dio”, come vuole l’etimo che li fa risalire all’ebraico Matithya, composto da matag, ‘dono, regalo’, e da Yah, abbreviazione di Yahweh, ciòè Dio.
Dicono i toponomasti che i Metteo sono poliedrici, adattabili e saggi, ma nutro qualche dubbio se osservo i due Matteo richiamati.
Coloro che coniugano astri e nomi ci dicono che i Matteo sono generosi, leali e che matengono le promesse fatte, ma, evidentemente, prendono a volte delle solenni cantonate.
D’altra parte abbiamo perso la capacità di scrutare nell’animo dei neonati, come accadeva fra gli amerindi e nella Cina protostorica e di cogliere destino e attidutine nell’assegnare un nome, che non sia solo bello, rievocativo o sonoro.
Che nome dare, per restare in tema, al dramma della immigrazione, al Mediterraneo che si riempie di morti, agli sbarchi che non si fermano e all’Europa che resta indifferente, con l’Austria che repinge e la Spagna che spara?
C’è chi non si è limitato a capire l’universo doloroso degli emigranti, ma ha provato a costruire una risposta in termini di fattiva solidarietà. È bene farne memoria.
Sul suo diario, un prete a lungo osteggiato dalla Curia e difeso tuttavia da Giovanni XXIII, scriveva il 4 agosto del 1914: “Povero Vescovo! Qualche cosa muore in me con la sua dipartita”. Così don Primo Mazzolari rendeva omaggio a una figura straordinaria – anche, appunto, per il suo impegno al fianco degli emigranti – della Chiesa lombarda e italiana: Mons. Geremia Bonomelli, nato a Nigoline, vicino Brescia, il 22 settembre 1831 e morto sempre a Nigoline il 3 agosto 1914.
Era di formazione Gregoriana ma proveniva dal povero mondo dei contadini che debbono strappare un pane raffermo e frugale ad una tera dura Mons. Bonomelli e le due cose lo portarono a scrivere, nel 1892, quindi a un anno appena dall’Enciclica “Rerum novarum”, una lettera pastorale dal titolo inequivocabile: “La Questione morale è Questione sociale”, il cui valore trascende le fatiche di un lessico ottocentesco: dentro l’innovazione del capitalismo c’era da rimediare ai guasti del profitto sregolato, senza ignorare tuttavia la dinamica di un’economia apportatrice di nuove opportunità e nuovo benessere.
Ecco perciò l’approccio consigliato: condannare gli eccessi del capitalismo, ma cogliere altresì l’aspetto positivo di tanti uomini e tante donne strappati alla condizione atavica di miseria e di abbandono.
Cosa centri con la migrazione tutto questo è abbastanza chiaro: se genera occasioni di lavoro altrimenti sconosciute, la migrazione può essere propizia e quando non lo fa è solo per carenze della Stato.
Con la visione di un cristianesimo umanamente dinamico, Bonomelli irrompe sulla scena del suo tempo con la forza di un pensiero e di un’azione non più afflitti da burocratico dogmatismo e imbiancato fariseismo che arrivano sino a noi.
Ad agosto 2013, appena salito sul soglio di Pietro, un Papa eterodosso e pieno d’impeto che ha scelto il nome del Santo di Assisi, ha detto che oggi viviamo una “globalizzazione della indifferenza” , perché se è vero che la globalizzazione ha emancipato milioni di uomini, è anche vero che ha contribuito a una drammatica polarizzazione tra ricchi e poveri, tra popoli del Nord e del Sud del pianeta.
Di là dai proclami di Salvini e delle promese dell’altro Matteo, va riconosciuto che l’Italia non ha ancora un modello di integrazione efficace, e senza una precisa bussola politica (con una legge, la Bossi-Fini, da tutti riconosciuta inadeguata) e che sbandiamo nel vuoto di opposti effetti dell’immigrazione.
Due numeri fotografano la nostra incompiutezza. Il 44 per cento dei figli degli immigrati lascia la scuola prima della scadenza prevista dalla legge, gonfiando l’area della dispersione e il potenziale bacino di reclutamento della malavita organizzata. Allo stesso tempo, le imprese controllate dagli immigrati sono quasi 500mila e rappresentano ormai il 7,4 per cento dell’intero patrimonio aziendale del Paese, con punte vicine al 20 per cento come nel caso della regione Lombardia.
C’è un’immigrazione che possiamo assorbire e produce ricchezza, e c’è un’immigrazione che può peggiorare, e non migliorare, la coesione sociale del Paese.
Due anni fa ho visto un film esemplare: “Alì dagli occhi azzurri”, ispirato a Pier Paolo Pasolini, diretto con coraggio e ruvido piglio da Claudio Giovannesi, vincitore del Premio della Giuria al 7° Festival Inrternazianale del Cinema di Roma, dove uno dei protagonisti, Nader, è il figlio dei nuovi poveri, è il nuovo ragazzo di vita che abita le (stesse) periferie squallide che ridestano appetiti bestiali e ambizioni borghesi, è “il barbaro imborghesito”, nato dagli emigranti approdati alle ‘nostre terre’ dai loro paesi lontani, che pratica apatico la cultura diffusa del godimento pulsionale, chiuso su se stesso, monadico e sterile, incapace di nutrire correttamente il conflitto e di trasmettere la potenza generativa del desiderio.
Un nuovo morto, anche se non ha attraversato il mare e non è morto fisicamente durante quella traversata.
Nel 2011, non so per quale motivo, mentre il dramma degli sbarchi dei profughi Nord-Africani sulle coste Siciliane subiva alternativamente picchi e cali nell’agenda dei Tg nazionali, molti cineasti italiani si occuparono con passione e sensibilità del problema e alla 68° Mosrtrac del Cinema di Venezia, sono passati fra lacrime e scrosci di applausi (ma durati pochi istanti), Terraferma di E. Crialese – premio speciale della giuria; Là-bas di G. Lombardi – premio miglior opera prima; A chjana di J. Carpignano – premio Controcampo Italiano cortometraggi) e Cose della’altro mondo, l’unico a non eseree premiato, eppure il più meritevole, secondo me, assieme al film di Crialese.
Collocamndosi agli antipodi filmici, realista Terraferma e surreale l’altro, i due film in realtà esauriscono le loro più grandi divergenze forse solo nelle ambientazioni: l’isola Siciliana di Linosa (dove la modernità non si è mai insediata davvero) il primo, e la città di Treviso (dove l’industrializzazione ha al contrario preso il sopravvento sul contatto umano) il secondo; per sviluppare, ciascuno a suo modo, un nucleo tematico comune e fondamentale, ovvero il confronto plurigenerazionale, che è il tema centrale, credo, del dramma immigrazione.
In effetti ciò che mi rabbrividire più delle parole di Salvini è l’indifferenza di una nuova generazioone desensibilizzata, con un tramonto totale dei valori uimani, che delinea una Italia, che si vanta di essere tra le fila dei paesi più avanzati al mondo, che in realtà non ha mai sviluppato una parallela, radicale e lungimirante evoluzione multiculturale, per cui in un paradosso fantapolitico smaschera la sua perenne guerra tra poveri e pasoliniani mostri borghesi.
Ricordo che molti critici non hanno scritto positivamente del terzo film di Crialese, definendo Terraferma una dignitosa opera di denuncia di un problema scottante, racchiuso in una debola “forma cinema”.
Questo senza ricordare che a Terraferma, cioè al problema migranti-accettazioone, Crialese giunge dopo una pellicola sulla Identità e una sullòa trasformazione, volendoci dire che siaccetta l’altro solo dopo aver compreso chi si è e in che direzione si intende crescere e cambiare.
Come nota Antonella Elisa Castronovo, il popolare “föra dai ball” dell’allora capogruppo della Lega Nord Umberto Bossi, l’enfasi del guardasigilli Ignazio La Russa sull’arrivo dello tzunami umano o la proposta dei respingimenti armati da parte del parlamentare Roberto Castelli sono solo pochi, ma esemplari slogan che evidenziano come la “crisi sbarchi” sia stata – e sia tuttora – strumentalmente utilizzata per consolidare posizioni oltranziste e securitarie, per niente rispettose della vita e della dignità delle persone.
L’immigrazione non è solo una questione di movimenti di popolazione, ma è un fenomeno ben più complesso che scompiglia l’ordine politico e sociale degli Stati moderni, stimolando reazioni talvolta estreme e contraddittorie.
Va anche detto e notato come tutti i quotiodiani italiani abbiano condiviso l’indirizzo da “show della paura”, nel prsentare il fenomeno, con una insistenza pervasiva nell’utilizzo dei termini “invasione”, “assedio”, “ondata”; il richiamo costante ai numeri degli “invasori”; le immagini dell’arrivo delle “carrette del mare”, che disegnano un vero e proprio scenario di guerra.
E, per finire, come notava Amnisty International, è lo stesso governo italiano a precostituire le condizioni della crisi; a permettere che i migranti sostino su questa o quell’isola o centro straripante e disumano di accoglienza, senza alcun vero piano e senza nessun interesse ad organizzare una vera, possibile integrazione.
Ti faccio scendere e poi ti ignora, hanno detto i vari governi che si sono succeduti al comando, mentre come dimostrano gli avvenimenti storici più recenti, come scritto sul numero 7 di quest’anno di Dialoghi Mediterranei, il Paese intende solo esercitare una pressione sugli altri Stati europei facendo appello sull’issue dell’emergenza umanitaria e al di là delle retoriche politiche e dei registri discorsivi che caratterizzano ciascuna di queste narrazioni, l’elemento che accomuna la visibilità e l’invisibilità , è il processo di politicizzazione delle migrazioni internazionali; ovvero quel processo che, invocando la necessità di difendere le frontiere nazionali,che ha permesso e permette ai governi di legittimare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti.
Carlo Di Stanislao
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