Ancora un anno cupo, con problemi di ogni genere, con disoccupazione crescente, paura diffusa, mondo in subbuglio in ogni continente, il settimo anno di crisi, con solo gli USA in ripresa, grazie alla politica di Obama sostenuta dalla Federal Reserve, che ha consentito una crescita del Pil di quasi tre punti sopra l’attesa e della borsa del 170%, che ha permesso un recupero di quasi 800.000 posti di lavoro in un comparto che sembrava defunto, quello delle automobili ed ha dato speranza ad un a nazione che era in ginocchio dopo “la bolla” del 2007.
Se molti sono stati gli errori del primo presidente afro-americano in politica estera ed enormi quelli che sembrano scaturire dal melting pot che è l’incubo di un grande Paese che vorrebbe dirsi terra di conquista per ogni uomo armato di buona volontà, ma che non riesce a chiudere le ferite rimaste aperte dai tempi della segregazione razziale e il conseguente senso di inferiorità percepito dagli afroamericani di fronte all’applicazione della legge, l’ultimo dato trimestrale riguardante il Pil degli Stati Uniti rileva un notevole 5% di crescita e suscitano, nella stampa di tutto il mondo, elogi per una nazione che, , pur con qualche acciacco è capace sempre di venir fuori dai lacci e laccuoli del libero mercato mentre “l’anemica Europa” è sempre più lontana dal mettersi al passo.
In verità, come scrive lucidamente Pier Paolo Flamini, la “ripresa” negli Stati Uniti è avvenuta prima con massicci dosi di deficit pubblico (in un anno 5 volte e più quello concesso a Renzi da Merkel e Draghi) e poi, ripresa l’economia privata, di nuovo con pericoloso debito privato, che è tornato è tornato ad aumentare superando i massimi del 2008.
Pertanto, pur elogiando Obama e la sua amministrazione in questo campo, va detto che gli Stati Uniti, nonostante siano ovviamente la prima potenza mondiale, hanno superato la crisi beneficiando di notevolissimi deficit pubblici. e pur restando il principale paese importatore del mondo, due “miti” del mainstream neoliberista (stato con conti in pareggio e competitività con l’estero) sono di fatti “non osservati”, mentre in Europa i “pareggi di bilancio” sono stati inscritti nelle Costituzioni oppure realizzati attraverso una costrizione di fatto imposta dagli accordi europei.
Pertanto, mentre Daniele Manca sul Corriere elogia gli Stati Uniti, sempre pronti “ad accettare la competizione e quindi la concorrenza sapendo che quello è il sale della competitività, mentre “in Europa prevalgono le paure di ogni singolo Paese dell’Unione di perdere posizioni di rendita”; c’è chi nota che l’indebitamente privato negli USA ha ancora oggi segni pericolosi, poiché il credito privato è ripartito per l’azione dello Stato, che ha consentito al settore privato di trarre beneficio, in termini di maggiori investimenti pubblici e meno tasse, rispetto a quanto avvenuto in Europa o in Italia.
Se pertanto noi europei piangiamo, non si ride negli Stati Uniti e se lo si fa è solo una finzione perrchè la realtà e durissimas e necesita di essere addolcita con delle “favolette” che prevedono un lieto fine.
E le cose non vanno meglio dopo anni di lotta in ogni parte del mondo, con il Pentagono al lavoro durante le feste natalizie per un nuovo allarme terrorismo, dopo che in un video diffuso in Iraq e Siria, i militanti dell’Isis, lo Stato Islamico, sollecitano i giovani ad accorrere per combattere la guerra santa, contro l’Occidente.
La Casa Bianca, come è comprensibile, non amplifica l’allerta. Anzi, due giorni fa, il presidente Barack Obama parlando dalle Hawaii dove si trova in vacanza, ha definito il ritiro parziale dall’Afghanistan come un successo della politica internazionale di sicurezza degli Stati Uniti; spiegando quale sarà la strategia alternativa all’intervento militare nei Paesi in cui continuano a radicarsi le formazioni islamiche terroristiche.
L’idea è rafforzare ulteriormente i collegamenti con i servizi segreti locali, finanziandoli e inventandoli da zero se necessario. Ma neanche questa è una strada semplice, scrive Giuseppe Sarcina, richiamando l’esempio più evidente, quello dello Yemen, dove i miliziani di Al Qaeda hanno subito individuato gli agenti al servizio degli Stati Uniti e li hanno rapiti con un’operazione simile a un rastrellamento.
Insomma l’America, che in questo 2014 vorrebbe assurgere ad esempio di ripresa si è trovata alle prese con molte questioni irrisolte: quella razziale con rivolta di Ferguson e i fatti di New York e, sul fronte internazionale, la paura del ritorno del terrorismo, la guerra contro l’Isis, le forti tensioni con la Russia per la vicenda ucraina, le guerre cibernetiche con la Corea del Nord per il film (fra l’altro bruttissimo) The Interview.
Per non parlare poi della triste vicenda messa in luce dalla pubblicazione del rapporto senatoriale sulle torture effettuate dalle agenzie della sicurezza statunitense, che induce ad alcune riflessioni sulla natura del sistema politico-istituzionale americano, con i gravissimi comportamenti dalla pubblica immoralità che sono stati difesi e giustificati dal vecchio gruppo dei bushiani nelle persone di Dick Cheney e Donald Rumsfield, ed ancor più dal direttore in carica della Cia, John Brennan, che ha invocato la ragion di Stato per “mantenere gli Stati Uniti forti e sicuri dopo lo shock dell’attacco a New York e Washington”.
Come Massimo Teodori tutto questo mette in luce come tutte le volte che si imputa agli Stati Uniti – spesso a ragione – qualche comportamento eticamente riprovevole, si è soliti accorpare indebitamente in un sol fascio univoco strutture e organismi che invece sono distinti e separati in una architettura istituzionale che ha notoriamente come regola i pesi e contrappesi.
Ora sembra però ad alcuni che, anche in questa vicenda, gli USA si dimostrino capaci di riconoscere e rivelare i propri errori e le proprie responsabilità e, pur essendo una nazione dalla enorme forza economica e militare che commette abusi all’interno e all’estero, sono pronti a fare ammenda, quasi si trattasse di un vero e proprio ribaltamento dell’ipocrita uso della retorica del bene contro il male.
Ma vi è sempre qualcosa di irrisolto e di ipocrita in tutto questo, come ad esempio, il risarcimento decretato ma solo dopo molti anni dalla Corte suprema per l’abuso commesso da Franklin D. Roosevelt contro i cittadini americani Nisei, sbattuti da un giorno all’altro in campi di concentramento dopo Pearl Harbor; o ancora l’atteggiamento del Congresso che decretò la fine di Joseph McCarthy e del maccartismo dopo anni di pavido sostegno e di seguito il disvelamento della natura strumentale dell’incidente del golfo del Tonchino ai tempi della guerra del Vietnam; e, più recentemente, la stessa diffusione delle immagini “scandalose” di Abu Ghraib; fatti che indurrebbero a pensare che la politica democratica statunitense, nonostante tutto, funziona soprattutto per quell’aspetto che rappresenta il punto debole di molti stati occidentali, e cioè la forza del sistema politico-istituzionale di correggere se stesso senza ricorrere ed attendere l’intervento di agenti esterni; mentre il tutto è solo spettacolo strumentale ed apparenza.
Questa apparente democrazia accogliente in realtà chiusa e xenofoba e che premia solo chi vince, indipendentemente dai mezzi, resa ancora più reazionaria dopo l’11 settembre, è stata ben raccontata al cinema da M ira Nair nel “il fondamentalista riluttante” e, ancora, nel sottovalutato “Reign Over Me”, interpretato da un Adam Sandle, insolitamente quanto efficacemente lontano dal consueto registro comico e demenziale, e in tempi più recenti da “Molto forte, incredibilmente vicino”, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, con la straordinaria interpretazione del grande vecchio Max von Sydow; e, ancora, da “L’ospite inatteso” di Tom McCarthy, dall’indiano My Name is Khan o dal rivudo e teso “The Road to Guantanamo”.
Carlo Di Stanislao
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