Storia di una repressione annunciata. L’aveva promessa ieri il capo della pubblica sicurezza, il maggior generale Tareq al-Hassan: “saranno presi provvedimenti contro chi semina il terrore tra i cittadini e mette a repentaglio la stabilità della nazione”. E così, alle sue parole, sono seguiti immediatamente i fatti: forze ingenti di polizia schierate a Manama hanno sparato stamattina gas lacrimogeni e proiettili ricoperti di gomma sulle centinaia di manifestanti scese per le strade della capitale in occasione del quarto anniversario della rivolta del 2011. A promuovere la protesta, dal nome “Sciopero di sfida, è stato un gruppo di giovani cibernauti raccolti nella sigla “Coalizione 14 febbraio”.
Gli uomini e le donne del corteo, con in mano le bandiere del Bahrein e con cartelli su cui c’era scritto “Abbasso Hamad” [il riferimento è il re Hamad al-Khalifa, ndr], hanno provato ad avanzare verso il centro della capitale, fulcro delle proteste delle 2011. Tuttavia, il loro cammino è stato interrotto dalla massiccia presenza di forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno disperso il corteo lanciando gas lacrimogeni, bombe stordenti e sparando proiettili ricoperti di gomma. I manifestanti avrebbero risposto a quel punto lanciando pietre, bruciando pneumatici e bloccando le strade con i cassonetti dell’immondizia. Non è stato ancora reso noto il bilancio degli scontri di oggi sebbene le prime informazioni escludano la presenza di vittime. Notizia, però, che al momento non è possibile verificare.
Sono passati quattro anni dall’inizio delle proteste nel Bahrein. Il 14 febbraio 2011 migliaia di manifestanti scesero per le strade della capitale chiedendo maggiori riforme e una più equa divisione del potere all’interno del regno. La risposta delle autorità locali fu affidata alla repressione operata dalle forze di polizia. Sono stati almeno 93 gli oppositori uccisi da Manama in questi 4 anni mentre centinaia sono state le persone arrestate. Ma la battaglia coraggiosa dei bahreniti ha finora perso soprattutto perché non è riuscita a “internazionalizzarsi” cioè a suscitare le simpatie degli attivisti occidentali che, folgorati dalle “primavere arabe”, hanno colpevolmente dimenticato la mattanza in corso nel Paese. Scontata invece è stata l’indifferenza di gran parte dei media mainstream e dei governi occidentali: il Bahrein ospita la quinta flotta degli Stati Uniti d’America ed è un avamposto militare strategicamente importante nella lotta contro il “nemico” Iran.
Eppure le istanze di al-Wefaaq (la principale forza di opposizione) non erano assolutamente “rivoluzionarie”: una monarchia costituzionale “reale” con un primo ministro eletto la cui azione governativa fosse indipendente dai diktat della famiglia reale. Non la testa del re, dunque, non quel “isqaat an-Nizam” (“caduta del regime) cantato a gran voce allora da centinaia di migliaia di manifestanti in altre piazze arabe. La maggior parte dei bahreniti scesa per le strade di Manama e raccolta a Piazza della Perla riconosceva l’autorità del sovrano, pretendeva solo una gestione del potere “più democratica”. Richiesta che sarà risuonata come terribile minaccia alle orecchie del re Hamad, sovrano sunnita in un regno a maggioranza sunnita. Così minacciosa che, non pago della repressione delle autorità locali e preoccupato per il numero crescente di oppositori nelle strade, decise di chiedere l’aiuto dell’alleato Riyad per reprimere in modo perentorio le proteste.
L’aiuto saudita non tardò ad arrivare: i cingolati di re ‘Abdallah entrarono nel territorio bahrenita a metà marzo del 2011. “Riportata la calma” e “ristabilita la stabilità del Paese” commentò la monarchia degli al-Khalifa quando i carri armati del potente vicino lasciarono il Paese. Un’operazione militare facilitata soprattutto dal silenzio complice di Bruxelles e di Washington sempre in prima fila a indignarsi per il mancato rispetto dei diritti umani in Paesi non “amici”. Ma criticare re Hamad sarebbe stato uno sgarbo ingiustificabile verso chi ospita la quinta flotta degli Stati Uniti e, come è stato annunciato poco tempo fa, una base militare britannica a Mina Salman dal costo di 23 milioni. Ovviamente pagati principalmente dal Bahrein, come è giusto che faccia un fedele alleato.
E così, in barba ai tanto declamati rispetto dei diritti umani e democrazia, l’Occidente ha scelto di girare le spalle alle proteste dell’opposizione bahrenita. In particolare a quelle del principale partito, al-Wefaaq. “Il movimento – si legge su un comunicato apparso ieri sull’accout Twitter del gruppo – ha raggiunto il suo quarto anno, ma la situazione peggiora sempre di più con cittadini minacciati di perdere la nazionalità in qualsiasi momento”. E già perché in questi anni, ai manganelli, proiettili (di gomma e non), agli arresti di massa, re Hamad ha pensato bene di fare ampio ricorso alla revoca della cittadinanza per coloro che “minacciano la stabilità del regno o diffamano la figura del re” (che in pratica, per la gestione personalistica del potere, sono qui la stessa cosa).
Ma all’aggressione del cittadino attivista, vi sono poi gli attacchi ai partiti politici sgraditi al monarca. Ad ottobre una corte ha bandito per tre mesi il principale partito di opposizione al-Wefaaq “per aver violato la legge sulle associazioni”. “C’è poca speranza di vedere progressi in Bahrein” – ha dichiarato Neil Partrick, analista presso la Royal United Services Institute for Defence and Security Studies – l’opposizione è a stento legale”.
I tentativi di dialogo e di riavvicinamento tra casa reale e parte dell’opposizione sono sempre falliti. Al-Wefaaq si è rifiutata a settembre di riprendere i negoziati con le autorità nonostante il “nuovo processo di dialogo nazionale” promosso dal Principe ereditario Salman bin Hamad al-Khalifa. In un clima fattosi sempre più teso e di scontro, a novembre l’opposizione ha boicottato le elezioni parlamentari (il cui esito favorevole per il sovrano Hamad era scontato)
Al-Wefaaq ha descritto il 14 febbraio del 2011 come l’inizio di “un movimento pacifico che vuole una nazione democratica basata sull’uguaglianza e sulla collaborazione in cui le persone sono la fonte del potere”. Le proteste dovranno “continuare a essere pacifiche finché non sarà raggiunta una soluzione politica”. Una soluzione che, al momento, appare difficile a concretizzarsi anche a causa del vicino saudita. “Nonostante sia interessata all’avvio in Bahrein di un dialogo interno – sottolinea Partrick – la leadership di Riyad fa sì che siano gli elementi più intransigenti della famiglia reale bahrenita a dettare l’agenda politica del Paese”
In un tweet apparso ieri sull’account di Sheikh Salman – il segretario generale di al-Wefaaq arrestato a fine dicembre dello scorso anno – il leader ha invitato i suoi sostenitori a non dimenticare le battaglie della rivoluzione: “quella di eleggere un governo in modo democratico, di votare per un parlamento che legiferi senza la tutela di un particolare Consiglio in elezioni periodiche basate sull’uguaglianza”.
Sono passati quattro anni e il sangue delle decine di vittime di Piazza della Perla chiede ancora giustizia.
Roberto Prinzi- Nena News
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