Dovremo tenerci per buone le parole del criminologo Francesco Bruno, che asserisce il valore morale e catartico del macabro voyeurismo mediatico a proposito di atroci delitti, fatti di sangue e orchi che uccidono all’impazzata o sapremo replicare con fermezza morale e intellettuale al medico 63enne, ospite dei salotti televisivi per commentare i casi di cronaca nera, ceso in campo a fianco dell’ormai ex assessore alla Mobilità del Comune di Lecce, Giuseppe Ripa, dimessosi dopo aver insultato il governatore della Puglia, Nichi Vendola e dalle pagine virtuali di Pontifex, blog che ospita spesso dichiarazioni omofobiche nei confronti di gay, lesbiche e trans gender ha detto che i gay sono persone da curare, individui “non normali”, assimilabili ai disabili, dimostrando che in cattedra alla Sapienza e a Salerno, abbiamo psichiatri che la pensano come l’onorevole Domenico Scilipodi che, non contento del suo passato, rincarta la dose e scende in campo sul caso Ripa affermando (da vero siciliano) , che “l’omosessualità è una cosa anormale”.
Non sono bastate le aperture di Papa Francesco e della CEI e neanche la censura della Federazione degli Ordini dei Medici, due anni fa, dopo una richiesta di Arcigay, sulla depatologizzazione dell’omosessualità, come deciso sin dal 1990 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ciò che sconcerta è l’ignoranza che regna e che porta il medico e docente universitario (secondo il curriculum pubblicato on-line è professore straordinario presso l’Università degli Studi di Salerno e docente di psicopatologia forense e criminologia presso la “Sapienza” di Roma) Bruno, che non si fa neanche troppi problemi quando si tratta di attaccare l’OMS: “Quando i colleghi americani hanno sdoganato l’omosessualità dalle patologie, hanno fatto un grave danno e io sono contrario a quanto sostiene l’Organizzazione Mondiale della sanità. L’omosessuale, al quale va dato ogni rispetto, è clinicamente un malato, ovvero soffre di un disturbo patologico che lo altera. Inutile che questi signori vogliano convincerci che i normali siano loro. Ma sono sostenuti, parlo fuor di metafora, da lobbies potenti e forti”.
Ormai chi va in tv si sente di essere superiore a tutto, al di sopra di tutto, una sorta di novello profeta o di nuovo Nietzshe capace di andare al di sopra e al di fuori di ogni morale, soprattutto (ma non solo), di quella cristiana la cui essenza non risiede tanto nel monoteismo, (che il cristianesimo ha in comune anzitutto con l’ebraismo, dal cui tronco è nato, e con l’islamismo), ma con l’idea, davvero rivoluzionaria, che Dio è anzitutto amore in senso cosmico, totale, universale e pertanto è rispetto e accettazione della vita in ogni sua forma ed ogni sua espressione.
Come scrive Fabrizio Federici in questi giorni in cui il Natale ci richiama a questo concetti attraverso la figura del Cristo, che, senza far torto ai nostri “fratelli maggiori” ebrei, porta con se la forza rivoluzionaria di un messaggio d’amore capace di cambiare il mondo a favore soprattutto degli umili, degli ultimi ( per questa stessa ragione, ricordiamo, si dichiarava alla fine anticristiano il “superuomo” Nietzsche, per altre cose, peraltro, filosofo apprezzabile) e rimane il più grande personaggio della storia, non tanto perché è figlio di Dio, ma piuttosto come uomo straordinario, fortemente ispirato da Dio, così come Mose’, Buddha, Maometto, ma su un piano spiritualmente ed eticamente superiore, capace di dare ispirazione a personaggi come Francesco d’Assisi, Don Lorenzo Milani, Martin Luther King, Desmond Tutu, coprotagonista, con Nelson Mandela, della lotta all’apartheid e sostanza alle speculazioni somme sulla morale umana di Agostino Di Ippona, Tommaso d’Aquino, Lutero , Erasmo, Kierkegaaard, von Balthasar, Bergosn e Blondel. Mancando il senso morale indotto dall’amore, quello che si ritrova anche in Hugo e Dickens, ma anche in senso più moderno e nostrano, ad esempio in Domenico Rea, si cade nella barbarie che giustifica ogni intrusione, ogni spettacolo, purché venda e che demonizza ogni differenza.
Un mondo come quello descritto da Vladimir nei suoi “I racconti della Kolyma”, che fecero conoscere al mondo le terribili condizioni di vita, l’orrore e la follia del sistema controreazionario sovietico e più in generale la relazione fra il dolore e il male mancando o scadendo ogni senso morale indirizzato verso l’altruismo.
Ciò che voglio dire in questo scritto di fine anno da cui la speranza per un futuro migliore sembra fuggita lontana non lasciando si sé alcun accenno, che noi osserviamo la realtà e la giudichiamo in conformità a determinati criteri di valore e di giudizio che abbiamo così profondamente assorbito (attraverso la cultura e l’educazione ricevuta o se si preferisce inculcata) da farci pensare che questi “filtri” non esistano, ma debbono esistere per fare di noi esseri sociali in società mature.
Se Nietzsche sbagliava a irridere Darwin sotto il profilo scientifico, non sbagliava per niente sotto quello filosofico, quando affermava che l’uomo deve fermarsi e contenersi prima di giungere a un’amoralità che della natura imita solo l’indifferenza e la spietatezza.
Se il prof. Bruno e i suoi epigoni vogliono difendere, per difendere se stessi, una sorta di naturale amoralità che vada oltre e superi il cosiddetto perbenismo, ricordino la visione naturalistica che si ritrova nell’Emilio dove Rousseau sostiene l’esistenza di una “amoralità naturale”, rispettando la quale sia possibile educare l’uomo ad avere consapevolezza delle sue istintive e spontanee attitudini sulle quali conformare le virtù civili: prima tra tutte quella dell’eguaglianza. Invece i media che loro frequentano, come ampiamente mostrato in scritti e film memorabili, da Wells a Mc Lhuan, sono mezzi progettati per creare sperequazioni e diseguaglianze che hanno alla fine dato ragione a Croce il quale sosteneva che poiché la politica precede la morale, il politico deve agire esclusivamente con la forza in vista del conseguimento dell’utile prescindendo dalla morale. E questo spiega il binomio sinergico che ha alleato politica e media e l’amoralità che sciama in ogni recesso del nostro vivere quotidiano.
Non ci sono privacy, deontologia e Carta di Trieste che tengano. L’obiettivo è vendere a scapito della qualità dell’informazione e della vita di persone innocenti fino a prova contraria. S’istituiscono processi televisivi, si ricostruiscono le vicende giudiziarie sulla base delle personali intuizioni del giornalista sciacallo di turno, che ad arte sono spacciate per prove certe della magistratura. Laddove un inquirente si interroga sull’affidabilità degli indizi, là fuori c’è un giornalista pronto a giurarvi che lui sa che quel “biondino con gli occhi di ghiaccio che si fa le lampade” altro non può essere che colpevole.
Si confondono le indagini preliminari e i verbali degli interrogatori per sentenze de facto, si fa credere al lettore che un avviso di garanzia o l’iscrizione nel registro degli indagati siano condanne inappellabili, si fa credere che le sentenze dei casi di nera debbano essere emesse da conduttori tv, giornalisti e tribunali popolari istituiti nei salotti buoni dei media, quelli frequentati da Bruno, la Bruzzone e tanti altri.
Fabrizio Pannone, un anno fa, citando un libro da poco uscito: “Tv lobotomie. La veritéé scientifique sur les effets de la Télévision” di Michel Desmurget, faceva notare come particolarmente pericolosa sia la televisione perché è difficilissimo resistere al suo fascino, specie da giovani. Basterebbe fare un semplice calcolo sui giorni di vita che ogni anno si buttano al secchio, per una visione televisiva di due ore medie al giorno, per capire che la Tv è sempre più una catena, un ceppo e un pericolosissimo virus.
Per chi argomenta che la concorrenza di Internet, Facebook e i-Phone sono un contrasto a questa sudditanza, dobbiamo dire che invece è accaduto il contrario, in quando i dati ci dicono negli Stati Uniti il 79% delle famiglie possiede 3 televisori e oltre il 70% dei bambini dagli 8 anni in su ha una televisione in camera e mentre negli anni ’50 solo l’1% delle famiglie americane aveva la Tv in casa, in pochi anni la presenza della Tv è passata dall’1% al 99,99%. E’ stato calcolato che lo spettatore medio passi davanti allo schermo acceso 3 ore e 40 minuti ogni giorno, ovvero 1.338 ore complessive, quasi 2 mesi ogni anno ed è di fatto, come lo sono internet ed i social, un fattore di isolamento sociale che a dei rischi morbosi per la sua propensione a favorire la sedentarietà, il declino cognitivo, la comparsa di patologie cerebrali degenerative (Alzheimer) e i comportamenti a rischio (tabacco, alcol, violenza, sessualità).
In conclusione vale la pena ricordare quanto scrisse il filosofo Pascal Bruckner: “la Tv non esige dallo spettatore che un atto di coraggio – ma esso è sovrumano – quello di spegnerla” .
Carlo Di Stanislao
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