Crisi libica: la quiete prima della tempesta delle bombe

Dopo i toni bellici dei giorni passati, la guerra in Libia – o se preferite il “completamento della spedizione Nato” del 2011 – può per il momento attendere. E’ questo quanto hanno ieri hanno affermato i principali governi europei. In particolar modo quello italiano che fino a pochi giorni dava per imminente un attacco in […]

libia missileDopo i toni bellici dei giorni passati, la guerra in Libia – o se preferite il “completamento della spedizione Nato” del 2011 – può per il momento attendere. E’ questo quanto hanno ieri hanno affermato i principali governi europei. In particolar modo quello italiano che fino a pochi giorni dava per imminente un attacco in terra libica e che ora, come testimoniano le parole di stamane del ministro degli Esteri Gentiloni, cerca una “soluzione diplomatica”. Riferendo alla Camera stamattina, il titolare della Farnesina ha affermato che: “la situazione [in Libia] si sta aggravando. Ed è evidente il rischio di una saldatura tra gruppi locali e Da’esh [acronimo dispregiativo per “Stato Islamico di Iraq e Siria (Isil)”, ndr]”. E che, quindi “il tempo a disposizione non è infinito e rischia di scadere presto, pregiudicando i risultati raggiunti”.

Il ministro – accusato nei giorni scorsi insieme alla collega della Difesa Pinotti di aver accelerato per una soluzione militare – ha voluto smarcarsi da qualunque critica di guerrafondaio evidenziando la necessità di una “soluzione politica”. “L’Italia – ha detto – è pronta ad assumersi una responsabilità di primo piano e contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco, al mantenimento della pace, a lavorare per la riabilitazione delle infrastrutture, per l’addestramento militare, per sanare le ferite della guerra” sottolineando come “dire che siamo in prima fila contro il terrorismo non vuol dire essere alla ricerca di avventure militari”.

Posizione condivisa anche da Germania, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti e Francia che ieri in una dichiarazione congiunta, dopo aver condannato il terrorismo dello Stato islamico (Is), hanno ribadito l’importanza di implementare il dialogo tra le parti rivali in Libia. “La comunità internazionale” – si legge nella nota – è pronta a sostenere un governo di unità nazionale”.

Dunque restano per ora fermi nelle nostre basi gli aerei da guerra che fino a qualche giorno fa sembravano già pronti a decollare per sconfiggere gli uomini dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi. I tempi non sono ancora maturi per bombardare con i nostri jet costosi (in un Europa che sempre più taglia sul sociale, la spesa militare procede come sempre a gonfie vele).

Le strade che vogliono percorrere le cancellerie occidentali sono al momento due: la prima è quella di lavorare per un governo di unità nazionale in Libia. Opzione che presenta al suo interno notevoli difficoltà. In effetti non si capisce come e perché questa strategia dovrebbe funzionare ora dopo che i numerosi tentativi di mettere insieme i due parlamenti (a Tripoli e Tobruq) promossi dall’inviato Onu per la Libia Bernardino Leon sono falliti. Le due parti hanno posizioni che allo stato attuale appaiono inconciliabili. Resta difficile poi immaginare una mediazione fruttuosa quando una di queste (l’alleanza islamista di Alba Libica che governa a Tripoli) non è riconosciuta a livello internazionale. Quando riceverà questo prestigioso status? Per cui ora appare più prossima a realizzarsi una seconda strada: attendere una risoluzione Onu che dia l’avvio all’intervento militare con il pretesto “umanitario” (porre fine alle barbarie dello Stato Islamico).

In attesa del verdetto del Palazzo di vetro di New York, Europa e Usa possono tranquillizzarsi perché a fare il lavoro sporco (quello dei raid) ci sta pensando il neo alleato egiziano: il Presidente egiziano as-Sisi. Uno spregevole “dittatore” (seguendo gli standard che i governi democratici applicano ad altri leader mondiali), ma che è solo “autoritario” secondo la stampa e cancellerie nostrane e con cui, pertanto, si può collaborare. Ha anticipato le nostre azioni il fedele alleato as-Sisi, l’ex generale che in un anno e mezzo di governo (raggiunto con un colpo militare) ha ucciso oltre 1.500 persone e ha arrestato più di 15.000 oppositori (laici e islamisti).

Intervistato dalla radio francese Europe 1, il leader egiziano ha esortato le Nazioni Unite a formare una coalizione internazionale che possa subito intervenire in Libia per completare l’azione della Nato del 2011 definita “una missione incompiuta”. “Non c’è altra scelta, è il popolo e il governo libico che ci chiede di agire. Dobbiamo sconfiggere il terrorismo” ha dichiarato. Il Cairo è intervenuto ufficialmente in Libia per la prima volta lunedì dopo che un gruppo libico affiliato allo Stato Islamico ha rilasciato un video in cui 21 egiziani copti vengono decapitati. C’è chi ha accusato il governo di as-Sisi di ingerenza diretta nelle questioni libiche a partire già dall’anno scorso quando l’aviazione egiziana si sarebbe unita a quella degli Emirati Arabi bombardando alcune aree orientali del Paese. Notizia che, tuttavia, il Cairo ha sempre negato con forza.

Il presidente autoritario aspetta qualche risposta oggi da New York. Nel pomeriggio, infatti, si riunisce in una sessione di emergenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu per discutere di una risoluzione per potrebbe porre fine alla crisi in cui versa la Libia. Con toni meno bellici rispetto ad as-Sisi, il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukri, ha ieri presentato le proposte del Cairo: “togliere le restrizioni internazionali sulle armi al governo legittimo libico cosicché questo possa difendersi meglio; rafforzare i controlli sul flusso di armi e denaro verso i gruppi terroristi attivi nel Paese; sostenere un processo diplomatico pacifico che possa assicurare la stabilità della Libia e che faccia terminare l’occupazione di Tripoli  dei miliziani islamisti”. Shoukri non ha escluso l’invio di truppe di terra internazionali e ha assicurato che l’Egitto continuerà i suoi raid aerei dentro la Libia contro i combattenti jihadisti. “Prenderemo tutte le misure necessarie per difendere i nostri interessi e proteggere le nostre persone” – ha aggiunto Shoukri – sottolineando come l’Egitto e la Libia collaborino congiuntamente alla formulazione di questa proposta. L’ambasciatore russo presso l’Onu, Vitaly Churkin, si è detto d’accordo a lavorare insieme al Cairo per giungere ad una soluzione condivisa. Sebbene non abbia fornito dettagli sulla bozza di risoluzione, Churkin ha detto che l’approccio questa volta sarà diverso da quello che ha dato vita alla formazione della coalizione internazionale anti-Is in Iraq e Siria.

Guardinga è Washington. Un ufficiale statunitense, che ha preferito restare anonimo, ha detto all’AP che l’ambasciatrice degli Usa all’Onu, Samantha Power, si è incontrata ieri con Shoukri. Power avrebbe “evidenziato le forti preoccupazioni statunitensi per i gruppi estremisti che operano il Libia”. Tuttavia, l’ambasciatrice non avrebbe commentato la proposta egiziana. Massima cautela anche dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza (Cina, Francia e Gran Bretagna) che finora hanno preferito tacere.

In pratica, siamo in una fase di calma apparente. La quiete prima della tempesta delle bombe. In effetti le possibilità di “completare la missione” (seguendo la definizione e le modalità di as-Sisi) sono ampie. Già pronti motivazione ufficiale (“umanitaria”) e lo slogan (“fermare le barbarie dello Stato islamico”) della nuova guerra. Gli elementi diplomatici che usciranno fuori dal testo della risoluzione apriranno solo la strada ad un intervento militare ad ampio raggio sul territorio libico.

In ballo ci sono troppi interessi economici che non possono essere fermati dagli uomini di al-Baghdadi. Money must flow: il petrolio fa gola. Soprattutto a Parigi (in prima linea nell’intervento Nato del 2011) che in queste ore cela a stento il suo malcontento per la moderazione occidentale. Ma anche all’Europa intera. L’Italia, in primis, che con il suo “imperialismo straccione” non vuole perdere l’influenza in un Paese che, non pochi qui da noi, continuano a considerare una estensione del territorio italiano sull’altra riva del Mediterraneo. C’è poi la questione degli immigrati che va affrontata e risolta immediatamente. Al di là dell’affettato dolore per la morte di centinaia di esseri umani annegati poco prima di entrare nella “Fortezza Europa”, la destra e la sedicente sinistra condividono le stesse politiche. Cambiano solo i toni: “l’invasione dei clandestini” può mascherare bene i fallimenti di politiche economiche e sociali scellerate degli ultimi decenni dirottando sul “diverso” la rabbia e la frustrazione di una massa sempre più crescente di cittadini impoveriti e emarginati.

L‘Occidente rientrerà in Libia, qualora mai se ne fosse andato. Quattro anni fa deponeva con le armi un “dittatore” con cui per 4 decenni, tra alti e bassi, ha intrattenuto rapporti ambigui. Ha assistito indifferente alla sua umiliazione e uccisione per mano dei “ribelli”. Quei combattenti che oggi sono chiamati terroristi, ma che fino all’altro ieri erano alleati a cui erano consegnati armi.

Ma nel ribaltamento dei ruoli operato dall’Occidente non sorprende, quindi, che gli uomini del vecchio regime dittatoriale vengano assolti e riabilitati (decisione di qualche settimana fa del parlamento di Tobruq). Né stupisce che già si sia trovato un nuovo sergente di ferro che possa guidare il Paese quando la guerra che verrà sarà finita: la losca figura del generale Khalifa Haftar. Resta da capire solo una guerra contro chi l’Occidente sta combattendo. Il nemico è lo Stato islamico? E gli altri gruppi più o meno radicali islamici saranno nostri alleati contro di lui? Gli uomini di al-Baghdadi hanno veramente in mano il Paese o, come più giustamente ha sottolineato il premier Renzi qualche giorno fa, “in Libia non c’è un’invasione dell’Is, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro”? Nonostante questi dubbi e punti oscuri, siamo pronti ad iniziare un’altra guerra (quella in cui siamo impantanati in Iraq e Siria nessuno ne vuole parlare). Serve solo il tempo di preparare il clima giusto per far digerire all’opinione pubblica le spese intollerabili della nuova mattanza: il governo alzerà il livello terrorista, le forze di sicurezza smantelleranno “cellule terroristiche pronte a colpire”, sarà aumentata la presenza militare nelle strade della nostra città (già previsti numerosi rinforzi), e sarà alimentato l’odio contro gli immigrati dei barconi perché tra di loro ci sono e ci saranno “terroristi”.

L’opinione pubblica accetterà e griderà maggiore sicurezza. Alla guerra si va preparati, nessun particolare va lasciato al caso. Ma nonostante il rumore delle nostre bombe tra i civili e il frastuono dell’artiglieria dei nostri alleati sul terreno, nessun suono, per quanto forte, potrà coprire le risate fragorose del “califfo”.

Roberto Prinzi-Nena News

 

Una risposta a “Crisi libica: la quiete prima della tempesta delle bombe”

  1. PaoloPì ha detto:

    Complimenti, ottimo articolo. Spero non profetico.
    Una soluzione alternativa? Affrontare i problemi della popolazione civile locale,
    prima di farli diventare scudi umani,
    prima di farli diventare immigrati clandestini,
    prima di farli diventare terroristi suicidi…

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