Negli ultimi giorni tra una notizia di cronaca e l’altra si parla di petrolio. E già, proprio lui :
l’oro nero. E’ da un po’ che non se ne sente parlare eppure il petrolio ha un’importanza
primaria : fa girare il mondo e con esso la ricchezza di molti paesi. Il crollo del suo prezzo al
barile mette sotto pressione la ricognizione sulle valute e anche molti paesi tra cui la Russia.
E’ notizia di ieri (16 dicembre) del crollo della borsa russa (-19%) e del rublo in picchiata e poi
in ripresa dopo l’intervento della banca centrale russa.
In pochi mesi l’oro nero ha perso circa il 50% del suo valore in gran silenzio fino al fracasso di
ieri a Mosca : é passato da oltre 100 dollari a scarsi 55 dollari al barile (contrariamente al
prezzo della benzina che ha registrato solo una lieve flessione negativa).
La responsabilità maggiore di questo caos dovrebbe imputarsi allo shale gas, cioè una
tecnica di estrazione del petrolio dalle pietre bituminose tutta made in USA. Le riserve di
shale gas in America sono stimate in 3 trilioni di barili, cioè più di tutto il petrolio estratto
finora. Per ottenerlo occorre molta energia e molta acqua ed i costi dovuti alla sofisticata
tecnica di estrazione, per decenni non sono stati competitivi e quindi minimente
paragonabili ai costi di estrazione e trasporto del petrolio che nel tempo sono stati resi
rentabili in tutto il globo. Il tentativo di rendere lo shale gas competitivo sul mercato è
andato a buon fine circa 10 anni fa quando la Shell Oil Company (texana per intenderci) ha
trovato la tecnologia ed il metodo giusti. Dal quel momento gli Stati Uniti d’America hanno
fatto sempre più ricorso a questa nuova fonte di energia tanto da sperare nell’autosufficienza energetica. Basti pensare che nel decennio 2000-2010 gli USA sono passati da 10 a 140 miliardi di metri cubi di produzione. Autosufficienza che viene meno nel momento in cui il prezzo del petrolio si abbassa e rimane basso per via del ritorno sulla scena di alcuni paesi che lo producono e che vivevano guerre civili. Insomma gli USA vedono sfumare il passaggio da importatori di petrolio ad esportatori di shale gas.
Secondo fattore per cui il prezzo dell’oro nero resta basso é l’Opec : una mossa di natura
puramente politica che risiede nella volontà di svantaggiare ulteriolmente paesi come la
Russia, già sanzionata economicamente dalla crisi in Ucraina e nel contempo di mettere fuori
gioco lo shale gas e quindi gli USA. Terzo fattore : il prezzo al barile assicura la solvibilità del debito pubblico dei Paesi che lo producono. Ogni Paese esportatore di petrolio ha bisogno che il prezzo di quest’ultimo abbia un certo valore x per poter sostenere la propria spesa pubblica. La crisi economica fa si che paesi come l’Europa, ancora in recessione (crescita prevista allo +0,2%), continui a diminuire ragionevolmente la richiesta del greggio : la domanda sul mercato é debole ma a tale debolezza non corrisponde la volontà di prevedere una diminuzione della produzione del
petrolio. Di conseguenza paesi Opec come il Venezuela rischiano il default a causa dell’ulteriore abbassamento del prezzo al barile, d’altronde il 96% delle sue entrate derivano dall’export di quest’ultimo. Per far rientrare il debito il prezzo dell’oro nero dovrebbe continuare ad oscillare intorno ai 120 dollari al barile. Insomma futuro tutt’altro che roseo per il Venezuela considerato dai paesi Opec come l’anello debole della catena.
In attesa delle prossime mosse politiche non ci resta che guardare l’inizio (forse) di una
nuova guerra fredda (la crisi del petrolio potrebbe essere un buono modo per riprisitnare
certi equilibri internazionali) : Paesi occidentali in crisi (Europa + USA) contro una Russia
sempre più isolata ma piena di ricchi e rossi investitori nel Vecchio Continente e non solo.
Oro nero contro oro rosso !
Agata Tiberi
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