È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione di me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati”. (Antonio Gramsci, Lettera a Giulia, 19 novembre 1928)
A volte penso che molti detenuti che in carcere si tolgono la vita forse scelgono di morire perché si sentono ancora vivi. E forse, invece, alcuni rimangono vivi perché si sentono già morti o hanno già smesso di vivere.
Credo anche che molti detenuti si tolgano la vita perché l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) non risponde mai ai loro appelli disperati.
Altri invece lo fanno per ritornare a essere uomini liberi. E molti si tolgono la vita perché non hanno altri modi per dimostrare la loro umanità.
Oggi nella rassegna stampa ho letto la notizia di un altro suicidio, poche parole, pochi dati:
Si chiamava Osas Ake. Si è impiccato nel carcere di Piacenza. Era in cella di isolamento perché “molto agitato”. Aveva 20 anni, era nigeriano.
Ed ho pensato a quella volta che ero entrato in una cella dove s’era impiccato un detenuto:
Piano terra, cella 17. La chiave non girava. La mandata non scattava. Il blindato non si apriva.
Mi stanco di aspettare con il sacco nero della spazzatura con dentro la mia roba personale sulle spalle. La poso in terra e chiedo alla guardia: Ma da quando è che non aprite questa porta? La guardia prima di rispondermi mi guarda con sufficienza, dall’alto al basso e poi ringhia: Da alcuni mesi, c’erano i sigilli giudiziari, c’è stata un’inchiesta, quello che c’era prima si è impiccato tra le sbarre. Puzzava di galera. Aveva una faccia da beccamorto. Una faccia di vampiro sfortunato che non riceveva da tempo una sufficiente razione di sangue. Gli dico: Mettetemi in un’altra cella.
La faccia da beccamorto mi risponde: Non sei in albergo, qui sei a Nuoro e poi celle libere non ce ne sono. E poi urla alla guardia del piano di sopra: Collega, manda quelli della manutenzione: la porta non si apre. Io intanto aspetto. Dopo dieci minuti arriva una guardia con due lavoranti e un cannello con la fiamma ossidrica. Tagliano la serratura e ne saldano una nuova. Entro, mi chiudono il cancello e mi lasciano il blindato aperto. Mi guardo intorno, non mi muovo, rimango fermo e vedo escrementi di topo dappertutto, ragnatele al soffitto, macchie di umidità alle pareti. Ero arrivato all’inferno di Badu e Carros. E pensai per un attimo di impiccarmi anch’io alle sbarre della finestra. Solo i coraggiosi però hanno il coraggio di evadere dal carcere, i vigliacchi come me rimangono. Ed io sono rimasto in quella cella per cinque lunghi anni. Poi ho saputo che il compagno che s’era tolto la vita in quella cella era un ergastolano ostativo. E sono diventato amico del suo fantasma che mi ha tenuto compagnia per tanti anni.
Carmelo Musumeci
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