Arabia Saudita: esecuzioni capitali triplicate senza precedenti

Con 38 decapitazioni dall’inizio dell’anno l’Arabia Saudita ha registrato un notevole incremento del ricorso alla spada. Sono state eseguite circa il triplo delle condanne a morte rispetto al 2014. Eppure sono pochi i Paesi disposti a denunciare la politica di Riad, anche quando a finire davanti al boia sono i propri cittadini. Ci sono infatti […]

decapitazioniCon 38 decapitazioni dall’inizio dell’anno l’Arabia Saudita ha registrato un notevole incremento del ricorso alla spada. Sono state eseguite circa il triplo delle condanne a morte rispetto al 2014. Eppure sono pochi i Paesi disposti a denunciare la politica di Riad, anche quando a finire davanti al boia sono i propri cittadini. Ci sono infatti pachistani, giordani, siriani, indiani e yemeniti tra i condanni uccisi quest’anno per reati legati soprattutto al traffico di droga, ma nessuno dei loro governi ha provato ad appellarsi alla clemenza della casa reale.

Nella sola giornata di martedì, sono state eseguite tre condanne a morte, ha denunciato Amnesty International, che parla di un ritmo “senza precedenti” che desta preoccupazione e qualche quesito. Secondo alcuni, le ragioni di questo aumentato ritmo delle esecuzioni è legato all’impegno della monarchia wahabita nella coalizione anti-Isis. Lo scorso settembre Riad ha iniziato a bombardare la Siria e il timore di ritorsioni in casa propria potrebbe aver spinto le autorità a usare il pugno duro, anche nei casi di reati non violenti.

Per altri, invece, aumentare le decapitazioni non è davvero un deterrente contro il terrorismo, non spaventa i jihadisti e in fin dei conti non è un deterrente neanche contro la violenza, considerato che la metà delle esecuzioni di quest’anno hanno riguardato reati non violenti legati al traffico di droga. Se il fioccare delle decapitazioni sia legato o meno all’Isis è oggetto di discussione, ma quello che è certo è che la dinastia wahabita vuole mostrarsi forte e determinata agli occhi propri sudditi.

Forse non è un caso, dunque, che l’aumento delle decapitazioni sia iniziato già alla fine del 2014, quando il regno di re Abdullah, morto il 23 gennaio scorso, volgeva alla fine. “Di certo (le autorità saudite) non vogliono sembrare deboli, ma non credo che serva a spaventare l’Isis”, ha detto all’AFP Toby Matthiesen, ricercatore dell’Università di Cambridge. Per Amnesty International non ci sono prove di un legame con il contrasto al terrorismo, ma resta una tendenza preoccupante, ha spiegato Sevag Kechichian. E a preoccupare sono soprattutto i processi, giudicati “iniqui” da Christof Heyns, inviato Onu. Le confessioni sono estorte con la tortura, gli imputati non hanno un legale ed è quindi altissimo il rischio che davanti al boia finiscano innocenti.

Eppure poche voci critiche si levano contro Riad, alleato dell’Occidente e degli Stati Uniti, dove pure si ricorre alla pena di morte. Amnesty parla di un “doppio standard” dell’Occidente verso l’Arabia Saudita che, indisturbata, sta mandando a morte decine di persone, anche per reati come l’apostasia. Il regno si attesta ogni anno ai primi posti della classifica delle esecuzioni capitali, ma non ci sono governi disposti a mettere in discussioni rapporti economici e strategici per fermare la mano del boia. Nena News

 

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