L’Italia è scesa in piazza, anzi in due piazze in questo fine settimana, alla Leopolda per sostenere Renzi e le sue riforme e a piazza S. Giovanni per protestare contro un governo che pare minacciare i lavoratori, gli studenti ed i pensionati.
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante parlano di una “piazza reale” a S. Giovanni ed un’altra virtuale alla Leopolda, con la prima appiattita sulla irriducibile difesa di conquiste sindacali ormai anacronistiche e la seconda che cerca di coniugare sinistra e futuro, con, al quinto incontro, un’agorà piena di rottamatori piuttosto scapigliati, a formare una specie di palestra tecnocratica con istruttori non proprio estranei all’establishment – da Davide Serra a Patrizio Bertelli – che hanno spiegato ai convenuti come si fa nella vita ad “arrivare”.
Per molti entrambe le piazze, sebbene gremite, hanno dimostrato che il problema di coniugare sinistra è futuro è affrontato male in Italia, sia dai renziani che dalla Cgil e dalla minoranza Pd, che continuano a duellare sul diritto allo sciopero e sull’articolo 18 e non affrontare i veri problemi che sono relativi al lavoro, ai giovani, alla green economy e al ritardo strutturale e tecnologico del Paese.
Un Paese diviso ed incerto, disorientato, che ormai diffida sia della Camusso che delle personolità politico ed imprenditoriale del renzismo, immaginando che dietro agli slogan, sempre molto efficaci, non vi sia che aria fritta o vuoto pneumatico.
Nel comizio finale, la Camusso ha criticato direttamente il premier e la politica del governo e ha assicurato che la protesta della Cgil proseguirà “con tutte le forme necessarie, anche con lo sciopero generale”, mentre su Skytg24, Rosy Bindi e Pippo Civati , hanno usato parole molto dure nei confronti del premier-segretario e della kermesse fiorentina, stigmatizzando malignamente il fatto la Leopolda sia finanziata da persone come Davide Serra.
Su Rai3, da Fazio, e prima ancora sul Tg5, ha risposta il ministro Maria Elena Boschi che, ha spiegato, alla stazione fiorentina simbolo del renzismo “ ci sono migliaia di persone” e che lei non vede imbarazzo o situazioni imbarazzanti perché si tratta “ di persone che si stanno ascoltando e confrontando ed anche questo è parte del Pd”.
Comunque, sia il ministro del lavoro in televisione, che dal palco della Leopolda Silvia Fregolent (una delle coordinatrici della kermesse), sono costretti ad aggiustare il tiro ed affermare che loro, i leopoldini-renziani, sono per la Costituzione ed intendono rispettare il diritto allo sciopero”, pur volendo costruire una Italia nuova ma non per questo “priva di diritti”.
Marco Da Milano su L’Espresso dice che Renzi ha bisogno di un nemico a sinistra, mentre il dogma del Pci era nessun nemico a sinistra, per non far germogliare nessun concorrente sul fianco sinistro, al punto di combattere una guerra di posizione perfino nelle aule parlamentari, per evitare che qualche gruppo di radicali o di demoproletari riuscisse a sedersi alla sinistra del grande partito della classe operaia.
Con lo slogan, invece, del futuro contro la nostalgia ed i paragoni con iphone che si cerca di far partire con gettoni e macchine digitali in cui tentare di mettere rullini, Renzi lo vuole un avversario a sinistra, un avversario che, secondo lui, è vetusto, sorpassato e perdente, nelle sfide ed in termini elettorali.
Ma intanto, come scrivono tutti i giornali e come sottolineano anche da Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle, i lavoratori sfiancati dalla crisi sono andati a S. Giovanni dove però, c’era un clima di sconfitta e di autolesionismo, con tutti i rappresentati di quella sinistra che ha sbagliato tutto ed il contorno piuttosto mesto di Citto Maselli in carrozzina, con una coperta sul palco, icona di una generazione che di fatto, anche se adesso protesta contro chi propone qualcosa di diverso, ha sbagliato ogni cosa, sia quando è stata alla opposizione , sia quando è stata al governo, come quanto ha fatto cadere Romano Prodi e… potremmo continuare.
Oggi ci svegliamo ancora più affranti, per le divisioni evidenti e il non evidente futuro, reso più cupo dal tonfo in borsa, per le banche, che hanno dovuto sospendere le contrattazioni per il rischio ribasso all’indomani dei risultati agli stress test, con Mps che perde il 18,1%, Mediobanca il 3,35, Ubi Banca il 3,25, Bper il 4, Intesa Sanpaolo il 2% e UniCredit l’ 1,36%, per portare il Mib a perdere il 2,27% in apertura di seduta.
E mentre i titoli delle banche danno il passo e trascinano al ribasso tutti gli indici europei, guadagnano le borse asiatiche, con la sola eccezione delle cinesi, con Tokyo che guadagna quasi un punto percentuale (+0,96%) così come Sidney (+0,86%).
Tornando ai dati diramati ieri, a borse chiuse, dalla Banca centrale europea, sono nove le banche italiane inizialmente bocciate; che scendono a quattro se si escludono quelle che hanno già rafforzato il patrimonio tra gennaio e settembre scorsi e a due se si considerano altre operazioni di irrobustimento patrimoniale computate a livello nazionale da Bankitalia.
Alla fine, a dover rafforzare il capitale sono il Monte dei Paschi e Carige, rispettivamente per 2,11 miliardi e 814 milioni di euro, ma nonostante Bankitalia si sia affrettata a dire che: “i dati confermano la solidità complessiva del sistema bancario italiano, nonostante i ripetuti shock subiti dall’economia italiana negli ultimi sei anni”, l’andamento in borsa ci dice che gli investitori non si fidano.
È andato a “Trash” di Stephen Daldry il Premio del Pubblico Bnl-Gala dell’edizione 2014 del Festival del film di Roma.
La pellicola narra la straordinaria e pericolosa avventura di Rafael e Gardo, due ragazzi delle favelas di Rio, che si troveranno implicati in una rocambolesca vicenda a causa del ritrovamento di un portafogli pieno di segreti tra i rifiuti di un discarica.
Forse i favori del pubblico ad una vicenda di fortuna inisperata, descrive lo stato d’animo diffuso, che è quello di credere che ce la caveremo solo con un colpo fortunoso che tiri fuori da indigenze varie e concatenate.
Insomma, in questa Italia, fra piazze reali, virtuali ed economiche, l’unica “festa” (per usare le parole di Lamberto Mancini, direttore generale della Fondazione cinema per Roma) è quella del cinema di Roma, da cui si allontana mestamente Marco Muller e Nocoletta Romanov chiude la rassegna, in abito lungo ed elegante, incapace però di cancellare una certa imbarazzante melanconia.
Carlo Di Stanislao
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