Lo protesta è finita il 13 ottobre, dopo 16 giorni, con l’ultimo messaggio del movimento arrivato da Facebook, dove il giovanissimo leader Joshua Wong, che lo stesso giorno compiva 18 anni, postava una lista di desideri per il futuro delle proteste pro-democratiche.
Ad Hong Kong ora tutto tace, da quando la polizia, il 13 scorso, cominciando all’alba, ha rimosso le barricate di Admilarty, nel centro finanziario e amministrativo di Hong Kong ponendo di fatto fine alla occupazione da parte degli studenti e del gruppo di attivisti di Occupy Central.
Wong, leader di Scholarism, la sigla che comprende gli studenti delle superiori, ha chiesto che le proteste rimangano pacifiche, che i manifestanti mantengano la volontà di continuare che l’Assemblea Nazionale del Popolo rinunci alla propria proposta di riforma elettorale che non comprende la possibilità di una scelta popolare dei candidati; ma il governatore CY Leung ha dichiarato che ci sono “zero possibilità“ che la Cina cambi idea riguardo alle modalità di elezione della massima carica di Hong Kong e ribadito che non intende dimettersi, nonostante i manifestanti abbiano più volte chiesto la sua testa.
Molti giornali, comunque (in Italia Repubblica, il Corriere e l’Espresso), sostengono che anche se rintuzata la protesta di Hong Kong segna di fatto un necessario cambiamento nella politica del Paese, perché adesso,citando Mao Ze Dong ma al contrario, c’è molta confusione sotto il cielo cinese, le terre di frontiera hanno fatto con entusiasmo il tifo per la protesta inscenata dagli studenti a Hong Kong contro la decisione di impedire elezioni libere nel 2017 come promesso da Pechino nel 1997 quando il territorio le venne ceduto dagli inglesi e nella battaglia di quei giovani studenti, cresciuti in un ambiente libero dall’educazione nazionalistica e censurata impartita ai colleghi cinesi, desiderosi di volare al di fuori della gabbia dorata costruita per loro dal Partito, vedevano riflessa la propria.
Hanno tifato per gli studenti i tibetani annichiliti da mezzo secolo di dominazione ; gli uiguri nella lontana regione islamica dello Xinjiang dove non esiste differenza tra terroristi e dissidenti ed il popolo di Taiwan, intrappolato in un limbo esistenziale da cui Pechino non permette via d’uscita se non nel suo mortale abbraccio.
L’atteggiamento di Taiwan è paradigmatico del fatto che ora, non sono solo le frange dell’impero a ribellarsi, dal momento che anche il presidente taiwanese Ma Ying-jeou – da sempre vicino a Pechino – sostiene ora che la nomenclatura dovrà rispettare gli accordi stipulati in vista di un’eventuale riunificazione.
Federica Bianchi ricorda che, già la scorsa primavera un gruppo di studenti riuniti in quello che fu poi chiamato “il movimento dei girasoli”, occuparono il parlamento di Taipei per un mese, riuscendo a bloccare il passaggio di una legge voluta dal presidente taiwanese che avrebbe consentito a Pechino di avere un’enorme influenza sull’economia dell’isola.
Già allora, la più parte dei 23 milioni di abitanti dell’isola non eraconvinto che la cosa sarebbe stata nel loro interesse e adesso, dopo “gli eventi di Hong Kong”, appare evidente che le mire cinesi per un’unificazione di qualche tipo sono definitivamente sepolte.
Questo è probabilmente il successo maggiore ottenuto dagli studenti, assieme all’area calda raggiunta dal termometro della difficoltà di Pechino di conquistare i cuori e le menti delle popolazioni su cui non ha mai avuto pieno controllo.
Persino a Macao, il casinò più grande del Mondo, vi è rivolta contro il governo centrale, con i cittadini della ex colonia portoghese che quest’anno, capeggiati da Jason Chao, presidente di un gruppo a favore della democrazia, sono più volte scesi in strada per protestare contro lo status quo, rivendicando, esattamente come a Hong Kong, che il principio “un Paese, due sistemi” non è davvero rispettato.
Edward Freidman, professore di Scienze politiche all’università di Winsconsin-Madison, intervistato a proposito della condanna al carcere a vita comminata da Pechino al prof. Ilham Tohti, il quarantaquattrenne docente dell’Università delle Minoranze Etniche di Pechino, considerato uno dei commentatori più equilibrati sulle questioni etniche del Xinjiang, ha detto: “Qualche volta la repubblica cinese funziona e altre no, esattamente come la dinastia Qing negli anni del suo declino, in cui i ricchi e i potenti erano collusi con violenti e banditi perché non avevano più nessun ascendente sulla parte migliore del popolo”.
Carlo Di Stanislao
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