La Scienza è sempre al servizio della Umanità e della Bellezza. L’uso che se ne fa’ nella tecnologia, non sempre. Ma alla Natura spetta sempre l’ultima parola come ci ricorda il grande terremoto di Lisbona del 1° Novembre 1755, magnitudo 8 Richter, con annessi tsunami e incendi che mandarono al Creatore oltre 70mila persone. Venticinque anni fa, il 17 Ottobre 1989, gli effetti del violento terremoto di Loma Prieta (M=6.9) sconvolsero la Baia di San Francisco in California (IX grado della Scala Mercalli). Il sisma causò 63 morti, oltre 3mila feriti, circa 10mila sfollati e ingenti danni ad edifici e infrastrutture. Gli scienziati sono persone ordinarie, forse speciali, ma eguali nei diritti e nei doveri a tutte le altre. Non sono Alieni ET provenienti da altri Mondi (fino a prova contraria!) né un’oscura corporazione elitaria al di sopra della Legge né capri espiatori di colpe altrui né cultori di boschive divinità pagane sacre a Pan. Il cattolico Galilei Galileo, il fisico, l’astronomo e lo sperimentatore dell’Eppur Credeva in Colui che ha fatto anche il nostro Mondo, in quanto Padre della Scienza moderna, negli ultimi 400 anni ci ha insegnato come porre le domande giuste a Madre Natura per ottenere risposte verosimili, mai certe al 100 percento, perché la sicurezza è dei presuntuosi. Il linguaggio della Scienza non è quello filosofico e/o politico bensì matematico. È giunta l’ora, a 68 mesi dalla catastrofe aquilana (Mw=6.3; 1600 feriti; 312 morti) del 6 Aprile 2009, che certe “massonerie” più o meno segrete dei poteri palaziali multinazionali, se ne rendano effettivamente conto prima che sia troppo tardi anche per gli Italiani. L’ipotesi scientifica che i poli del campo magnetico della Terra potranno invertirsi istantaneamente nell’arco di una generosa vita umana, in meno di 100 anni, non deve gettare il panico ma stimolare la Ricerca per migliorare le nostre vite, la nostra tecnologia e la nostra civiltà, che non sono fondate sul polistirolo, sulla menzogna, sul dissesto idro-geologico, sui falsi in bilancio e sulla truffa, ma sulla verità e sulla dignità della Persona! A rivelare i dettagli sull’inversione istantanea della polarità magnetica della Terra in meno di 100 anni, è uno studio internazionale sulle proprietà paleomagnetiche di una sequenza sedimentaria nel Bacino di Sulmona, nella ricerca condotta da Ingv e Cnr, pubblicata sul Geophysical Journal International, in attesa dell’Agu Fall Meeting (http://fallmeeting.agu.org/2014/) al Moscone Center di San Francisco (15-19 Dicembre 2014) con 1700 sessioni scientifiche e 24mila scienziati. I poli del campo magnetico terrestre possono invertirsi con il passare del tempo. A gettare nuova luce sulla dinamica di questo fenomeno, che non ha ancora una chiara spiegazione scientifica, è la ricerca a guida italiana che coinvolge ricercatori dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IGAG-CNR), dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), della Columbia University e della University of California, Berkeley. L’obiettivo della ricerca guidata da Leonardo Sagnotti dell’Ingv è di analizzare le proprietà paleomagnetiche di una sequenza sedimentaria presente sul fondo di un antico lago e ora affiorante nel bacino di Sulmona, nei pressi del paese di Popoli in Abruzzo. Al momento della loro formazione, infatti, alcun tipi di rocce tendono a orientare la propria magnetizzazione con quella del campo magnetico terrestre e ciò permette agli scienziati di registrare le eventuali variazioni avvenute nel passato. Secondo i risultati pubblicati sulla rivista Geophysical Journal International, l’ultima inversione della polarità magnetica terrestre risale a circa 786mila anni fa e si sviluppò in un tempo estremamente breve, inferiore al secolo. Lo studio quindi indica chiaramente che questo fenomeno, non correlato direttamente ai terremoti, può verificarsi in tempi comparabili a quelli di una vita umana, ovvero a velocità anche dieci volte superiore a quanto finora ritenuto. In passato, il brusco passaggio di polarità dei poli è stato preceduto da un’ampia fase di instabilità magnetica terrestre che si è protratta per almeno 6mila anni. Quella di 786mila anni fa è l’ultima inversione a cui è stato dato il nome di “transizione Matuyama-Brunhes”. La nuova ricerca fa parte di un insieme di indagini condotte dall’Igag-Cnr volte a caratterizzare l’assetto stratigrafico e tettonico dei bacini intra-Appenninici in aree caratterizzate da intensa attività sismica. Alcuni tipi di rocce contengono minerali magnetici (ossidi di ferro) che tendono ad orientare la propria magnetizzazione secondo la direzione del campo magnetico terrestre esistente al momento della formazione delle stesse. Perciò, esaminando il magnetismo delle rocce di epoche diverse, gli scienziati possono ricostruire l’andamento del campo magnetico della Terra nel tempo geologico. “Le misure condotte nel laboratorio di paleomagnetismo dell’Ingv – rivela Leonardo Sagnotti – hanno dimostrato che questi sedimenti hanno eccellenti proprietà per la registrazione delle variazioni del campo magnetico nel passato”. La successione sedimentaria lacustre del bacino di Sulmona contiene numerosi sottili livelli di ceneri vulcaniche emesse durante violente eruzioni esplosive dei vulcani laziali, lungo il versante tirrenico della penisola italiana, che sono state datate con metodi radiometrici nei laboratori di Gif-sur-Yvette (Francia) e Berkeley (Usa) fornendo precisi vincoli cronologici per datare l’intervallo di sedimenti contenenti l’inversione magnetica. “L’inversione di polarità del campo magnetico terrestre – osserva Biagio Giaccio dell’Igag-Cnr – risulterebbe compresa tra i livelli di ceneri datati tra 781mila e 792mila anni fa. Mentre i sedimenti si accumulavano sul fondo del lago con un tasso medio di circa 2 centimetri al secolo”. In pratica, sul fondo dell’antico lago di Sulmona ogni 10mila anni si deponeva con continuità uno spessore di 2 metri di limi calcarei occasionalmente intercalati da livelli di ceneri vulcaniche. L’integrazione dei dati paleomagnetici e geocronologici (http://roma2.rm.ingv.it/it/risorse/laboratori/10/laboratorio_di_paleomagnetismo) consente la ricostruzione ad alta risoluzione della dinamica del campo magnetico terrestre nei millenni precedenti e successivi all’inversione dei poli e, per la prima volta, mette in luce che l’inversione di polarità Matuyama-Brunhes fu estremamente rapida, essendosi verificata in un intervallo di tempo più breve di quello che è possibile risolvere in questi sedimenti, ovvero ad un tasso almeno dieci volte più rapido di quanto ritenuto in precedenza. “Lo studio ha fornito una delle migliori registrazioni disponibili delle caratteristiche e variabilità temporale del campo magnetico terrestre durante un’inversione di polarità e – spiega Giaccio – indica chiaramente che questo fenomeno può svilupparsi in tempi comparabili alla durata di una vita umana. In particolare l’inversione dei poli magnetici sembra avvenire istantaneamente. La nostra stima più conservativa è che si sia sviluppata in meno di un secolo, probabilmente molto meno”. Il brusco passaggio dei poli geomagnetici da un’area polare all’altra, quali conseguenze avrà per la nostra civiltà? “Questo periodo di instabilità geomagnetica è stato caratterizzato da due intervalli di tempo, di circa 2000 anni ciascuno – rivela Leonardo Sagnotti – in cui l’intensità del campo diminuì drasticamente a valori equivalenti a meno della metà di quella che ha il campo attualmente. La brusca inversione dei poli avviene verso la fine dell’intervallo più recente di bassa intensità del campo”. Che, ricordiamo, produce tra l’altro le famose Fasce di Van Allen il cui forza è paragonabile a quella emessa da un comune piccolo magnete da frigo anche se molto più estese nello spazio circumterrestre e capaci di difenderci dalle altrimenti mortali radiazioni solari che friggerebbero tutto sul pianeta, strappando via la nostra preziosa atmosfera. Anche se un’inversione magnetica è un grande evento planetario legato alla circolazione convettiva nel nucleo fluido metallico della Terra, non ci sono catastrofi documentate associate a inversioni magnetiche del passato. In effetti 800mila anni fa, quando l’aria che respirava conteneva tassi di CO2 paragonabili a quelli di oggi (400 ppm), la progenie del futuro Homo Sapiens conduceva una vita molto diversa. La riduzione di intensità del campo magnetico terrestre, che di solito precede e accompagna le inversioni di polarità – avvertono i ricercatori – potrebbe potenzialmente avere ripercussioni sui sistemi satellitari e sulle reti di distribuzione dell’energia elettrica, per la maggiore penetrazione del vento solare verso la superficie della Terra. Potrebbero saltare tutti i circuiti elettrici che andrebbero quindi opportunamente schermati. La storia della Terra è ricca di inversioni del campo magnetico. In media il fenomeno avviene quattro volte ogni milione di anni. Anche se ha implicazioni che interessano l’intero globo terrestre e condizionano drasticamente le complesse interazioni tra le particelle cariche del vento solare e la cavità magnetosferica che circonda la Terra, non ci sono catastrofi documentate da Visitatori Alieni Extraterrestri, nonostante molte ricerche nel record geologico e biologico. Nella nostra società tecnologica è facile predire che una drastica riduzione di intensità del campo magnetico terrestre, associata o meno a un’effettiva inversione di polarità, ha la potenzialità di causare estesi effetti di grande disturbo, per la maggiore penetrazione del vento solare verso la superficie della Terra e le prevedibili ripercussioni sui sistemi satellitari e sulle reti di distribuzione dell’energia elettrica, con possibilità di blackout generalizzati e prolungati. “I sedimenti dell’Appennino non ci forniscono solo gli elementi per comprendere meglio il rischio sismico locale legato al ripetersi di forti terremoti lungo le principali faglie sismo genetiche – osserva Leonardo Sagnotti – ma ci danno anche la possibilità di comprendere meglio un fenomeno planetario, come il campo magnetico terrestre, la cui evoluzione dinamica può avere profonde implicazioni sia a livello scientifico sia sociale”. Anche la Valle del Tevere è testimone dei cambiamenti climatici globali. Studiare le variazioni del livello del mare negli ultimi 500mila anni attraverso dati geologici di diverse località del pianeta, compresa la città di Roma, è utile. Come rivela una ricerca firmata Ingv, Australian National University e Southampton University, pubblicata su Nature Communications. Alla fine di ognuna delle cinque grandi glaciazioni avvenute negli ultimi 500mila anni, il livello del mare è risalito con una velocità media di 5,5 metri al secolo, a causa del repentino scioglimento dei ghiacci. A stabilire, per la prima volta in modo quantitativo, la velocità di risalita del livello del mare durante i periodi di scioglimento dei ghiacciai, è la ricerca “Sea-level variability over fice glacial cycles”. Oltre ai cinque eventi glaciali principali, “sono stati riconosciuti più di 100 eventi minori, con frequenza delle decine di migliaia di anni – rivela Fabrizio Marra dell’Ingv – durante i quali il livello del mare è risalito meno velocemente a seguito dello scioglimento parziale delle calotte polari. Le velocità di risalita più elevate si possono trovare, invece, alla fine delle grandi glaciazioni, quando la massa dei ghiacci sul pianeta ha superato di due o tre volte quella attuale”. Il lavoro altresì evidenzia che in periodi con calotte glaciali di dimensioni simili a quelle attuali, i tassi hanno raggiunto 1-1,5 metri al secolo. Una velocità simile a quella che viene stimata oggi a seguito del micidiale riscaldamento globale causato dai gas serra sparati in atmosfera. Un’indicazione, questa, fondamentale per un confronto dei dati sulla progressiva riduzione dei ghiacci e per una valutazione su ciò che potrebbe avvenire nei prossimi anni a seguito del riscaldamento globale, come preconizza il capolavoro Interstellar di Christopher Nolan. A proposito, è consigliabile non acquistare più dispositivi elettronici inefficienti che dissipano calore sprecando così energia, così si convincerà il Mercato a produrre chip freddi che assorbono calore invece di irradiarlo! Per contribuire al raggiungimento di questo risultato, è stata ricostruita una cronologia indipendente degli eventi di risalita del livello marino attraverso lo studio della geologia della città di Roma, un laboratorio naturale nel quale è possibile analizzare tali fenomeni in presa diretta. “La datazione di numerosi depositi vulcanici e lo studio paleomagnetico dei livelli argillosi, intercalati nelle successioni sedimentarie del paleo-Tevere – spiega Marra – ha permesso di accertare che queste si sono deposte nell’antica valle del Fiume e lungo la costa in conseguenza della risalita del mare alla fine delle epoche glaciali e, quindi, di calibrarne con esattezza i tempi di occorrenza”. Le ricerche decennali nell’area romana erano state recentemente condensate nell’articolo “The subsurface geology of Rome: sedimentary processes, sea-level changes and astronomical forcing”, pubblicato dalla rivista Earth-Science Reviews. Il 14 e 15 Ottobre 2014 si è tenuta in Umbria una due giorni dedicata al progetto TABOO (The Alto-tiBerina Near Fault ObservatOry). Il meeting si è tenuto nell’Abbazia di San Faustino, nel comune di Pietralunga (PG). La ricerca si fonda su un’infrastruttura di analisi e monitoraggio che l’Ingv ha creato negli ultimi anni nell’alta Valle del Tevere e consiste in una rete geofisica a carattere multidisciplinare all’avanguardia nel mondo. Nella mattina del 14 Ottobre, i ricercatori dell’Ingv hanno incontrato le autorità locali per presentare lo studio e discutere con loro di come lo stato attuale delle conoscenze e i risultati degli studi in corso possano contribuire ad una migliore gestione del territorio, con ricadute positive per la comunità. Hanno partecipato al meeting anche geologi e geofisici dell’Università di Perugia, dell’Università La Sapienza di Roma e del CNR. Ospite illustre il geofisico Chris Marone della Penn State University (Pennsylvania,Usa) esperto mondiale di meccanica delle rocce, che ha tenuto un’interessante lezione sui suoi ultimi esperimenti di laboratorio. TABOO è dedicato allo studio dei processi deformativi lenti e veloci di un sistema di faglie attivo presente lungo l’Appennino umbro-marchigiano, in un’area densamente popolata e con un enorme patrimonio artistico. La struttura geologica studiata è localizzata lungo l’alta Valle del Tevere, tra la Toscana, l’Umbria e le Marche, ed è dominata da una faglia attiva, la Faglia Alto-Tiberina, a basso angolo d’immersione (15 gradi) che per le sue dimensioni potrebbe produrre terremoti anche molto forti. Al convegno sono stati presentati i moltissimi dati acquisiti negli ultimi anni nell’area. La rete sismica ha permesso di localizzare più di 40mila terremoti nel periodo 2010-2014, tutti di magnitudo inferiore alla quarta. Sono stati poi illustrati i nuovi dati geologici sulla deformazione recente della regione; modelli tomografici della crosta superiore; dati geodetici che consentono di quantificare la deformazione attiva nell’area; simulazioni al calcolatore che permettono di costruire degli scenari realistici della possibile rottura sismica della faglia; dati sul monitoraggio del radon e molto altro. Nella sessione finale, sono stati discussi gli aspetti più rilevanti emersi nell’incontro e il punto di maggiore interesse è stato quello relativo al potenziale sismogenetico della Faglia Alto-Tiberina. La domanda a cui la comunità scientifica sta cercando di dare una risposta è: questa faglia può dar luogo a grandi terremoti? Date le sue dimensioni (circa 50 per 40 km) ben delineate dai dati di sismica attiva, geologici e sismologici, potrebbe addirittura generare un terremoto di magnitudo superiore al settimo grado Richter. È importante quindi proseguire gli studi del sottosuolo, il monitoraggio sismico e geodetico per determinare le caratteristiche geologiche della faglia stessa e determinare così la sua attitudine sismogenetica. I ricercatori intendono mettere in campo ogni strumento per capire se la faglia Alto-Tiberina possa sviluppare forti terremoti, in quali zone e con quali caratteristiche. La Storia docet. Nella tarda mattinata del 30 Settembre 1789 un forte terremoto colpisce la Valtiberina, come viene comunemente chiamata l’Alta Valle del Tevere, oggi incuneata tra la Toscana e l’Umbria. È tra le zone sismicamente più attive dell’Appennino settentrionale. La sua storia sismica, infatti, negli ultimi mille anni registra almeno nove terremoti con intensità epicentrale uguale o superiore al grado 7 della scala macrosismica Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS). Di questi, ben cinque eventi si possono considerare terremoti distruttivi con effetti epicentrali pari o superiori al grado 8 MCS, avvenuti negli Anni del Signore 1352, 1389, 1458, 1789 e 1917. Se i tre più antichi sono tuttora terremoti relativamente poco definite, con un numero limitato di osservazioni macrosismiche, quelli del 1789 e del 1917 sono gli eventi meglio documentati. La Valtiberina oggi è situata proprio nel cuore dell’Italia centrale, ma all’epoca del terremoto era attraversata dal confine tra due importanti stati politicamente e amministrativamente indipendenti: il Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa. L’amministrazione periferica dello stato papale si basava sulla suddivisione del territorio in governi. In particolare quello di Città di Castello comprendeva il settore dell’attuale Umbria a nord della linea Umbertide-Gubbio, con diverse enclave giurisdizionali: i marchesati di Monte Santa Maria e di Sorbello; il feudo di Montone, amministrato dalla Camera Apostolica; la terra di Citerna, amministrata dalla Sacra Consulta. Il territorio granducale era invece diviso in cancellerie comunicative. Quella di Sansepolcro, la più colpita dal terremoto, in particolare faceva capo alla Camera della Comunità di Firenze. Gli amministratori periferici dell’epoca assicuravano i collegamenti tra realtà locali e uffici centrali, esercitando il governo in materia civile ed economica. La documentazione che ne riflette i rapporti con le comunità e le magistrature centrali, è costituita prevalentemente da carteggi. Questa complessa situazione politica e amministrativa fa’ di quello del Settembre 1789 un vero e proprio “terremoto di confine” e influenza fortemente l’organizzazione di una ricerca delle tracce da esso lasciate nelle fonti storiche, cioè una ricerca delle carte che ne documentano gli effetti sul territorio. La richiesta di soccorsi e la risposta ufficiale all’emergenza coinvolsero, infatti, due distinti governi, quello di Papa Pio VI e quello del Granduca Pietro Leopoldo I d’Asburgo-Lorena, e due diverse capitali, Firenze e Roma. Oltre a questa complessità geopolitica, anche il particolare periodo storico in cui l’evento si colloca influenzò notevolmente la percezione che ne ebbero gli osservatori contemporanei, e di conseguenza la produzione di relazioni e resoconti che vennero scritti sul terremoto stesso. Nell’Estate del 1789, infatti, la situazione internazionale era dominata dalle turbolenti vicende francesi: a metà Luglio, appena due mesi e mezzo prima del terremoto, a Parigi c’era stata la storica Presa della Bastiglia. Le vicende della Rivoluzione Francese e le loro ripercussioni politiche sul resto di Europa già a fine Settembre monopolizzavano l’attenzione dei principali osservatori europei. Sicuramente questa situazione contribuì non poco a limitare l’interesse degli eruditi italiani dell’epoca verso il disastroso terremoto del 30 Settembre 1789. Su di esso, infatti, non risulta che siano stati scritti trattati o relazioni speciali, a differenza di quanto fu fatto invece per altri terremoti, anche meno gravi, avvenuti negli Anni ‘80 del XVIII Secolo in Toscana e nello Stato Pontificio. Le uniche relazioni coeve conosciute sono di stampo prettamente giornalistico, più che scientifico. L’interesse per il terremoto, infatti, fu abbastanza elevato fra i cronisti-giornalisti dell’epoca, cioè coloro che compilavano le notizie che circolavano in una fitta rete di corrispondenze attraverso l’Europa di fine Settecento, Italia compresa, e che venivano pubblicate nelle gazzette a stampa tipiche di quel periodo. L’analisi approfondita e critica delle fonti storiche di archivio recuperate dagli scienziati con apposite ricerche ha permesso ai sismologi storici di ricostruire lo scenario degli effetti che il terremoto ebbe sul territorio interessato (Castelli 2002-2008 ed altri). Il 30 Settembre 1789, tra le 7 e le 7:30 ora locale, fu avvertita una scossa “gagliarda” a Città di Castello e “leggiera” a Sansepolcro. Questo tremore non è invece ricordato dai testimoni di Anghiari, a soli 8 Km a est di Sansepolcro, né da quelli di Castiglion Fiorentino e di Cortona, una trentina di chilometri a est di Città di Castello. Tra le 11:15 e le 11:30, ora locale, si verificò la scossa più forte. Gli insediamenti rurali (“ville”) situati nella pianura tra Città di Castello e Sansepolcro, specie sulla riva sinistra del Tevere, subirono danni gravissimi. Centri come Selci, Lama, San Giustino e Cerbara furono semidistrutti, con effetti pari al grado al 9 grado MCS. Monsignor Fabrizio Ruffo, Tesoriere Generale della Camera Apostolica inviato dal Papa nell’area colpita dal terremoto, così descriveva la gravità della situazione ai primi di ottobre 1789: “Sono stato questa mattina a Selci, ed a S. Giustino; per la strada abbiamo visti molti Casali quasi diruti, molti danneggiati, altri spianati affatto. Selci luogo di 600 Anime è spianato affatto; morirono nel momento del disgrazia 62 Persone, ed altrettanti in circa feriti, de quali 40 allo Spedale; 200 in circa ne son fuggiti. Quantità di Animali sono periti ancora. Il rimanente degli Uomini sono così spaventati, che non hanno sinora fatto neppure una Capanna, che meriti questo nome. Le providenze da prendersi sono ben difficili; gli Uomini rimasti non bastano per le faccende della Campagna, nè possono ricevere soccorso da loro Vicini, che sono occupati nelle stesse faccende, ed hanno sofferto moltissimi danni. Mancano le Tegole, nè è possibile averne molte in un punto, e se ne duole, perchè sono distrutti moltissimi Tetti in tutti i Luoghi danneggiati; mancano i ferramenti, e stando lontano dalla Marina per le strade che marciano verso l’Adriatico è ben difficile esserne presto provisti; i Legnami staggionati mancano ancora per ogni dove, quantunque con gli Albucci verdi si puntelli a più potere, ma pessimamente, e senza veruna intelligenza. Sono passato poi in mezzo ad un diluvio di acqua (che non mi ha mai abbandonato da Fuligno sino al presente, e che rende infinitamente più incomoda la situazione de danneggiati) a S. Giustino. Le case sono ivi tutte danneggiate; la Chiesa si è conservata con poco danno nella Sagrestia. Il bellissimo Palazzo Bufalini è rovinato ne Piani superiori, e crollato il rimanente. Nisuno la Dio grazia vi è morto. Una sola donna fu cavata dalle Ruine dopo alcune ore, ma senza sensibile lesione. La disgrazia di questi Signori merita riflessione, perchè sette Colonie loro sono quasi tutte appianate ne contorni di S. Giustino con morte di molti Animali, e sono rimasti senza ricovero i Contadini. Il Gran Duca ha mandati diversi soccorsi a S. Sepolcro danneggiato come S. Giustino secondo le Relazioni, con pochi luoghi a quello vicini, e si dice che arrivarà in breve personalmente sul luogo. Il danno è considerabile, ed è tutta una striscia, che non trapassa il corso del Fiume, e sono principalmente Selci, Grumale, Corbara, dopo Giove, Pitigliano, San Giustino, Belvedere. Oltre la Città principale, come abbiamo detto, ed altri Luoghi più o meno patiti. In somma è una striscia di dieci miglia, larga due o tre miglia. Tutto il resto non ha avuto che la paura; ma questa striscia và per tutto, è assai danneggiata, ed in molti luoghi distrutta”(ASRM, 1789-1795). Secondo questo resoconto, gli effetti di danno più gravi e distruttivi interessarono una striscia di territorio lunga una quindicina di chilometri (“dieci miglia”) e larga 3-5 Km (“due o tre miglia”) prevalentemente sul lato sinistro della valle del Tevere. La forma allungata dell’area dei massimi effetti è stata confermata dallo scenario macrosismico dell’evento ricostruito con le ultime ricerche eseguite, su questo terremoto, dai sismologi storici. Il limite settentrionale dell’area di danneggiamento del terremoto del 1789 è rappresentato da Sansepolcro (AR) e dai villaggi vicini, che subirono danni gravi e diffusi. Nelle colline a ovest della Valtiberina ci furono danni estesi, ma più leggeri, ad Anghiari (AR) e a Citerna (PG). Quest’ultima località sarà poi distrutta dall’ultimo forte terremoto della Valtiberina, nell’Aprile 1917. A sud, l’area di danneggiamento è delimitata da Montone (PG), una dozzina di chilometri da Città di Castello. La scossa principale fu avvertita sensibilmente a Cortona e a Castiglion Fiorentino (AR), a Siena e a Firenze. Repliche sono attestate, solo per Città di Castello, l’11 Ottobre e nei giorni immediatamente precedenti il 31 Ottobre 1789. A Città di Castello ed a Sansepolcro ci furono danni gravi ed estesi, con diversi crolli (effetti pari al grado 8 MCS). Le fonti riportano descrizioni molto precise e dettagliate sui danni a Città di Castello, soprattutto per quanto riguarda il patrimonio edilizio pubblico e religioso. Dopo averla visitata il 9 Ottobre, ancora il Tesoriere Generale della Camera Apostolica, Fabrizio Ruffo, così descrive il suo sopralluogo: “Il maggior danno della Città consisteva nella rovina interna dei Tetti caduti poi con rovina de Pianciti, e delle Volte, rimanevano perciò le Case, alte specialmente, senza la necessaria coesione, ed unità, e perciò minacciavano ulteriore ruina. Non poche di esse Case minacciavano ancora per la viziosa originaria costruzione, e per la loro vetustà. Il bellissimo Duomo si rinvenne aperto lateralmente in quasi tutte le Arcate delle Cappelle, la Cupola caduta, sprofondate le Volte della Chiesa inferiore, ma fortunatamente le Mura laterali, ed il rimanente non davano segno di ulteriore ruina. Il Palazzo Vitelli ha sofferto anch’egli di molto, non ostante la solidità, con cui era stato costruito. Il Palazzo Bufalini […] ha sofferto, ma non moltissimo. Le altre Fabbriche tutte non sono esenti da qualche ruina”(ASRM, 1789-1795). Sulla Gazzetta di Bologna del 17 Ottobre 1789 compare la seguente notizia riportata nelle lettere arrivate da Roma il 10 Ottobre, dove vengono descritti, oltre agli effetti subiti da Sansepolcro, anche i gravissimi danni riportati dal Duomo di Città di Castello, intitolato ai Santi Florido e Amanzio: “Sempre più sono lagrimevoli le Relazioni dei danni, recati a Città di Castello, e suoi contorni dalle orribili scosse di Terremoto, che vi hanno cagionata, oltre l’ennunciata rovina di molti edifizj, e Case, quella ancora del Campanile della Cattedrale, che caduto sopra la Chiesa medesima, sfondò la volta, ed uccise un giovane pittore, che stava a dipingere la volta istessa. Sono state finora estratte dalle rovine delle Case, circa 109 persone, e 300 sono ferite. Monsignor Tesoriero è partito di quà, per ordine del beneficentissimo Pontefice, con denari, per sollevare questi afflitti Popoli; siccome pure per ristaurare i minaccianti Edifizj. A Borgo S. Sepolcro in Toscana è rovinata la metà della Cattedrale, molte Case, il Palazzo Pretorio, ed il Castello di Cospaja è rovinato tutto, unitamente alla nuova Dogana” (Gazzetta di Bologna, 17.10.1789, n. 83, pag. 658). La vicenda del crollo della volta della Cattedrale e della morte del giovane pittore merita di essere raccontata. Nel 1787 il pittore romano Ermenegildo Costantini (1731-1791) era stato incaricato di dipingere i voltoni laterali della cupola del Duomo di Città di Castello. Il lavoro però non fu mai ultimato, a causa proprio del terremoto che appena due anni più tardi fece crollare il campanile della cattedrale, che a sua volta travolse la sottostante cupola distruggendola insieme alle parti quasi ultimate dei dipinti del Costantini. Nel crollo morì il giovane pittore che aiutava il maestro e che, al momento della scossa, stava lavorando proprio alle pitture della volta. Di questo lavoro rimangono oggi solo due bozzetti nella sala capitolare della cattedrale. Una menzione a parte merita anche la vicenda della cosiddetta Pala Baronci, altro esempio di grave danno arrecato dal terremoto al patrimonio artistico di Città di Castello. Agli inizi del ‘500, quasi 3 secoli prima del terremoto, il pittore Raffaello Sanzio da Urbino, noto semplicemente come Raffaello, tra i più celebri del Rinascimento italiano, era stato incaricato di dipingere la pala d’altare della Cappella di Andrea Baronci, all’interno della chiesa di Sant’Agostino. La violenta scossa del 30 Settembre 1789 danneggiò l’opera raffaellita in modo così grave che fu deciso di segarla e di esporne solo le parti rimaste intatte, o comunque poco danneggiate. Nello stesso anno i frammenti furono poi portati a Roma, dove rimasero nelle collezioni vaticane fino al 1849. Oggi alcuni di quei frammenti originali sono conservati in musei italiani e esteri, tra cui il Museo di Capodimonte a Napoli e il Louvre di Parigi. Una copia settecentesca del dipinto originale è invece esposta nella Pinacoteca Civica di Città di Castello. La curiosità è che l’autore di questa copia, firmata e datata 1791, è proprio lo stesso Ermenegildo Costantini che stava lavorando ai dipinti della cupola del Duomo della città, andati distrutti nel terremoto. Questa copia è l’ultima opera conosciuta del Costantini, morto quello stesso anno. La Storia d’Italia ricorda anche altri eventi. Nella notte tra il 19 e il 20 Ottobre 1768, attorno alla mezzanotte ora locale (le 23 GMT, l’ora riportata per convenzione nei cataloghi sismici) due forti scosse di terremoto colpirono l’Appennino tosco-romagnolo, causando gravi danni nell’alta valle del fiume Bidente. Una decina di centri, tra cui Santa Sofia, oggi in provincia di Forlì-Cesena, subirono estese distruzioni, con effetti che sono stati valutati attorno al grado 9 della scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg). Poco meno di una ventina di altri paesi, tra villaggi e borghi, subirono danni gravi e diffusi, con effetti superiori al grado 7 MCS (Guidoboni et al. 2007). La prima scossa danneggiò notevolmente Santa Sofia, dove crollarono edifici fatiscenti e mal costruiti, soprattutto case rurali. Dopo alcuni minuti avvenne la scossa più forte, che causò le distruzioni maggiori. Seguirono nella stessa notte altre scosse minori che causarono ulteriori danni a Santa Sofia e dintorni. La zona colpita dal terremoto, nel cuore dell’Appennino romagnolo, all’epoca era un’area di notevole importanza strategica per la viabilità ed era attraversata dal confine tra due importanti Stati politicamente e amministrativamente indipendenti: il Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa. Il confine correva proprio lungo il fiume Bidente: il territorio sulla riva sinistra (a ovest) del fiume afferiva a Firenze e includeva Santa Sofia e Galeata; quello sulla riva destra (a est) era invece sotto il Papato e includeva, oltre alle vicine Civitella e Meldola, anche il borgo di Mortano, che all’epoca era separato da Santa Sofia. Nel 1828 Mortano divenne poi Comune autonomo fino al 1923, anno in cui fu annesso a Santa Sofia. L’amministrazione comunale di Santa Sofia dipendeva dalla podesteria di Galeata, mentre Mortano faceva parte del territorio di Meldola, feudo del principe Andrea Doria Pamphilj all’interno dello Stato Pontificio. A Santa Sofia crollarono molti edifici, compresi il castello e la rocca, e gran parte della chiesa parrocchiale di Santa Lucia. Gli edifici rimasti in piedi rimasero tutti più o meno seriamente lesionati. Il campanile con l’orologio pubblico si inclinò e divenne pericolante. Ci furono gravissime distruzioni anche nell’abitato di Mortano, sulla riva destra del fiume Bidente, e nei piccoli villaggi e borghi rurali del contado, tra cui Berleta, Camposonaldo, Collina di Pondo e Spescia. Le scosse danneggiarono gravemente anche il ponte sul Bidente che univa Santa Sofia a Mortano e costituiva un importante collegamento tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Danni gravi e diffusi si ebbero a Spinello, Cerreto, Cabelli e altri villaggi rurali, dove crollarono alcuni edifici. La gravità degli effetti di danno fu sicuramente accentuata dall’estrema vulnerabilità dell’edilizia rurale della zona, tipica di tutta l’area appenninica, caratterizzata da case costruite per lo più in ciottoli di fiume legati con malte povere, con pareti esterne mal connesse e tetti pesanti in lastre di arenaria poggianti direttamente sulle pareti perimetrali. A Rocca San Casciano fu seriamente danneggiato il convento dei padri Minori Osservanti Riformati, che divenne in gran parte inabitabile. Nel resto della montagna romagnola ci furono danni più leggeri in centri come Cusercoli, San Piero in Bagno, Tredozio, Galeata, Brisighella, dove alcuni edifici rimasero lesionati in modo non grave. Danni lievi anche a Forlì, dove caddero diversi comignoli. La scossa principale, quella più forte, fu avvertita fortemente e con panico, ma senza danni, a Cesena, Meldola, Portico di Romagna, Faenza. Spavento anche a Firenze, dove oltre alla scossa principale (“mainshock”) furono avvertite in modo più lieve anche la prima scossa e alcune repliche (“aftershocks”) nell’arco di 3 ore. La scossa più forte nella capitale del Granducato durò “6 battute di polso”, circa 6 secondi. Il terremoto fu avvertito a Rimini, Pesaro, Cento (provincia di Ferrara), a Padova e Roma. La sequenza sismica durò per alcuni mesi. Le scosse causarono anche effetti sull’ambiente naturale: nell’area epicentrale attorno a Santa Sofia furono osservati fenditure e crepacci nel terreno. Complessivamente vi furono un centinaio di vittime, di cui 54 solo a Santa Sofia e una dozzina a Mortano. Le due amministrazioni statali coinvolte, Firenze e Roma, risposero con ritardo alle richieste ed alle suppliche da parte dei governatori e delle popolazioni locali. Il granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, il 2 Novembre inviò sul posto il “soprasindaco del magistrato dei Nove”, Giovan Battista Nelli, con l’incarico di verificare l’entità dei danni e provvedere alle prime necessità della popolazione che già da dodici giorni era costretta a bivaccare all’aperto. Il 9 Novembre, anche il principe Andrea Doria Pamphilj, feudatario di Meldola, inviò sul luogo il suo agente generale Matteo Barboni con l’incarico di distribuire alla popolazione la somma di 600 scudi e l’equivalente in grano. Affidò inoltre al governatore di Meldola, Gentili, il compito di rilevare i danni alle case e di predisporre le liste per la distribuzione degli aiuti. In entrambi i casi, però, gli interventi economici, sebbene ampiamente pubblicizzati dai giornali dell’epoca, si rivelarono inadeguati alle reali esigenze della popolazione, che incontrò difficoltà e problemi a far fronte ai costi crescenti legati al forte aumento della domanda di manodopera e di materiali da costruzione. Le popolazioni locali dovettero così sopportare l’intero onere delle ricostruzioni, sia di quelle relative al patrimonio edilizio privato, sia di quelle relative alle chiese parrocchiali. A Spinello, si protrasse per anni un dissidio fra parroco e parrocchiani a proposito della riparazione della chiesa “tutta fracassata”, che secondo il parroco spettava completamente al popolo (Guidoboni et al., 2007). Secondo gli scienziati, l’area appenninica romagnola è fra le zone maggiormente sismiche dell’Italia centro-settentrionale, soprattutto per l’elevata frequenza di terremoti che nel corso dei secoli vi hanno causato danni più o meno gravi, e in diverse occasioni anche estese distruzioni. Per quanto riguarda gli ultimi mille anni di Storia, il primo evento di cui si ha notizia nell’area è quello dell’Anno Domini 1194, ricordato da un’epigrafe ancora oggi visibile sulla facciata della Pieve di San Pietro in Bosco a Galeata. A partire dal XVI Secolo, forti terremoti che hanno causato gravi danni e distruzioni nell’Appennino romagnolo (alte valli del Bidente e del Savio) o nella fascia pedappenninica tra Faenza, Forlì e Cesena, sono avvenuti a cadenza secolare. L’ultimo evento distruttivo risale a 96 anni fa, esattamente al 10 Novembre 1918, e causò molti crolli e distruzioni a Santa Sofia, Mortano e San Piero in Bagno. È un terremoto ben documentato in quanto più recente e presenta un quadro degli effetti molto simile a quello del 1768. L’elevata frequenza di forti terremoti in quest’area emerge chiaramente anche dalla Storia sismica di Santa Sofia che si può ricavare dal Catalogo parametrico (http://emidius.mi.ingv.it/CPTI11/). Negli ultimi 1000 anni coperti dalla Ricerca, la Storia sismica di questo comune è nota solo a partire dalla fine del XVI Secolo (terremoto del 1584). Il che, secondo gli scienziati, ovviamente non significa che prima a Santa Sofia non vi fossero stati terremoti, ma che allo stato attuale delle conoscenze semplicemente non si hanno informazioni a riguardo. O perché queste informazioni non sono mai state prodotte ovvero, più verosimilmente, perché non si sono conservate fino ai giorni nostri. A partire dal 1584, in un arco temporale di circa 430 anni, Santa Sofia ha subito gravi danni e distruzioni a seguito di quattro forti terremoti di Intensità uguale o maggiore all’8 grado MCS e danni minori di Intensità uguale o maggiore al 6 grado MCS, in almeno sei altre occasioni. Dopo le distruzioni del 1918 e la ricostruzione successiva, la cittadina ha subito danni più lievi a seguito di terremoti anche negli anni 1952, 1956, 1957 e 2003. In realtà, per i terremoti minori la Storia sismica di Santa Sofia risulta completa solo dal 1900 in poi. E, dunque, si può supporre che nei secoli precedenti vi siano stati altri episodi sismici che hanno causato dei danni, ma che non sono stati “registrati” dalla cronaca sismologica. Dal punto di vista della pericolosità sismica, l’area dell’Appennino Forlivese è tra quelle che mostra i maggiori valori nell’Appennino Settentrionale. La Pericolosità sismica esprime gli scuotimenti del suolo attesi con una certa probabilità nei prossimi anni. Valori elevati di pericolosità si possono avere in zone con eventi molto distruttivi o con eventi forti molto frequenti. In questo caso l’area è caratterizzata da sismicità che al massimo ha raggiunto magnitudo 6.1, come nel caso del terremoto del 22 Marzo 1661, ma il Catalogo storico riporta ben 8 terremoti con magnitudo maggiore di 5.5. Il primo della Storia sismica della zona è quello del 30 Aprile 1279. E 27 eventi di magnitudo maggiore di 5. L’accadimento ripetuto di eventi di magnitudo medio-alta, fa’ sì che la Pericolosità dell’area sia maggiore di quella delle zone circostanti. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia svolge un’intensa attività divulgativa e didattica per le scuole. I ricercatori e i tecnici dell’Ingv accolgono con competenza e passione gli studenti delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, per trasmettere conoscenze scientifiche, entusiasmo ed amore per la Ricerca, la Scienza e la Natura. È possibile seguire percorsi didattici interattivi differenziati per il tipo di scuola sui temi svolti. In primis, la parola d’ordine è quella di sostenere l’attuazione di politiche istituzionali per consolidare lo sviluppo dell’Open Access (OA) e favorire le opportunità di internazionalizzazione della ricerca scientifica italiana in linea con le indicazioni della Commissione Europea (Horizon 2020). Sono alcuni degli obiettivi dell’Accordo della Road Map 2014-2018, sottoscritto dal Presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, il professor Stefano Gresta, insieme agli altri Enti di ricerca e Atenei italiani, nell’Aula Magna dell’Università di Messina, in occasione del decennale della firma apposta nel 2004 alla Dichiarazione di Messina dai Rettori delle università italiane (http://decennale.unime.it/). “Con la firma di questo Accordo – osserva Stefano Gresta – l’Ingv, da sempre favorevole a un approccio condiviso tra le istituzioni accademiche e di ricerca italiane grazie al sostegno e al coordinamento della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui), si impegna ad adottare una policy nazionale per il deposito, l’accesso aperto e l’uso dei dati prodotti dalla comunità scientifica, secondo quanto indicato dalla Commissione Europea e gli standard internazionali. Il contributo dell’Ingv, risultato fra gli enti pubblici di ricerca (Epr), nell’ultima valutazione dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), il più innovativo in rapporto alle sue dimensioni (con una percentuale del 22,2 percento), consentirà di migliorare la circolazione e la diffusione dei risultati delle ricerche nei settori della Geofisica, Vulcanologia e Ambiente”. L’Ingv è stato uno degli gli Enti di ricerca pionieri dell’accesso aperto. Dal 2005 possiede un archivio digitale di Geosciences Harvestabile, interoperabile con tutti gli archivi internazionali, che rende fruibili le pubblicazioni dell’Ente, prive di vincoli editoriali (www.earthprints.org). Dal 2010 ha anche messo in Rete e ad accesso aperto la rivista Annals of Geophysics (www.annalsofgeophysics.eu), la cui prima pubblicazione risale al 1948, con il modello “gold road”, ossia pubblicazione di articoli Open Access, scaricabili gratuitamente sotto la licenza creative Common 3.0 attribution. Altra sfida in questo settore è la nuova piattaforma dell’Ingv, EPOS (http://www.epos-eu.org/), un’infrastruttura per la condivisione virtuale dei risultati delle ricerche teoriche e sperimentali e l’accesso a nuovi dati, prodotti scientifici e laboratori. “L’Open Access – rivela il Presidente dell’Ingv – non solo potenzia la ricerca, ma sviluppa l’innovazione e avvicina la scienza ai cittadini. Consentire alla comunità scientifica di sfruttare pienamente le opportunità offerte da questo strumento, sia nelle sue forme di editoria alternativa, sia come mezzo per la divulgazione della propria opera in parallelo ai canali di editoria tradizionale, rappresenta una grande opportunità per il futuro della comunicazione scientifica”. A Nicolosi (Catania) la terza Conferenza nazionale “Alfred Rittmann” (29-31 Ottobre 2014) interamente dedicata ai recenti sviluppi delle attività di ricerca e monitoraggio della vulcanologia italiana, ha messo a confronto i rappresentanti del mondo scientifico e istituzionale. Un’occasione per conoscere gli ultimi sviluppi nel settore a livello mondiale. L’Iniziativa è stata organizzata dall’Ingv. Oltre 200 i vulcanologi si sono dati appuntamento a Nicolosi per confrontarsi sui recenti sviluppi delle attività di ricerca e monitoraggio e su tematiche riguardanti prevenzione e pericolosità vulcanica in Italia, uno dei primi paesi al mondo per numero di abitanti esposti al rischio vulcanico insieme all’Islanda. Acclarato che il Monte Vesuvio ribollente di lava pronta a tracimare, immortalato dal film “Pompei” di Paul W.S. Anderson nel 2014, non è quello vero perché gli antichi Pompeiani del 79 a.C. godevano della bucolica visione del Monte Somma, la Conferenza nazionale “Alfred Rittmann” rappresenta l’incontro biennale della comunità vulcanologica italiana, per rilanciare, nello spirito e negli intenti, la vecchia tradizione dei meeting promossi annualmente dal Gruppo Nazionale per la Vulcanologia fino all’Anno Domini 2004. “Giunta alla sua terza edizione – osserva Eugenio Privitera, direttore dell’Osservatorio Etneo Ingv – la Conferenza è l’occasione per promuovere e favorire il dibattito scientifico sui recenti sviluppi delle attività di ricerca e monitoraggio, nell’ambito della vulcanologia italiana e su tematiche di pericolosità, queste ultime di grande interesse per la Protezione Civile”. Alfred Rittmann è uno dei padri fondatori della vulcanologia moderna nonché direttore del già Istituto internazionale di vulcanologia fondato a Catania dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e dall’UNESCO, poi Sezione di Catania dell’Ingv. L’Evento è dedicato a dottorandi e giovani ricercatori che con il loro studi contribuiscono allo sviluppo della vulcanologia: geologia delle aree vulcaniche, magmatologia, geochimica, geofisica, modellistica fisica dei processi vulcanici, vulcanologia e petrologia sperimentale. “La Conferenza Rittmann si conferma, ancora una volta, uno degli appuntamenti di spicco della comunità vulcanologica italiana – spiega Stefano Gresta – i sempre maggiori sviluppi delle attività di ricerca e monitoraggio vulcanico hanno consentito in questi anni un ulteriore rafforzamento della posizione di leadership a livello mondiale dei nostri ricercatori e hanno permesso di contribuire efficientemente al Sistema Nazionale di Protezione Civile di cui l’Ingv fa parte. Compito primario dell’Istituto, soprattutto in una fase storica come l’attuale, è fare ricerca scientifica come produzione e avanzamento della conoscenza in questo settore, senza prescindere dall’impegno nella valorizzazione dei risultati ottenuti da giovani ricercatori, molti dei quali, purtroppo, a tempo determinato”. La Manifestazione, che ha avuto il patrocinio del Parco dell’Etna, è stata articolata in una parte introduttiva e quattro sessioni tematiche, all’interno delle quali sono stati presentati anche dei poster come accade ogni anno nell’Agu Fall Meeting di San Francisco e nell’Egu Spring Meeting di Vienna. Con la visione di alcuni film-documentari di G. Tomarchio e F. Villa e di video prodotti dal laboratorio di Aerogeofisica dell’Ingv–Roma2 con riprese aeree dell’Etna. “Ampio spazio è stato dato ai giovani i quali partecipano gratuitamente e rappresentano più del 50 percento dei partecipanti – osserva Privitera – un cospicuo numero di lavori presentati alla Conferenza sono frutto dei risultati ottenuti da giovani ricercatori”. Nell’ambito della Conferenza sono stati assegnati due riconoscimenti: la “Medaglia Fratelli Gemmellaro” a Renato Cristofolini, già ordinario di Vulcanologia dell’Università di Catania, vulcanologo di fama internazionale che ha dedicato la vita allo studio dell’Etna; la “Medaglia A. Rittmann” a un giovane ricercatore che si è particolarmente distinto nel campo delle scienze vulcanologiche; e un premio del valore di 3000 euro, offerto dal Comune di Nicolosi, per partecipare ad attività congressuali e/o stage di perfezionamento. Ampio risalto è stato dato all’Etna sorvegliato speciale (come il complesso Campi Flegrei-Vesuvio-Golfo di Napoli) che dal 2013 è Patrimonio dell’Unesco. L’ultima parola spetta sempre alla Natura.
© Nicola Facciolini
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