Il discorso di Draghi non convince gli investitori e tutte le borse precipitano, con crollo di 4 punti a Milano, anche perché, considerando un investimento promesso dalla BCE di 300 miliardi, questo rischia di essere insufficiente, se si tiene conto gli USA di miliardi ne ha messi a disposizione 800, e subito.
L’attesa per la riunione della Bce, che per la prima volta nella sua storia si è svolta a Napoli, era in effetti tutta centrata sui dettagli del piano di acquisto di Abs i titolii cartolarizzati che “impacchettano” prestiti a imprese o famiglie e che vengono scambiati sul mercato, liberando così i bilanci delle banche.
Draghi ha detto che gli Abs saranno acquistati ”nel corso del quarto trimestre”, dunque presumibilmente dopo i primi acquisti di covered bond, perché, evidentemente, l’obiettivo della Bce è di rilanciare questo mercato, crollato durante e dopo la crisi finanziaria, per dare alle banche nuovi strumenti di credito.
Fra le maglie di questo discorso il governatore ha fatto capire che la Bce si pone l’obiettivo di riportare il suo bilancio ai massimi storici di 3mila miliardi di euro toccati all’inizio del 2012 e, siccome il suo bilancio attuale conta attivi pari a 2mila miliardi, vuole mettere in circolazione nuova liquidità per circa mille miliardi.
Ma le promesse sono state definite velleitarie e fumose dagli operatori economici che invece hanno ricevuto un impatto negativo dalla affermazione secondi cui: “i dati di fino settembre indicano un indebolimento del ritmo di crescita e dello slancio della ripresa economica nell’area dell’euro” e che nel 2015 la ripresa sarà solo moderata.
Quanto alle parole di Renzi e ai fatti di Hollande, Draghi ha invitato i Paesi dell’area dell’euro a “non distruggere i progressi già compiuti e procedere con le norme previste dal Patto di stabilità”, presentando documenti programmatici di bilancio per il 2015 in cui sia evidente che la stabilità deve rimanere “l’ancora della fiducia nella solidità delle finanze pubbliche, e la flessibilità consentita nell’ambito delle regole dovrebbe permettere ai governi di far fronte agli oneri di bilancio connessi a grandi riforme strutturali, di sostenere la domanda e di realizzare una composizione delle politiche di bilancio più favorevole alla crescita”. In sostanza, “la piena e coerente applicazione dell’attuale quadro di sorveglianza macroeconomica e dei conti pubblici dell’area dell’euro è indispensabile per ridurre gli elevati rapporti debito/Pil, aumentare la crescita potenziale e rafforzare la capacità di tenuta dell’area agli shock”.
La pensano diversamente, come è noto, i francesi, che rifiutano di adottare nuove misure di austerità e prevedono, per quest’anno, un deficit al 4,4% del Pil ed anche Renzi che, ancora da Londra, scende in campo al fianco di Parigi e si schiera con forza contro il partito del rigore che, capeggiato dalla Germania, continua a condizionare Bruxelles.
“Italy is back (l’Italia è tornata) è il messaggio lanciato da Renzi al termine della conferenza alla comunità finanziaria della City, con l’obiettivo influenzare positivamente gli operatori, che però non sono convinti (come dimostra il crollo di Milano e la risalita dello spread), che il nostro Paese stia davvero cambiando.
Nella riunione dei vertici Pd è stata approvata con 130 voti favorevoli, 20 contrari ed 11 astenuti la relazione di Renzi sul Jobs Act , e sui questa, mercoledì, dovrebbe iniziare la discussione alla Camera.
Contrari si sono detti D’Alema, Bersani, Fassina e Cuperlo, alimentando le voci di una profonda spaccatura dentro al Partito Democratico.
E, sembra anche, che, in queste ore, i tecnici di renzi stiano preparando un emendamento che sarà più “soft” rispetto a quello votato dalla Direzione del Pd, per non esacerbare troppo gli alleati centristi da una parte e per provare a non scontentare troppo la sinistra, che chiede di cambiare la legge delega.
Questo anche perché Forza Italia (dove si consuma il duello fra Berlusconi e Fitto), esclude un “soccorso azzurro” e bisognerà vedere quali saranno le reazioni alla lettura del testo, con Poletti che già fa capire dove si va a parare quando dice che: “la legge delega della riforma del lavoro prevede la possibilità del reintegro per i licenziamenti disciplinari, ma solo per casi particolarmente gravi e determinati; mentre la minoranza bersaniana vuole un testo a maglie più larghe che recepisca alla lettera la formula votata dalla Direzione Pd sui licenziamenti disciplinari.
Pertanto l’iter parlamentare si prevede difficile e irto di ostacoli, con divisioni nette al’interno dei gruppi, come dimostrano le fumate nere, ben r oltre la “decenza”, nella elezione dei due parlamentari da mandare al CSM.
Da Palazzo Chigi avvertano che se il percorso si complicasse, c’è sempre la via del decreto legge; strada che non piace a Napolitano e che Fassina è già pronto a giudicare “atto d’imperio”.
Comunque sono in molti oggi a scrivere che con la sua presa di posizione con la Francia, Renzi è riuscito, almeno per un poco, a ricompattare la sinistra, partito ferito e lacerato che adesso, a differenza di centristi di Ichino, del Ncd di Alfano e di Forza Italia, si raccoglie, superando le divisione tribali, benedicendo il colpo assestato alla Merkel, cavalcando la “svolta” ed incalzando il premier ad andare oltre.
In questo “oltre” la proposta rischiosa (come l’ha definita l’Espresso) del trattamento di fine rapporto in busta per il 2015, il che vorrebbe dire per un lavoratore medio, 100 euro circa di più, che aggiunti agli ormai celebri ottanta, potrebbero rilanciare la possiblità di spesa e, quindi, economia e consumi.
Si dico d’accordo Landini e Marchionne e alcuni esperti come il matematico Beppe Scienza, studioso di risparmio e previdenza che insegna all’Università di Torino, ed è autore di un libro in cui, nel 2007, sosteneva “conti alla mano”, perché fosse meglio non investire il Tfr nei fondi pensione, come suggerito dall’ultima riforma; ma a patto che vi sia una tassazione più favorevbole ed una indicizzazione.
Ma i rischi sono molti e di vario tipo e, fra questo, soprattutto il fatto che per le casse già in difficoltà delle imprese, potrebbe esser il colpo di grazia, come si evince dalle forti remore già espresse da Confindustria.
Inoltre, come ricordano in un editoriale congiunto sul Corriere Massico Fracaro e Nicoletta Saldutti: “Gli accantonamenti annuali del Tfr ammontano a 25 miliardi. Di questi, 5,2 confluiscono nella previdenza complementare, 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti all’Inps e ben 14 sono finanziamenti per le piccole imprese”. Insomma, col piano Renzi, si verrebbero a creare “tre buchi”, tra cui quello dell’Inps, già notoriamente in difficoltà, a cui verrebbero a mancare, secondo il Corriere, “tre miliardi l’anno”.
Passando ad altro in questo fine settimana, ad Hong Kong sembra di vivere un sogno, con ad Admiralty, sul cavalcavia della superstrada, uno striscione con la scritta “Do you hear the people sing?”, motivo preso dal musical “I Miserabili” che è diventato la colonna sonora degli studenti che da cinque notti occupano la city. Ieri questo popolo di sognatori ha lanciato un ultimatum: “Il Chief Executive di Hong Kong, CY Leung, deve dimettersi entro oggi, altrimenti comincerà l’occupazione dei palazzi governativi”.
L’ultima è scaduto senza un nulla di fatto, ma, contrariamente alle previsioni, la polizia non è intervenuta.
Dopo la violenza le autorità locali stanno usando la tattica dell’attesa, pensano di far stancare i dimostranti e far perdere la pazienza alla gente che non prende posizione ma vede le strade impraticabili, gli autobus e i tram soppressi, i negozi e diverse banche chiusi.
Insomma la pratica del sedersi sulla sponda ed attendere che il fiume porti il cadevere del nemico, massimo molto cinese, ma che riguarda anche l’indole degli studenti di Hong Kong che cinesi a tutti gli effetti sono.
Il 1° ottobre, festa della fondazioone della Repubblica Popolare Cinese, 550.000 persone occuopavano il centro di Hong Kong, letteralmente “Porto Profumato”, che con sette milioni di abitanti su una superficie di poco più di 1.000 km2, è una delle aree più densamente popolate al mondo e che gode delle più alte posizioni nelle classifiche mondiali di tipo economico, della qualità e durata della vita e circa l’indice di sviluppo.
Un’insieme di isole misteriose, abitati dai favolosi Hakka, dentro cui si nascondono vari enegmi (la Dama Bianca, la Casa Rossa di Ship Street ed altri, come ricorda Legora Cappa nel bel libro per raggazzi “Una gallina ad Hong Kong”), ma che è sempre stata molto propenza agli scambi con l’occidente (portoghesi prima e infglesi poi) e insofferente dei vincoli del potere centrale.
Come scrive Europa, Hong Kong è una grana che il Partito Comunista cinese intebnde non trasformare in una nuova Tien An Men, perché il suo problema di ora è ristabilire l’unità del Partito comunista dopo le recenti “purghe”.
Coloro che sono al comando ritengono che saròà difficile che Hong Kong viva nel caos, perché, proprio nel rispetto della legge, nell’esposizione all’estero, nella regolarità del business ha trovato la sua ragion d’essere diversa e la sua prosperità.
Tutti gli altri invece, pensano che alla fine Pechino dovrà scendere a patti e salvaguardare la diversità dell’ex colonia, perché la Cina non può intervenire, in quanto, sotto gli occhi del mondo intero, non può permettersi una riedizione di Tien An Men.
La Cina perse il controllo su Hong Kong in tempi relativamente recenti, dopo la prima Guerra dell’Oppio, che fu combattuta tra il 1839 e il 1842.
In quegli anni il gigantesco impero cinese era devastato dalla corruzione e dal malgoverno, impoverito dopo secoli di ricchezza e pesantemente costretto tra le volontà di espansione militare e commerciale dei paesi europei, con in testa l’impero britannico.
Il Trattato di Nanchino mise fine alla guerra: i britannici ottennero l’apertura al commercio di cinque porti della Cina, compreso quello di Shanghai, senza dovere più fare riferimento a intermediari per trattare con i mercanti cinesi. L’accordo prevedeva inoltre che Hong Kong, una piccola isoletta nel delta del fiume delle Perle, nella Cina meridionale, passasse sotto il controllo del Regno Unito.
Negli anni seguenti, grazie ad altri trattati di pace, la colonia britannica si espanse e nel 1898 la Cina cedette i Nuovi Territori: quasi mille chilometri quadrati di isole e terraferma.
Poi, con una grande cerimonia organizzata il primo luglio 1997, terminarono i 156 anni di dominio coloniale britannico di Hong Kong, che divenne la prima Regione Amministrativa Speciale ma che, evidentemente, sogna di essere ciompletamente autonoma e completamente votata al liberismo super capitalistico, che continui nella direzione del petiodo britannico che l’ha portato, secondo l’Index of Economic Freedom, classifica realizzata dal Wall Street Journal in collaborazione con la conservatrice Heritage Foundation degli Stati Uniti, ad essere “l’economia capitalistica più libera al mondo”.
Come ricordava giorni fa il Foglio di Ferrara, Hong Kong è uno strano miscuglio di comunismo e capitalismo, con manifestanti che hanno organizzato un servizio di pulizia per il rassettato delle strade, i leader della protesta che hanno organizzato dei corridoi in mezzo al sit-in per i passanti, i volontari che hanno distribuito banane ed altri generi alimentari ai passanti.
E’ proprio questa eterodossa eccezzionalità commista che il movimento Occupy Central vuole difendere, dalla sua fondazione, nel 2011, con l’occupazione di un edificio della banca Hsbc.
Ma, a ben vedere, ciò che si vuol difendere è qualcosa che fa parte dell’antico retaggio cinese, un legame con la tradizione spazzata via dagli ultimi 65 anni di comunismo rinnovatore, mescolato ad un senso molto filo-occidentale di successo, perché vedono che il modello Hong Kong incalzato dalla Cina, è in affanno, e i giovani se ne sentono tagliati fuori, avendo perso le opportunità dei loro genitori e sapendo (o temendo) che Pechino ha in mente per un futuro in cui Hong Kong non sarà più una città eccezionale.
Quello che Occupy Center chiede, a ben vedere, è da una parte ripianare le diseguaglianze (la più parte dei ledar è di cultura cattolica), riparare il capitalismo sregolato della grande piazza finanziaria, smuovere lo status quo, ma allo stesso tempo non scivolare nell’appiattimento dei egimi socialisti.
E’ un problema sentito anche dall’élite economica, perché , quando i banchieri e gli imprenditori vedono la statistica (riportata dal sito Vox) secondo cui nel 1997 Hong Kong valeva oltre il 18 per cento del pil della Cina e ora vale solo il 3 per cento, e quando vedono il governo di Pechino puntare sui mercati di Shanghai e di Shenzhen e snobbare Hong Kong, provano la stessa sensazione di disagio degli studenti.
Carlo Di Stanislao
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