Il 26 novembre 1461, all’“ora quinta della notte” (tra le ore 21,00 e le ore 22,00), una forte scossa di terremoto danneggiò gravemente la città di Aquila ed alcuni centri del contado, in un settore limitato a sud-est della città stessa, lungo la media valle dell’Aterno. Le fonti storiche parlano di una sequenza sismica iniziata nelle settimane precedenti e proseguita, dopo la scossa principale, fino ai primi mesi del 1462 con varie repliche.
Nelle cronache il giorno della scossa viene spesso indicato nel 27 novembre 1461 ma ciò si spiega con il fatto che in passato il nuovo giorno non iniziava con la mezzanotte ma all’imbrunire, per cui, considerando che nel mese di novembre fa notte intorno alle ore 17,00, si spiega come “l’ora quinta della notte”, (corrispondente all’ora dalle 21,00 alle 22,00), orario della scossa, appartenesse già al 27 novembre.
Sulla base dei danneggiamenti descritti dalle fonti dirette e indirette, sembra che il sisma del 1461 sia stato molto simile a quello del 2009, in particolare per quanto riguarda i centri coinvolti e la localizzazione ipotetica dell’epicentro.
In base al Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani (CPTI11) la potenza stimata del terremoto dovrebbe essere stata pari a MW (Magnitudo momento) 6.4, con epicentro ipotetico poco a sud dell’abitato di Poggio Picenze (AQ); considerata l’estensione ridotta della zona coinvolta è probabile che il sisma abbia avuto un ipocentro abbastanza superficiale.
Le fonti storiche parlano di circa 80 vittime nella città di Aquila, di altre in alcuni ospedali cittadini e di altre decine ancora nel contado, con la distruzione pressoché totale di Castelnuovo ed Onna, e quasi totale per Poggio Picenze e Sant’Eusanio Forconese, un quadro molto simile a quello del 2009. Il numero totale delle vittime, tra città e contado, è stato stimato in circa 150 (Antonini, 2010). In città i danni riguardarono soprattutto i Quarti di San Giovanni (o San Marciano) e di San Pietro, gli stessi che risultano maggiormente danneggiati dal recente terremoto del 2009. Si ipotizza inoltre che gli effetti sismici del 1461 furono resi più gravi dalla probabile presenza di danni più lievi provocati dall’onda d’urto del terremoto avvenuto cinque anni prima nel Sannio (al confine tra le province di Campobasso e Benevento), il 5/12/1456, con Magnitudo momento stimata pari a 7.2; quest’ultimo evento, ritenuto il più forte dell’Appennino peninsulare nel corso del II millennio, coinvolse una parte importante dell’Italia centrale e meridionale, con danni anche in località distanti dall’epicentro come appunto l’Alto Abruzzo (vale a dire l’Aquilano e il Teramano). Lo storico aquilano Bernardino Cirillo, nei suoi Annali della città dell’Aquila (1540), quasi un secolo dopo questi eventi, descrivendo il sisma aquilano del 1461 lo colloca alcuni anni prima, sovrapponendolo all’evento del Sannio del 1456; tuttavia egli riferisce con un certo dettaglio i danni subiti dalla città e sottolinea lo sgomento suscitato dalla vista degli edifici danneggiati o in rovina:
“Era stupor grande vedere la rovina de i palazzi, et d’altri edifitii della città. Le colonne della tribuna, et testudine della chiesa di San Bernardino [all’epoca ancora in costruzione, n.d.r.], si spezzaron tutte […] Similmente la tribuna maggiore della Chiesa di Colle Maio venne in rovina et essendo nell’altar di essa conservato il Sacramento, se ben si spezzò l’altare, et il tabernacolo ove era riserrato, fù [sic!] nondimeno trovato il Sacramento illeso miracolosamente, fattoglisi nella rovina riparo da alcune pietre quadrate, che in segno del miracolo fino a i miei tempi è solito mostrarsi. Furon le campane della giustizia, et dell’horologio scosse e caddero dalla torre del Palazzo. Rovinarono in gran parte le chiese di San Massimo, di Santa Giusta, di Sa[n]t’Agostino, di San Domenico, di San Silvestro, et di Santa Maria in Paganica, et d’altre pur assai. Nel palazzo del Capitano, [in corrispondenza dell’odierno Palazzo Margherita, n.d.r.], furono oppresse assai genti, et le strade publiche per i cementi rovinati no potean praticarsi. Fu per ordine del Vescovo [Amico Agnifili, n.d.r.] fatto un altare in piede alla piazza [Piazza Duomo o Piazza del Mercato, n.d.r.], nel qual fu collocato il Santissimo Sacramento, ritrovato nell’altare in Colle Maio, et quivi si celebravan le messe, et il popolo stava ad udirle su la piazza non si co[n]fidando di star sotto i tetti. Furon trovate circa ottanta persone sotto le rovine oppresse per questi gran terremoti, oltre molti poveri che nell’hospidale di San Pietro di Sassa [nelle vicinanze di San Domenico, n.d.r.], et di San Giacomo alla Porta Paganica perirono [si tratta di San Jacopo di Altopascio, ospedale che sorgeva nell’attuale area tra la Chiesa del Crocifisso e il Forte cinquecentesco e demolito per la realizzazione della fortezza stessa, n.d.r.]. Fecero parimente nel contado assai danni, che rovinò il castel di San Sano [Sant’Eusanio, n.d.r.] totalmente […].”
Così invece è narrato il terremoto del 1461 negli Annali di Anton Ludovico Antinori, storico aquilano vissuto nel XVIII secolo:
“[…] allo stato funesto della Città rovinata in tante parti, e guaste in tutte le altre, talché la quarta parte di essa restò adeguata al suolo, e le altre tre rotte, e lesionate, si aggiunse il non meno funesto del contado. In esso fu il danno ineguale giacché ne toccò il maggiore ai castelli di Sant’Eusanio, di Castelnuovo, di Onda [Onna, n.d.r.], e del Poggio presso Picenza. Questo cadde quasi del tutto, nell’altro di Sant’Eusanio rovinarono tutte le case, e le chiese sicché non rimasero neppure le mura laterali in piedi né chiesa alcuna e vi morirono persone in più gran numero che altrove onde lo scrissero totalmente rovinato. Eguali furono i danni di Castelnuovo divenuto un mucchio di sassi, caduti anche i torrioni delle mura comuni colla morte di 28 persone, tutte native del luogo […] Nella Villa di Onda né tampoco restò casa impiedi […].”
Secondo quanto riportano le cronache, nonostante il grave quadro dei danni, il terremoto del 1461 avrebbe provocato un numero di vittime più contenuto rispetto ad altri sismi storici della città. Ciò sarebbe da attribuirsi in particolare alla risolutezza del cardinale Amico Agnifili, vescovo della città, che, in concorso con le autorità civili, nei giorni precedenti il forte sisma pare che avesse favorito l’allestimento di baraccamenti per dare ricovero ai cittadini e avesse deciso anche di celebrare le funzioni religiose all’aperto in quanto già da alcune settimane si ripetevano scosse telluriche, tra le quali una ben distinta si era verificata il 16 novembre, dieci giorni prima della scossa principale.
Di nuovo Antinori nei suoi Annali:
“[…] Si sentì nel lunedì dei 16 di novembre fra l’ottava di S. Martino una scossa di tremuoto, ma senza danno. Ne replicò altra nella notte del venerdì dopo il dì de’ 27, sonate le cinque ore, ed assai grande. Fece del molto danno e gettò per terra edificj anche cospicui di chiese, e di case con morte di più persone in città, e in contado, e con caduta di molte campane da varie torri, delle quali però poche si ruppero […]”.
Un’altra lettura di quel periodo storico ipotizza che una parte delle baracche fossero già presenti in città a causa dei danni, meno gravi, provocati dall’onda d’urto del violento sisma del Sannio avvenuto cinque anni prima e al quale si è fatto cenno più sopra.
Questa seconda lettura comunque non esclude necessariamente la precedente.
La rievocazione storica di questo, come di altri avvenimenti, non vuole essere un “ripasso” di storia fine a se stesso ma vorrebbe contribuire a favorire lo studio o una rilettura più attenta delle vicende storiche cittadine come strumento utile a leggere il presente. Si pensi all’utilità delle cronache appena citate quando ci descrivono i danni provocati dal sisma e a volte anche le modalità di danneggiamento di alcuni edifici: sono dati che, uniti alle tecnologie contemporanee, permettono, si spera, interventi di restauro più consapevoli e mirati che cerchino di evitare il riproporsi di determinate situazioni ad ogni evento sismico. Come prima impressione, la rievocazione di un sisma passato può turbare perché ricorda la ciclicità di questi eventi ma può, e dovrebbe, invece diventare uno strumento di difesa aiutando il restauro e il miglioramento sismico di una città e di un comprensorio e quindi una convivenza più cosciente con un fenomeno naturale che è comune alla maggior parte del territorio italiano. Possono sembrare frasi scontate ma è sempre bene insistere su queste tematiche.
Infine, più in generale, una cosciente consapevolezza storica può permettere anche di recuperare e rafforzare un orgoglio cittadino, da non confondere con il campanilismo, che spesso sembra affievolirsi di fronte agli eventi avversi ma che è invece fondamentale per risollevare una comunità; una consapevolezza e un orgoglio che permettono a una città di presentarsi con una propria identità definita, senza complessi di inferiorità, e invitano i suoi cittadini a non abbandonare i luoghi della propria storia secolare, custodendoli anzi con cura e attenzione.
Mauro Rosati
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