Il mondo continua a tremare sotto la minaccia dell’integralismo islamico, con 137 vittime, in gran parte bambini, a Peshawar, in Pakistan, uccise durante una carneficina durata 7 ore, fino a quando l’esercito è riuscito a riconquistare l’edificio e con le sedici ore di folle delirio e paura nel centro finanziario di Sidney, causato da un altro folle integralista, autoproclamatosi “sceicco” e “santone”, accusato di aver ucciso la ex moglie e di abusi sessuali, che prima di essere abbattuto dalle forze di sicurezza, ha preso in ostaggio 17 persone.
Si chiamava Man Haron Monis, iraniano di 49 anni, entrato in un caffé-cioccolateria alle 9.45 del mattino (ora locale), armato sino ai denti e che ha fatto esporre una bandiera con una lode ad Allah in arabo e ha minacciato di far esplodere quattro bombe (che però non aveva).
Alla fine, durante il blitz delle forze dell’ordine, oltre allo jadhista sono morti un poliziotti ed un ostaggio, dopo ore di terrore che hanno tenuto col fiato sospeso l’intera Australia, dove il folle era arrivato nel 1996, quando si chiamava Mohammed Hassan Manteghi Bourjerdi, prima di cambiare nome e abiurare l’islam sciita per abbracciare il sunnismo, come aveva scritto lui stesso sul suo sito web all’inizio del mese, perché era per lui l’unica forma autentica di Islam.
Ieri una nuova, farneticante minaccia dello Stato islamico agli Stati Uniti, in un video diffuso su Internet dove si vede una decapitazione di un militare governativo siriano e un jihadista che afferma che: “il maiale alawita” è stato ucciso perché “miscredente” ed aggiunge: “Come lui, anche tu sei miscredente Barack Obama e come lui sarai condannato. Verremo fino al centro di New York per sgozzarti, come abbiamo sgozzato lui”.
Ieri sera Benigni ha raccontato a modo suo, da ipnotico rabdomante della parola, i Dieci Comandamenti (o meglio la prima parte) e da un palcoscenico spoglio ha detto, dopo aver ironizzato su politici e imprenditori, ha detto che “la bestemmia più grande è far diventare Dio un idolo” convincendo ad uccidere nel suo nome”
Il senso di questa prima serata (la secondo e ultima stasera, su Rai1) è tutta in questa frase: “La salute della nostra anima ci riguarda profondamente. La nostra anima va nutrita come il nostro corpo e non c’è niente di più salutare per l’anima che parlare di Dio, dell’eternità, dell’infinito”.
Il senso del tutto ci dice Benigni, coniugando i sapienti di ogni religione e parte del mondo, è nel silenzio e ci insegna che esiste un Dio implacabile, che ci vieta di “inginocchiarci davanti agli idoli, perché gli idoli addormentano, il divino inquieta”, ed un Dio tenero che ci insegna come anche gli animali siano “il nostro prossimo”. C’è la consapevolezza che “in 3500 anni di storia sono state combattute più guerre in nome di Dio che per qualsiasi altra cosa, e questa è la più grande bestemmia”, e l’Isis che “usa il nome di Dio per terrorizzare gli uomini, ma questo è un delirio di dio, è un inno alla morte”.
Ha ragione Piccardo quando ricorda che nel mondo islamico c’è tutto, poiché è un mare all’interno del quale nuotano pesci di tutte le forme e dimensioni, con attitudini diverse. Esistono movimenti islamici riformisti, rivoluzionari o pietisti. In realtà non è questione di frange, ma di maniere diverse di sentire la realtà della propria condizione e del proprio ruolo nel Paese. Accanto agli estremisti sunniti vi sono i sciiti moderati ed è evidente ormai che la volontà occidentale di impadronirsi delle risorse energetiche ubicate nel mondo arabo ha giustificato una politica di aggressione che ha utilizzato sistemi piuttosto rozzi ma efficaci di condizionamento di massa.
Come ricordava Manuele Conte su Formiche.net a settembre, per comprendere fino in fondo le ragioni della instabilità del Medio Oriente e della contrapposizione tra sciiti e sunniti, è utile fare un salto indietro nella storia, e ritornare al 632 d.c., anno della fine della vita terrena del Profeta Mohammed (Maometto).
Subito dopo la morte di Maometto si pose il problema della successione a capo della comunità: una parte dei credenti riconosceva in Ali (cugino e genero di Maometto) il successore designato, ma la maggioranza della comunità riteneva che non ci fosse stata alcuna designazione da parte di Maometto e che spettasse alla comunità l’elezione del “primo califfo“.
Da qui la scissione tra le due fazioni: da una parte gli Shi’atul Ali (la fazione di Ali) meglio conosciuti come sciiti, e dall’altra i sunniti (elettori del “primo califfo“) così chiamati in virtù della grande importanza attribuita alla “Sunna“, ovvero la tradizione del Profeta.
Secondo l’Islam Sciita, il successore del profeta non è il califfo ma l’Imam, letteralmente “persona che sta davanti“, colui che guida la comunità islamica negli affari spirituali, politici, materiali e sociali, immune dagli errori, perché guidato dalla volontà divina.
Per i sunniti invece il successore del profeta è il califfo, considerato come il guardiano della Shariah, che gode del potere temporale e non di quello spirituale e, a differenza degli sciiti che riconoscono all’Imam valori specifici d’ordine divino (trasmissibili per via ereditaria), gli riconoscono all’Imam solo il ruolo di colui il quale dirige la preghiera pubblica.
La paura di un integralismo sciita dilagante nasce già nell’Iraq appena uscito dal regime di Saddam Hussein, con le ombre lunghe del talebano Mullah Omar e dell’iraniano Ayatollah Khomeini, in un paese che da allora è solo un demos, con un popolo senza questa capacità e dunque non ancora sovranamente libero ma immerso nel caos e ancora di fatto occupato.
Da prendere ad esempio da imitare l’Oman, che in un Medio-Oriente squassato da lotte e faide è un paradiso di integrazione equilibrata fra sunniti e sciiti, con in più una sobrietà dei costumi molto diversa dalla bulimia del lusso del Qatar, degli Emirati Arabi, del Bahrein e del Kuwait, con una grande rispetto della sharia come fonte del diritto, ma anche con le aperture sociali che superano i codici pietrificati del wahabismo saudita.
L’orrore dell’estremo che evoca è segno ogni verità ed uccide tutto ciò che è diverso è raccontato da Carmelo Bene ne “L’ultimo giorno di Caio Caligola” dove è solo l’eternità l’unico universo senza timori né incomprensioni, in cui l’uomo può rispecchiarsi e ritrovarsi a pieno.
In quella tragedia come in Benigni il monito al’uomo di non desiderare la distruzione del diverso, di non tradurre la sua paura del nuovo nel terrore da includere fino alla morte a chi non gli assomiglia.
Carlo Di Stanislao
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