E’ partito male questo 2015 che ci ha già consegnato una lunga lista di aumenti (per acqua, multe, pedaggi, benzina); la beffa dell’aumento di un solo euro sulle pensioni ; il tributo, ormai certo, alla sponsorizzazione della Confindustria del governo Renzi, compensato dai rincari per tutti; il disperato video delle due volontarie italiane, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite in Siria il 31 luglio scorso e l’infittirsi della questione marò , partita male e divenuta peggio; per non parlare della assenza dell’83,5% dei vigili urbani previsti in servizio a Roma la notte di san Silvestro e quella dei 200 netturbini che dovevano prestare servizio a Napoli a Capodanno, frutto di scelte personali e pessime abitudini rese possibili da medici conniventi, ma anche da una totale assenza di senso di responsabilità, che rende sempre meno credibile la nostra Nazione, dove il problema di correttezza e legalità esiste dal basso.
Il 1° gennaio, dopo solo 13 giorni dalla inaugurazione, è crollato un viadotto ultimato nel corso dei lavori di ammodernamento dell’itinerario Palermo-Lercara Friddi, sulla statale 121 Palermo-Agrigento, consegnato con un anticipo insolito di tre mesi rispetto alla scadenza e costato 13 milioni di euro e che in soli sei giorni di effettivo esercizio ha battuto ogni precedente record negativo , con la procura di Termini Imerese che ha aperto un’inchiesta, l’Anas che ha attivato un’indagine interna e annunciato azioni legali nei confronti dell’impresa, e , Matteo Renzi, prima con un Tweet e poi su Facebook , che ha prontamente assicurato che: “è finito il tempo degli errori che non hanno mai un padre. Pagheranno tutto”.
Si ha l’impressione invece che tutto continui e peggiore, fra incuria e assenza di senso di responsabilità in un Paese alla deriva e che non sa né tracciare un futuro né riprendersi un presente dignitoso o almeno presentabile.
“La chiusura preventiva già il 30 dicembre ha escluso ogni rischio per l’utente”, ha scritto l’Anas in una nota in cui si precisa che per la variante di Scorciavacche, sulla Palermo-Agrigento, “tutti gli interventi di ripristino saranno a carico della ditta, senza alcun onere per l’Anas”.
Davvero poco per ridare credibilità ad una Nazione in cui si definiscono eroici i membri dell’equipaggio del traghetto Norman Atlantic, che in realtà hanno solo fatto il loro dovere, in una vicenda che comunque presenta ancora molti punti oscuri sulle dotazioni di sicurezza della nave.
“Sento un crescente disagio ed una sorta di fatica”, aveva detto pochi giorni fa in una intervista televisiva a Rai 1 Pino Daniele, “e non perché ho 60 anni, ma perché sento la fatica di vivere in un mondo senza più ideali, voglia di fare, responsabilità e prospettive”.
Forse per questo il suo cuore fragile e sensibilissimo ha smesso di battere, la scorsa notte, dopo soli 59 anni passati a credere nei sogni e nelle possibilità e a coniugare, come mai nessuno, la musicalità partenopea con il blues ed il jazz, facendone un simbolo, un idolo indiscusso, una bandiera, che aveva tolto alla canzone napoletana polvere e crinoline, l’aveva infiltrata di rock, rivitalizzandola e rinnovandole, nel rispetto delle radici.
Pensandoci ora, Pino Daniele è stato l’esempio di come si possa essere ancora oggi un uomo vero, un uomo che, come recita un proverbio cinese, ha radici ben salde in terra e rami liberi di muoversi al vento, in ogni direzione.
Lo ha dimostrato sin dall’inizio, da “Terra mia” del ’77; “Pino Daniele” del ’79, “Nero a metà” dell’80; “Vai mo’” dell’81 e con brani indimenticabili come “Napule é”, la “Tazzulella ‘e café”, “Je so? pazzo”, “Quanno Chiove”, “Yes I Know my Way”.
Il suo cuore ballerino, debole e profondissimo come quello dell’amico Masimo Troisi, a cui aveva scritto tre colonne sonore, lo ha tradito per sempre nel pieno di una notte tranquilla di inizio anno, nella sua casa di Magliano in Toscana, in un momento di grande vitalità personale e professionale, dopo che aveva preso parte alla “festa di S. Silvestro” intitolata “L’anno che verrà”, da un celebre titolo di Lucio Dalla, anche lui anzitempo stroncato da un infarto.
Sapeva del suo cuore malato e ci scherzava, tanto che, ma con quel tono fra il serio ed il faceto che è tipico dei napoletani, , aveva detto , rivolto all’amico Troisi, durante il funerale: “ci rivedremo presto”.
Avrebbe compiuto 60 anni il 19 marzo e stava preparando un album di inediti, fra cui “Canzone” che aveva presentato in anteprima su Rai1, appena sei giorni fa.
A settembre, con la formazione originale del 1980, aveva girato l’Italia ricantando “Nero a metà”, dimostrando ancora una volta che nel suo sound scorrono la lava del Vesuvio e l’acqua del Mississippi e che lui era giunto a livelli molto più alti rispetto a quelli pur considerevoli del “Neapolitan Power” e dei vari vari Edoardo Bennato, Toni Esposito, i Napoli Centrale, il Balletto di Bronzo, gli Osanna e i fratelli Sorrenti; e raggiunto una alchimia rara, fatta d’impeto e di classe, con brani intimisti come “Quanno chiove”; innamorati come “E so’ cuntento ‘e stà’”; bluessanti come “Nun me scoccià’ cchiù/tanto muore pure tu…”; jazzistici come “Alleria”; o francamente partenopei, nel senso che va da Totò e Edoardo fino a De Simone, come “A testa in giù” e “ Sotto ‘o sole”, con uno scat memorabile, degno del miglior Al Jarreau ed una capacità chitarristica che non era virtuosismo fine a se steso, ma lirico impiego di un mezzo per trasmettere autentiche emozioni.
Nel primo “Nero a metà”, pubblicato quando aveva 25 anni e già da 13 si esibiva, nella canzone “Voglio di più, aveva espresso il suo senso di essere partenopeo ed italiano, nei versi : “sai che non striscerò per farmi valere”, e “sarò così sempre pronto a dire no”, con i quali si chiamava fuori da questi tempi in cui tutti strisciano e si adattano nella convinzione che l’unico interesse debba essere il proprio tornaconto.
Perché sin da allora e poi per sempre, la sua anima ha vibrato in modo consimile a quella di La Capria e di Sorrentino, ma anche di Domenico Rea e di altri i non napoletani: Gadda, Céline, una vibrazione in cui spicca una vitalità al di sopra della media, una specie di ottuso amore nei confronti della vita, ma bilanciato da un disincanto assoluto; un dualismo dissonante che è quello, in fondo, che è al centro della conversazione fra La Capria ed Arbore nel documentario “Napoli signora”, presentato in anteprima al Prix Italia di Torino e in onda su RaiStoria lo scorso 28 settembre, con un universo fatto di strade che – per dirla con i versi di Enzo Bonagura – diventano un palcoscenico; cianfrusaglie che si scovano camminando, presepi di San Gregorio Armeno, ospedali per le bambole; e dove, come dice La Capria -“Dio si nasconde nei dettagli”.
Anche a distanza di anni, coloro che erano presenti nell’Aula Magna dell’Istituto universitario di Architettura a Venezia il 9 marzo del 2004, ricordano con emozione l’atmosfera tutta particolare creatasi in occasione dell’incontro fra Raimon Panikkar ed Emanuele Severino, i due giganti del pensiero contemporaneo che misero a confronto Oriente e Occidente per capire se potevano collaborare alla ricerca di una possibile realtà ultima e si accorsero che esistono due elementi di convergenza: l’insoddisfazione radicale nei confronti della visione dominante e la convinzione che tutto sia eterno.
Ora che Jaca Book pubblica in un uno splendido libro intitolato “Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente e Occidente” il resoconto di quell’incontro, posso anche vedere che vi è però, anche luna irriducibile differenza: per Severino la follia consiste nella fede del divenire altro del mondo, che trova la sua estrema realizzazione nella tecnica, mentre Panikkar pensa che il nostro compito non sia risolvere l’enigma del mondo bensì imparare a vivere in esso.
Penso che Panikkar abbia ragione e che si muore, per una qualche malattia, quanto si smette di credere di poter continuare viverci nel mondo.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento