Nell’Hangar Bicocca di Milano, al via la giornata, con oltre 500 esperti, per discutere “Le idee di Expo”, con 42 tavoli tematici per gettare le basi della “Carta di Milano”, che a ottobre sarà consegnata al segretario generale dell’Onu per un futuro sostenibile, a partire dal tema di Expo, “Nutrire il pianeta”, con un lungo intervento di Matteo Renzi che continua a sciorinare promesse e premesse, assicurando che il 2015 per l’Italia sarà “un anno “felix” e glissando rapidamente sulla pericolo che già il debutto, il primo maggio, rischia di diventare un flop di imbarazzo planetario, per il minacciato sciopero della maestranze che dovrebbero allestire la “Turandot”, perché intendono rispettare lo stop della giornata dedicata ai lavoratori.
Alza la voce e batte i pugni il leader uscito vincitore anche dallo scontro per la elezione dell’inquilino del Colle e parla di “boicottaggi inaccettabili” e di “interventi normativi”, se necessario, “per evitare di fare una figuraccia a livello internazionale”.
Ma, al solito, le vere idee non vengono né da lui né dagli altri politici, ma da Papa Francesco, che attraverso un video sottolinea la necessità di “risolvere le cause strutturali della povertà”, con l’appello: “No, a un’economia dell’esclusione e della iniquità”.
E’ molto più diretto e rivoluzionario lui che si pone come baluardo contro la “logica dello scorato e della iniquità” che il nuovissimo capo dello stato che si limita a dire necessaria l’adozione “di un nuovo modello di sviluppo”, mentre ancor più generico e demagogico è il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina che ribadisce la frase, bella e vuota, anticipata in una intervista al Corriere della Sera: “Penso che nel 2015, l’anno di Expo, l’Italia potrebbe inserire il diritto al cibo nella costituzione”.
Iscrivere un diritto non significa renderlo automaticamente possibile così come la gran mole di denaro, pari a 20 miliardi di Euro in 52 opere pubbliche, non significa affatto assicurare a persone e merci vie di trasporto sicure e più rapide e sistemi meno inquinanti.
Se Renzi non convince, ci convincono ancor meno Pisapia e Maroni, perché si limitano a dire che tutto questo sforzo erculeo che risucchia le ultime energie di una Nazione esausta, va all’i9ndirizzo della sola Lombardia e tutto il rimanente fa da contorno.
E ci inquieta, in questo caso, ancor di più la ventata veterodemocristiana che vara una versione 2.0 della mai abbastanza rimpianta (sic) Cassa del Mezzogiorno, operazione costata un mare di denaro e che, alla fine, ha solo aumentato il divario fra il Nord ricco ed il Sud povero e prolungato la spogliazione, partita con i Savoia, del Meridione a vantaggio del Settentrione.
La rinnovativa Cassa del Mezzogiorno marchiata Renzi, sarà gestita da chi prenderà il posto della dimissionaria Maria Carmela Lanzetta, tornata a fare la farmacista in Calabria, le cui dimissioni solo per ora congelate, con la renziana Picierno che ha tutte le carte in regola anche per sbaragliare la concorrenza – tutta interna al Pd – di Valentina Paris, giovane turca al momento responsabile enti locali della segreteria Pd, e di Anna Ascani, rampante deputato democrat, mentre aleggia sul nuovo ministero anche l’ombra di Anna Finocchiaro, già ministro per le Pari opportunità con Prodi nel 2008., alla quale, sfumata la scalata al Quirinale potrebbe essere concessa ho questo ministero o la sedia ancora calda come giudice della Corte costituzionale appena lasciata dal conterraneo presidente Mattarella.
A l Sud era come se fosse arrivata la Befana, scrisse Indro Montanelli nella sua famosa inchiesta del 1963 sulla Cassa del Mezzogiorno pubblicata dal Corriere.
Solo che, alla fine, quella Befana portò ricchi doni al Nord e solo cenere a carbone al Sud già inguaiato.
Quel mostro che ora Renzi intende rieditare, cominciò con la costruzione delle grandi opere pubbliche, delle reti idriche e stradali essenziali per tentare di agganciare il Sud al resto del Paese, per finire distribuendo soldi a pioggia a iniziative spesso discutibili.
E nemmeno con il suo erede, quell’Agenzia del Mezzogiorno che nel 1986 ebbe in dote 120 mila miliardi di lire: la più imponente e fallimentare iniezione di denaro pubblico nelle aree meno sviluppate del Paese da quando esiste lo Stato unitario. Una esperienza troncata all’improvviso, vent’anni fa, il 3 aprile del 1993, dal ministro Beniamino Andreatta, con molti interventi o bruscamente interrotti, a partire dalle agevolazioni alle attività produttive, come ricorda l’ex amministratore delegato di Sviluppo Italia Carlo Borgomeno, che di quella stagione fu tra i protagonisti, nel suo bel libro “L’equivoco del Sud”, appena pubblicato da Laterza.
Ancora oggi ci sono opere da completare, solo nel campo idrico 1.080 progetti , per poco meno di 3 miliardi di euro.
Come ricostruisce Gianluigi Da Rold, non occorre scomodare grandi uomini come Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato per capire che la vecchia, spinosa questione del divario fra Sud e Nord ha sempre avuto bilanci catastrofici e negativi per il meridione, prima e dopo la Cassa del Mezzogiorno, divenuta poi AgeSud.
La storia della Casmez, come fu chiamata, può allora essere descritta attraverso tante immagini che chi ha la mia età ricorda molto bene: l’acqua che arriva finalmente nelle case e lascia per sempre nel passato le donne con i secchi sulla testa, che camminavano per chilometri fino al pozzo; le fogne, i ponti e le grandi bonifiche, con la sconfitta della malaria, il lavoro; ma anche i contadini che lasciano la terra, e diventano operai; le strade che piegano l’asprezza dell’entroterra ma modifica natura e paesaggio con larghe ferite ancora oggi non risanate e ancora paesini abbandonati totalmente e per sempre, dighe inutili che hanno fatto ritirare le spiagge; imprenditori e amministratori corrotti; coste avvelenate dall’industria, a Gela, Taranto, Brindisi e Bagnoli e il grosso “affare” delle partecipazioni statali e delle cosiddette Cattedrali nel deserto.
L’investimento complessivo per il Sud è calcolato in 279.763 miliardi di lire (vale a dire 140 miliardi di euro). e di là da panegirici è servito solo a distruggere il Sud va favore di un Nord sempre più florido.
Al solito i soldi senza idee, sogni e prospettive generano solo un appiattimento peggiorativo dell’uomo, del territorio e di ciò che si produce.
L’Italia continua ad esondare, con frane, smottamenti, città invase da acqua e detriti, milioni di euro di danni ed opere di contenimento e sicurezza neanche ancora progettate.
Un miliardo di euro è già operativo per le opere dice il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti a margine di un convegno organizzato dall’Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (Anbi), il cui tema era proprio la riqualificazione del territorio italiano, ma non dice che di miliardi ce ne voglio molti di più e il 90% degli interventi non è neanche stato progettato.
Le stesse località colpite nel 2014 sono in piena crisi anche ora, con morti, dispersi, feriti ed ulteriori dsanni per milioni di euro.
Non vi sono soldi per questo e neanche per gli allevatori italiani, per arrestare la chiusura di stalle che ha comportato la perdita di posti di lavoro, ma anche l’abbandono di aree collinari e montane dove la loro presenza costituiva un presidio territoriale fondamentale contro il degrado del suolo e il dissesto idrogeologico.
Trovano soldi, invece e per lo più pubblici, i fratelli Taviani per il loro inutile “Meraviglioso Boccaccio” e Silvio Muccino per l’insulso “Le leggi del desiderio” in uscita a fine mese e trovano soldi annhe lo stantio e risaputo film di falsa-protesta e presenta rievocazione “Patria” di Felice Farina, che racconta, demagogicamente, i nostri ultimi trenta anni attraverso Salvatore Brogna, operaio licenziato che si arrampica sulla torre della fabbrica, cieca, minacciando di buttarsi giù; Giorgio, operaio rappresentante sindacale, che arriva per salvarlo dalla caduta ed un terzo, ipovedente e autistico, custode assunto come categoria protetta, che scala eroicamente la torre per fare loro compagnia.
Trovano soldi “Non c’è 2 senza tre” con Belén che si incunea fra due omosessuali, un disastro dall’inizio alla fine, un film del quale si può fare a meno che ritrae uno spaccato di vita falso e ben ancorato a vecchi e obsoleti pregiudizi; e “Leoni”, opera prima di Pietro Parolin che scimmiotta Germi e i fratelli Cohen, ma che manca di originalità, mordente e vera ferocia, con insopportabili tempi dilatati dalla recitazione di Marcoré, imbevuto di quella pigrizia scocciata della quale la provincia italiana (e non solo) si fa un vanto, e caratterizzato da quell’enunciazione strascicata da assunzione (costante) di Valpolicella.
Non trova invece soldi per una distribuzione efficace “Biagio”, il film su Biagio Conte, il San Francesco di Palermo, racconto di una vita dedicata agli ultimi ed anche critica al consumismo sfrenato che ci domina completamente da oltre 30 anni.
Solo 600.000 euro per il film e tutti (o quasi) da privati, per un racconto lirico e serrato che vuol insegnare, come ci dicono il Vangelo e i romanzi di Dostoevskij e di Céline, il problema è far emergere in noi la parte migliore.
E non trova soldi (o ne trova pochi, con conseguente scarsissima distribuzione), il docu-film di soli 50 minuti, firmato da Federico Bondi e Clemente Bicocchi “Educazione affettiva”, dove si parla e con vera ispirazione, di come una scuola elementare dovrebbe essere: non una somministrazione univoca di saperi, ma un cammino di ricerca di senso, una risposta al trauma della separazione, del cambiamento, delle ansie e rabbie represse.
Un film delizioso, liberatorio e non ricattatorio, con un commento musicale splendido, con “Infanzia e maturità” di Ennio Morricone e “Un senso” di Vasco Rossi, con un finale di amoroso distacco a cui è difficile resistere ed in mezzo un mosaico di situazioni e reazioni a sfide reali: paura del cambiamento, senso di solitudine, vergogna, imbarazzo nel rivelare l’amore, senso di esclusione dal gruppo, espressione di non detti.
Un film che rievoca Truffaut, ma in modo non sistematico e non ha nessun timore di suonare sentimentale.
Un film che c i rivela come una buona educazione agli affetti metta dal riparo dalle nevrosi, che invece dominano questi anni, ed infiltrano arte e cinema, come ci dimostra la partenza del Berlinare 2015, con gli insopportabilmente nevrotici e molto noiosi “Queen of the Earth”, film diretto da Alex Ross Perry e interpretato dalla Elisabeth Moss di Mad Men e Top of the Lake e dalla Katherine Waterston protagonista femminile di Vizio di forma di Paul Thomas Anderson e da “Counting”, il nuovo lavoro di Jem Cohen, film maker newyorchese noto per i suoi ritratti urbani e per le collaborazioni con musicisti come Patti Smith, i Fugazi e i R.E.M., che qui racconta il “15 capitoli”, secondo una logica che spazia dal geografico, al temporale, al filosofico, le ore di riprese accumulate tra il 2012 e il 2014 nella sua New York, a Mosca, a Istanbul, in una città mediorientale, in viaggio; il tutto on una risaputa mortale noia narrativa.
Nel terzo giorno di svolgimento, Dopo Renoir e Bunuel, compare Benoit Jaquot, col terzo film tratto del romanzo “Diario di una cameriera”, che si sviluppa fra corsetti e crinoline, con una irresistibile Lea Seydoux, che distrae invece da un film davvero nuovo “Cloro”, film italiano già applaudito al Sundance e, sin’ora, la miglio cosa comparsa a Berlino.
Ieri, giorno due della mostra cinematografica più politica ed impegnata fra tutte, l’insopportabile “Taxi“del regista Jafar Panahi, e “The Queen of the Desert” del regista tedesco Werner Herzog, con Nicole Kidman nel ruolo di Gertrude Bell, esploratrice britannica che più di ogni console e politico è riuscita a comprendere il deserto e l’anima dei suoi abitanti; operazione biecamente ed unicamente commerciale che nulla aggiunge ed anzi molto toglie alla filmografia di Herzog.
Un film piatto e lunghissimo, estenuante e risaputo come “Unbroken” di Angelina Jolie con la complicità di Joel e Ethan Coen; pasticciato come “Jupiter-Il destino dell’universo” di Lana (ex Larry) e Andy Wachowski, un film in cui si sente o una puzza di losco e viscido fra le zampate di Herzog e il suo amore per la natura, qui ridotto a semplice declamazione oleografica.
Un vero peccato perché Herzog è stato, come dimostra la rassegna ( dal 20 settembre al 3 ottobre scorsi), a lui dedicata col titolo “Il cinema di Werner Herzog: l’uomo e il dominio della natura”, organizzata da La Bottega del Cinema/Cineteca di Firenze e da Mediateca Regionale – Toscana Film Commission, con la collaborazione di Stensen|Cinema e il Goethe Institut Italien, uno dei maggiori e più innovativi autori di questi ultimi anni , autore, fra gli altri, di “Nosferatu”, “L’Invincibile”, di documentari come “Il sermone di Huie”, “La ballata del piccolo soldato” , “Little Dieter Needs to Fly” e del lungometraggio “Rescue dawn”, uscito nelle sale a livello mondiale nel luglio 2007 e ancora inedito in Italia, dove restituisce il ritratto nitido e appassionante di un uomo, Dieter Dengler, unico pilota americano sopravvissuto alla cattura nel Vietnam del Nord, mostrandoci le qualità rappresentative di un artista sempre “sull’orlo della follia”, con una versione dark della vita, ma senza troppi toni scuri, con una ‘inquietudine tutta logica che sa alimentars di sogni, di nostalgie e di desideri collettivi.
Una visione in fondo simile (anche se meno votata al reale e alla sua narrazione diretta e minuta) a quella di Oriana Fallaci, una donna , anche lei, dal carattere difficile, che amava provocare, che non aveva paura del conflitto, e soprattutto che portava avanti le sue idee anche quando queste contrastavano con l’opinione del resto del mondo. Una donna amata e odiata con egual passione e che avrà il volto di Valeria Puccini nella miniseria in due puntate di Marco Turco “L’Orania”, che andrà in onda in prima serata su Rai 1 lunedì 16 e martedì 17 febbraio, girata nei luoghi da lei percorsi e descritti, a partire dal Vietnan.
Molto è stato scritto su di lei e non sempre in modo garbato e molto si è polemizzato, tre anni fa, sulla lite fra famigliari per la sua eredità.
Oriana fallaci non amava che si scrivesse di lei e non sopportava sentir pronunciare il suo nome a sproposito né tantomeno vederlo stampato in giro. Per tutta Fallaci dovette sopportare il peso dolceamaro della celebrità, perché la condanna dei grandi è di finire sulla bocca (e a volte nel cuore) di tutti, anche a dispetto della più ostinata riservatezza.
Non sempre ne ho condiviso le idee, ma va riconosciuto certamente, che ha attraversato la seconda metà del Novecento e l’alba del terzo millennio fissando su carta i momenti più intensi della nostra storia recente; il dopoguerra e la ricostruzione, le fratture ideologiche della guerra fredda, la corsa allo spazio, l’imporsi della cultura pop, l’emancipazione femminile, gli scontri generazionali e l’ombra lunga di quell’eterno conflitto che – dopo aver tormentato gli angoli più poveri del pianeta – l’11 settembre 2001, che ha oscurato, forse per sempre, il cuore dell’Occidente.
Mi aspetto pertanto che Marco Turco non porti in tv un volto edulcorato e ci consenta una visione, non da buco della serratura, nello smisurato patrimonio della sua intelligenza.
Spero gli sceneggiatori e la protagonista, abbiano letto il diario da lei scritto per Rizzoli: “Oriana Fallaci: – In parole e immagini” e che venga fuori la vera Fallaci, sorridente, ironica, spesso apertamente simpatica e talvolta scatenata di fronte all’obiettivo, grande scrittrice e giornalista, spesso nascosta dietro un’ombra più dura, intransigente, narcisa e molto, troppo difficile, da condividere ed amare.
E spero che la miniserie trovi il tempo di raccontare il rapporto di profonda amicizia ed affinità, fra lei e Pier Paolo Pasolini, una amicizia che risale agli anni sessanta e si comprende così profonda con la “Lettera” che lei gli scrive attraverso “l’Espresso” (https://beatricepesimena.wordpress.com/2013/08/27/lettera-a-pier-paolo-pasolini-oriana-fallaci/) o la sua biografia più nota Vita di Pasolini (1978 la prima edizione), con una serie di risposte poetiche e che Pasolini inserirà ne Il poeta delle ceneri, una autobiografia non in prosa, scritta negli anni “americani” ( tanto che il titolo iniziale doveva essere in inglese Who Is Me,) viene pubblicata per intero solo dopo la morte del poeta.
Ricordo un passaggio della lunga intervista sull’Europeo de 13 ottobre 1966 di Oriana Fallaci a Pasolini, che da poco era stato a New York”, in cui il poeta diceva che anche in America, nella opulenta America, aveva trovato la stessa miseria che si respira “a Calcutta, a Bombay, a Casablanca. Non una miseria economica, la miseria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco, psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provvisorietà. Le strade male asfaltate che quando piove si riempion di gore. I muri neri o marroni, costruiti in fretta per esser buttati giù in fretta”.
Avevano ragione Pasolini e la Fallaci, a ben vedere ha trionfato e per intero, senza sacche di resistenza, un multi razzismo che non è interculturalità, ma omologazione dove tutto deve sembrare bello, nitido e pulto e dove l’inferno non è come nei versi di Rimbaud, ma anche quello è un luogo spettacolarmente edulcorato.
Penso a Dick Avedon, uno dei più grandi fotografi americani di questi ultimi anni, che piaceva a Pasolini e alla Fallaci e al suo ritratto di Charlie Chaplin, fotografato come un demonio, gli indici e i mignoli ritti sopra le tempie a mo’ di corna o forconi.
Penso alla feroce creatività di quel ritratto e mi preparo con languida, rassegnata amarezza al prossimo San Remo, che parte martedì, con Romina e Conchita, con Al Bano e Carlo Conti, con i “Soliti Idioti” in versione più scema e censurato e, non so perché, mi viene da piangere.
Penso di essere cresciuto negli anni sessanta ed ora di rimpiangerli molto, perché se è vero che furono pervasi da consumismo sfrenato è anche vero che vi fu immaginazione e creatività e che oltre al Sessantotto vi si sviluppò, grazie Guy Debord, col suo “La società dello spettacolo”, il Situazionismo, che ciu faceva reagire ad una cultura omologata, consumistica e narcotizzante.
Metto sotto gli occhi, ancora un po’ velati, Ho sotto gli occhi il “Panegirico di Debord”, uscito in Italia nell’edizione completa dei due tomi, di cui uno quasi totalmente iconografico, pubblicato da Castelvecchi e vi rileggo la teoria secondo cui e l’alienazione, lo sfruttamento, la mercificazione, il consumismo non nascano più nell’alveo della società industriale del capitalismo, come ai tempi di Marx, ma nel regno liquido e cromatico dello spettacolo, della sovrastruttura si direbbe con linguaggio marxiano, dove l’immagine e l’immaginazione, il look e il video, sostituiscono la sostanza dei rapporti di produzione ma anche dei rapporti sociali.
E mi viene un brivido a pensare che già cinquanta anni fa la centralità del video, della tv, nella vita di ciascuno, era il frutto evidente di un mondo dove il pubblico irrompe nel privato e viceversa, peggiorando morale e tutto il resto.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento