Il corteo sfila compatto sulle note dei “99 Posse”, con, ogni tanto, un urlo che dice “Napoli libera” ed intende “libera” tutta l’Italia.
Alcuni manifestanti a volto coperto si sono schierati di fronte al cordone della polizia che ha cercato di disperderli con gli idranti, un fitto lancio di bottiglie, petardi ed altri oggetti, con un gruppo che è riuscito a scavalcare, con una scala improvvisata staccata da un automezzo, il muro di cinta della Reggia, ma è stato prontamente bloccato.
Si sapeva che il vertice europeo della BCE iniziato oggi nella Reggia di Capodimonte sarebbe stato un evento molto caldo, in una città da sempre inquieta e surriscaldata .
Il cronista de La Stampa ha riferito di una scritta con vernice nera, rossa e blu: “Ostility for austerity, ladri assassini fuck austerity”, con una metalingua tanto sgrammatica che eloquente del clima che muove la protesta e che solo la pioggia, per ora, è riuscita a placare.
E’ preoccupato Renzi dall’affondo improvviso e coraggioso della Francia che ieri si è ribellata alla linea del rigore imposta da Bruxelles ed in trasferta a Londra, replica duramente al pressing rigorista della cancelliera Merkel che ha parlato della necessità per i Paesi europei con i conti pubblici in difficolta’ di “fare i compiti”, ribattendo “: “Non siamo scolaretti” e “rispetteremo il vincolo del 3 per cento”.
Un colpo al cerchio e uno alla botte, anche perché sa bene il fiero Matteon che noi stiamo messi molto peggio della Francia quanto a burocrazia, riforme e conti pubblici, nodi che lui dichiara da tempo di voler scogliere senza mai averlo davvero fatto o appena avviato.
In visita alla City, Renzi intende presentare tutti i passi avanti fatti nei sei mesi trascorsi dal primo viaggio a Londra e sostiene che lui le riforme le già avviate, concentrandosi, come esempio virtuoso da dare agli eventuali investitori, sull’ aggiornamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, definita una battaglia non ideologica e che apre ud un grande rinnovamento del mercato del lavoro.
Pochi giorni fa Antonio Pergolizzi ricordava Ceronetti che per ben altre roventi questioni italiane scriveva “la carta è stanca” ed introduceva, attraverso il sequestro della Dia di Palermo a tale Vincenzo Panicola, ritenuto uno dei fedeli prestanomi dell’inafferrabile Matteo Messina Denaro, una fortuna fatta di società di costruzioni e di servizi energetici, la questione dei capitali (pare 80 miliardi) che lo Stato ha requisito alla mafia e che giacciono inutilizzati, invece di abbattere il debito pubblico, non rosicchiare stipendi e pensioni, preoccuparsi del welfare e del territorio, creare nuovi posti di lavoro per giovani e più avanti negli anni.
Pochi minuti fa, sul web, Repubblica lancia la notizia secondo cui la procura palermitana ha aperto un’indagine sulla cessione dei beni dell’ex senatore Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, con il forte sospetto che ci siano state vendite fittizie di ville, appartamenti, quote azionarie, conti correnti, quadri e libri antichi per un valore di varie centinaia di milioni di euro.
Lo scorso 22 settembre il ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), è intervenuto alla sessione introduttiva della conferenza internazionale sulla confisca dei beni alle organizzazioni criminali organizzata dall’Isisc (Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) a Siracusa. “In materia di beni confiscati alla mafia – ha esordito il ministro – l’Italia ha costruito una normativa molto avanzata che, tra l’altro, stiamo rafforzando con interventi di riforma. E’ importante che questi strumenti siano omogenei e diffusi a livello europeo ed in questo senso questa iniziativa è un momento di ulteriore verifica e di analisi di grande importanza”. Tra le prerogative del Guardasigilli per la presidenza italiana del semestre europeo ci sono anche quelle relative all’istituzione di una procura generale con funzioni di coordinamento oltre alla formazione comune dei magistrati delle varie nazioni di Saul Caia e Dario De Luca.
Eppure qualcosa non funziona. Nel report di Ferragosto sulla sicurezza del Paese, il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha presentato i successi dell’antimafia: negli ultimi quattro mesi sono stati sequestrati 2.500 beni e confiscati 414, per un valore complessivo che supera il miliardo. Cifre e volumi che farebbero pensare a una favola con il lieto fine. Eppure il meccanismo è in sofferenza e la macchina delle misure di prevenzione patrimoniale non viaggia come dovrebbe. Troppe le questioni irrisolte. In primis l’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati che si inceppa nell’ultimo passaggio della riassegnazione: immobili che restano vuoti o ancora occupati dai familiari dei boss in carcere, terreni abbandonati dove invece potrebbero nascere cooperative di giovani, aziende che con i quattrini dei mafiosi andavano a gonfie vele e che la gestione statale ha affossato spingendole verso il fallimento.
Pochi giorni fa Francesco Proietti Cecchini, segretario provinciale di Pavia del Sap, ricordava che ci sarebbero i tre miliardi e mezzo di euro del Fondo unico giustizia, provenienti dai sequestri alla mafia e tutte quelle risorse sono bloccate per mancanza di un decreto.
L’11 settemmbre su il Fatto Quotidiano, Giuseppe Pipitone ha intervistato Elio Collovà, Elio Collovà amministratore giudiziario e consulente della procura di Palermo, che in quasi trent’anni di attività ha amministrato decine di beni e aziende confiscate a Cosa Nostra il quale ha ricordato che dall’assassinio di Pio La Torre sono passati 32 anni, eppure lo Stato non è ancora pronto a gestire i miliardi confiscati ogni anno alle mafie.
A ciò si aggiunga quanto emerso da una inchiesta per Repubblica si Federica Angela sulle associazioni antimafia che pullulano a nord e a sud nel nostro paese e che, a fronte di buoni principi e di slogan efficaci, lontano dai riflettori, finiscono per far emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli, tanto da dissipare completamente una lotta che è fatta di passione e onestà, dissolta in mille rivoli, partendo da un’antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l’obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative.
Sciascia per prima ha parlato di “professionisti dell’antimafia” e di “eroi della sesta”, che attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità.
Per non parlare poi delle ombre lunghe che ancora aleggiano sul rapporto “stato-mafia”, legato alla stagione delle stragi del 1992, disseminato di “indicibili intrecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) che risalgono a tempi molto più antichi secondo quanto ricostruito da Giuseppe Russo, alto ufficiale e investigatore di punta dei carabinieri, ucciso nella piazza di Ficuzza (vicino a Corleone) il 20 agosto 1977, mentre indagava sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafiose a Palermo e provincia.
Vedremo su La /, fra pochi giorni, in prima serata, introdotto dal solito Mentana, “La trattativa”, ultimo film di Sabrina Guzzanti, narrazione in docu-film di uno stato che tratta con la mafia, in una logica di una gestione del potere che è fondamentalmente antidemocratica, che si serve del crimine e diventa essa stessa criminale o svolge una funzione di legalizzazione della illegalità.
Ciò che ha spinto Sabina Guzzanti ha girare questa pellicola è che (come ha detto alla “prima” Palermitana del film): “c’è un punto di vista politico che dovrebbe essere più importante di quello penale. In un Paese dove la cultura mafiosa è predominante è necessaria una riflessione”.
Il processo su un presunto accordo fra Stato e mafia continua a Palermo e lo scorso 25 settembre, al termine di un’udienza tesa che ha visto l’ex segretario Dc Ciriaco De Mita, nei panni di teste, confrontarsi aspramente con i pm di Palermo, il presidente della corte d’assise ha letto l’ordinanza con cui torna a ribadire che il capo dello Stato Giorgio Napolitano dovrà deporre al dibattimento sulla trattativa Stato-mafia.
Una decisione, quella dei giudici, sollecitata dalle difese di alcuni imputati che, dopo avere letto la lettera con cui il presidente della Repubblica, di fatto faceva sapere alla corte di non avere molto da dire sul processo, avevano chiesto la revoca dell’ammissione della deposizione. “Prendo atto dell’odierna ordinanza della Corte d’Assise di Palermo. Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”, dichiara lapidariamente Napolitano.
Il capo dello Stato dovrebbe riferire dei timori espressigli dal suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, poi morto, su episodi accaduti tra il 1989 e il 1993 riconducibili, secondo i magistrati, proprio alla trattativa Stato-mafia.
Nonostante lo scorso novembre Napolitano avesse inviato una lettera al Presidente della Corte nella quale diceva di non aver avuto “ragguagli” o “specificazioni” da D’Ambrosio riguardo ai quei timori e, pertanto, di non avere “da riferire alcuna conoscenza utile al processo”, il collegio ha ritenuto di dover ugualmente raccogliere la sua testimonianza di Napolitano e, nei prossimi giorni, la corte dovrà concordare col Quirinale la data della testimonianza che verrà resa al Colle alla presenza dei soli pm e difensori.
Tutto questo mentre tentiamo di far credere al mondo di essere cambiati, migliorati, di essere più concreti ed affidabili.
Ricordate la revisione dell’accordo tra Italia e Svizzera? Monti lo dava per fatto entro novembre 2012, Saccomanni per maggio 2014, ma sono stati mandati a casa, entrambi, senza aver mantenuto la promessa.
Si è detto a causa del fato che la vita dei governi in Italia è troppo breve e non si è detto, invece, che sia nel 2002 che nel 2004 la Svizzera aveva offerto all’Italia di aprire allo scambio di informazioni – sulla base di accordi appena siglati con gli Stati Uniti (2002) – e all’assistenza amministrativa in ambito fiscale – accordo con la Germania (2004).
L’Italia non ha aderito a nessuna delle due offerte e sia nel primo che nel secondo caso i governi Berlusconi (Ministro Tremonti prima e Siniscalco poi) hanno lasciato cadere l’invito. Prodi, instauratosi nel 2006, è corso ad accogliere le proposte svizzere ringraziando per la collaborazione, ma a parte questo, nulla di fatto. La Svizzera, quando ha trovato controparti veramente motivate e disponibili al dialogo, ha rivisto i propri accordi internazionali nel giro di qualche mese. Invece, l’introduzione unilaterale di norme anti-abuso da parte dell’Italia, i grandi proclami mai seguiti da fatti concreti sollevano forti dubbi negli svizzeri dell’effettiva volontà italiana di negoziare (negoziare e non imporre il proprio volere) e sull’affidabilità dell’Italia come controparte di una revisione dell’accordo.
Insomma, la madre dei nostri problemi è proprio l’affidabilità e, pertanto, di credibilità, attendibilità ed esattezza.
Francesco Romano Ferretti ha scritto qualche tempo fa, in un bilancio della economia continentale degli ultimi quindici anni, che L’Italia non ispira alcuna fiducia agli altri Stati e che i governi europei non credono nella affidabilità del nostro Paese, e che ritengono che Renzi sia financo dannoso, perché oltre che inaffidabilità è pure inconcludenza.
Storicamente l’Italia ha fatto dell’instabilità e dell’inaffidabilità la propria cifra. Sono state fatte guerre a metà, non è stata data parola che sia mai stata rispettata o anche solo onorata, siamo stati i campioni di mutamenti frequentissimi di schieramento, spesso veri e propri voltagabbana, e per di più in base a calcoli erronei di posizione, il Paese ha depauperato il sud sostituendone la parte produttiva con un disgraziato assistenzialismo e riporto statale segnandone per sempre il drammatico divario con il nord.
Non si crea fiducia con alle spalle inconsistenza, inconcludenza, ridicolaggine e incapacità. La credibilità dell’Italia passa per il riordino e la trasparenza della politica e di ogni istituzione. E non per la retorica sognante e a buon mercato di Renzi.
Siamo insomma un paese di cialtroni, ben fotografato dai Vanzina con il loro cinquantesimo film: “Buona giornata”, una nazione di bugiardi e di politici corrotti, un’Italia dove i furbi se la cavano sempre e dove la svolta della vita la si cerca scartando pacchi in tv.
Carlo Di Stanislao
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