Je Suis Kenyan! L’umiltà sperimentale è alla base della logica scienza galileiana. La presunzione è il marcio di fabbrica della violenta ideologia politica che, unitamente all’irresponsabilità, è la madre di tutte le catastrofi umanitarie sempre innescate dai fenomeni naturali e psico-antropologici nel substrato corrotto di una “società digitale” ignorante, obsoleta, dimentica delle sue radici italiane autenticamente religiose, familiari, lavoratrici e democratiche, destinata perciò all’inevitabile estinzione culturale e materiale. Questa consapevolezza, a sei anni dal terremoto di L’Aquila (Mw 6.3; 312 morti; 1600 feriti) del 6 Aprile 2009, alla vigilia dell’Egu Spring Meeting (www.egu2015.eu/) di 25mila geo-scienziati a Vienna, potrà certamente contribuire a salvare in futuro moltissime vite umane solo se il dolore e il rancore cederanno il passo alla giustizia, alla logica, alla verità dei fatti, rivelando le chiarissime responsabilità politiche e mediatiche nelle tragedie sismiche italiane. La comprensione del processo che genera i terremoti è fondamentale per prepararsi ai prossimi terribili eventi e mitigarne gli effetti catastrofici sul territorio. L’obiettivo europeo, insieme ai ricercatori russi dell’Accademia delle Scienze, è di fare luce su uno dei temi caldi della sismologia moderna: cosa avviene nella crosta terrestre durante un terremoto? L’Italia, insieme a gran parte dell’Europa meridionale e alla Turchia, si trova in una delle aree a più elevato rischio sismico dell’intero pianeta Terra. Comprendere i processi fisico-chimici che controllano la generazione dei terremoti è di fondamentale importanza per stimare l’impatto degli eventi futuri e mitigarne gli effetti attesi. I terremoti distruttivi, sia in mare sia sulla terraferma, si generano nella profondità della crosta (7-15 Km). Quindi sia l’osservazione della faglie attive sulla superficie terrestre sia l’interpretazione dei sismogrammi forniscono solo informazioni parziali sulla meccanica dei terremoti e dei maremoti. Occorre fare luce sulla meccanica delle faglie che si muovono generando tali fenomeni. Come? Attraverso l’installazione capillare di apparati in grado di far scorrere le rocce in modo relativo molto velocemente, così che possano essere condotti esperienze sotto condizioni sperimentali simili a quelle che si ritrovano all’interno della crosta; mediante lo studio di sorgenti sismiche fossili, oggi portate alla superficie dalle forze tettoniche e rese visibili dall’erosione; attraverso l’indagine di materiali rocciosi naturali e sintetici che riproducano le rocce di faglia attraverso un approccio innovativo multidisciplinare basato su analisi microstrutturali, mineralogiche e petrografiche; attraverso nuovi modelli teorici del terremoto, calibrati e fortemente vincolati, grazie a osservazioni di eventi sismici anche sottomarini, analisi di rocce di faglia naturali e dati di meccanica della fratturazione ottenuti attraverso opportuni esperimenti condivisi dalla comunità scientifica mondiale. Nell’ambito di queste ricerche è stato installato a Roma SHIVA (Slow to High Velocity Apparatus) uno dei più potenti simulatori sismici che riproduce le condizioni estreme di deformazione tipiche dei terremoti, incluso il rapido movimento relativo delle rocce e le elevate pressioni a cui sono sottoposte, esattamente come accade in Natura. In queste condizioni di pressione e deformazione alcune rocce fondono: l’analisi dei dati ottenuti fornisce una visione nuova del meccanismo di faglia sismica e, allo stesso tempo, aiuta a migliorare le tecniche industriali per la gestione dei materiali solidi. Le imprese edili ne sono consapevoli in Italia? Lo studio consente di comprendere le modalità di altri processi di frizione controllata, come le frane rocciose. Il Progetto Landslide, coordinato dall’Università di Camerino e cofinanziato dalla Commissione Europea, ha invece l’obiettivo di prevenire e mitigare il Rischio di dissesto idrogeologico progressivamente aumentato anche nel continente europeo. Il progetto punta all’elaborazione e alla sperimentazione di un modello e di un software per la previsione quotidiana di eventi franosi in Europa. Garantire una maggiore tempestività degli interventi volti a prevenire e mitigare le frane in Europa, è l’obiettivo a cui il mondo della ricerca contribuisce attraverso il Progetto Landslide (“Risk assessment model for disaster prevention and mitigation”) presentato a Bruxelles, che può contare su una partnership articolata dal punto di visto scientifico: oltre alla Scuola di Scienze e Tecnologie dell’Ateneo marchigiano, l’Istituto per le Tecnologie di Informazione e Comunicazione dell’Accademia di Scienze di Sofia (Bulgaria) e l’Istituto di Geodinamica dell’Osservatorio Nazionale di Atene (Grecia), vi partecipano anche i dipartimenti di Protezione Civile della Provincia di Ancona, della Regione Marche, della Regione di Smolyan (Bulgaria), di Bielsko-Biala (Polonia) e del Peloponneso (Grecia). Sono diversi i contesti geologici e ambientali a rischio di dissesto idrogeologico in Europa: un fenomeno che costituisce un pericolo in particolare per le zone di montagna e collinari fortemente antropizzate. Negli ultimi anni, le frane sono progressivamente aumentate anche in Italia: una tendenza aggravata dal drastico cambiamento climatico in atto, responsabile di eventi meteorologici sempre più strani, intensi e di lunga durata, che rappresentano una delle prime cause scatenanti i fenomeni franosi. Da qui la necessità di fornire nuovi strumenti per la mappatura accurata e la valutazione dei pericoli legati al verificarsi delle frane. Con questo obiettivo, Landslide si propone l’elaborazione e la sperimentazione di un modello capace di predire giornalmente, in base alle previsioni meteorologiche, il rischio di frane superficiali causate dalla pioggia grazie allo sviluppo di un software automatico che trasmetta tempestivamente le informazioni ai Dipartimenti di Protezione Civile europei, così da attivare misure preventive. Per raggiungere il primo risultato, vengono combinati i modelli che studiano la composizione e la dinamica dell’umidità del terreno con quelli che ne calcolano la stabilità in termini di pericolosità della frana. Il modello viene elaborato identificando i bacini idrografici di test e condividendo i risultati raccolti sul campo. Successivamente viene tradotto in un’applicazione software in grado di interfacciarsi con i sistemi operativi utilizzati dalla Protezione Civile. La sperimentazione prevede anche la realizzazione di corsi per esperti del settore e il confronto trasversale tra le competenze e responsabilità politico-amministrative toccate dagli effetti o interessate alla Prevenzione del dissesto idrogeologico. L’obiettivo finale è il trasferimento e l’applicazione del modello a tutti i territori colpiti da eventi franosi. Una possibilità a cui si aggiunge la prospettiva, auspicata dai partner del Progetto Landslide, di ulteriori sviluppi scientifici che potrebbero portare a espandere le funzionalità del modello alla Previsione di altri rischi naturali. In occasione del Centenario del terremoto nella Marsica (www.youtube.com/watch?v=Fa_7dF5AoLs) l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha realizzato il documentario “Le Radici Spezzate, Marsica 1915-2015”, per raccontare con parole e immagini, attraverso quattro luoghi simbolo, le delocalizzazioni dei centri abitati in seguito all’evento catastrofico di un secolo fa. L’attitudine a trasferire i centri abitati da un luogo all’altro per motivi di instabilità geologica, si afferma nel corso del XX Secolo e si inquadra, sul piano normativo, in una legge del 9 Luglio 1908. Le criticità geologiche furono comunque soltanto uno degli aspetti che condizionarono le delocalizzazioni nel terremoto del 1915. Altri elementi che spinsero in questa direzione, furono i problemi legati allo smaltimento degli enormi cumuli di macerie e le numerose difficoltà tecniche collegate alla ricostruzione nei luoghi originari applicando le normative antisismiche dell’epoca. Ulteriori spinte alla delocalizzazioni, gli aspetti principali, si possono ritrovare nella ricerca di uno sviluppo e di una modernizzazione della società italiana che portò a collocare i nuovi centri abitati in prossimità di “vie di maggiore comunicazione, dove si compiono gli scambi”, secondo quanto afferma l’Ufficio Centrale del Senato (all’epoca del Regno; oggi della Repubblica Italiana che alcuni intendono abolire!) già nel 1915. Il documentario ripercorre la storia delle delocalizzazioni attraverso quattro luoghi che ben descrivono quanto successe dopo il terremoto del 1915. Una mostra al castello Piccolomini di Celano per il Centenario del disastroso terremoto della Marsica, che causò circa 30mila vittime e ingenti danni in numerosi centri abitati non solo dell’Abruzzo ma anche dell’Italia centrale, è stata organizzata dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia in collaborazione con la Soprintendenza per i beni archeologici e per i beni storici, artistici ed etno-antropologici dell’Abruzzo. Ad aprire il percorso espositivo, è il film “Le Radici Spezzate, Marsica 1915-2015” di Lucrezia Lo Bianco e Agostino Pozzi. Un racconto con parole e immagini dei quattro luoghi simbolo di Frattura, Aielli, Sperone e Alba Fucens. Il borgo di Frattura Vecchia, frazione di Scanno (Aq) fu distrutto durante il terremoto del 1915 e in seguito abbandonato. Frattura subì una delocalizzazione completa con la costruzione, ultimata alla fine degli Anni Trenta, di un nuovo centro abitato. Alcuni edifici di Frattura Vecchia sono comunque sempre stati mantenuti insieme a piccole attività orticole che lo rendono a tutt’oggi un centro particolarmente vivo. Aielli (Aq) vide la nascita di un nuovo centro abitato, in prossimità della stazione ferroviaria, senza l’abbandono del vecchio, così oggi si scopre lo sdoppiamento del paese con la presenza di due abitati e un numero di cittadini simile. Sperone, borgo nel comune di Gioia de’ Marsi (Aq) vide la distruzione del paese antico con il successivo invito alla popolazione a considerare l’opzione della discesa al piano. Gli abitanti rifiutarono tale ipotesi essendo tutti i loro interessi economici legati all’agricoltura di montagna. Il paese venne quindi ricostruito con casette “asismiche” in muratura su un pianoro ad alcune centinaia di metri dal nucleo originale. A partire dagli Anni Sessanta, anche in seguito alle mutate condizioni economiche, il nuovo insediamento fu abbandonato con il trasferimento degli abitanti nel piano. Alba Fucens visse vicende ancora più complesse. L’antico insediamento romano venne abbandonato in periodo alto medioevale a causa di un diffuso dissesto geologico. Si ebbe di conseguenza la creazione del borgo medioevale sul costone a monte dell’insediamento originario. Il terremoto del 1915 causò la completa distruzione del borgo e la costruzione del nuovo insediamento sul rilievo collinare che delimita a Ovest l’attuale area archeologica romana. “L’iniziativa – osserva Giuliana D’Addezio, ricercatrice dell’Ingv e curatrice della mostra – rientra nell’ambito delle manifestazioni previste dall’Ingv per il Centenario del terremoto della Marsica e rappresenta un’occasione per l’arricchimento della Cultura della Prevenzione. La mostra si propone di ripercorrere, attraverso un itinerario storico e multimediale, i molteplici aspetti di una delle più grandi tragedie sismiche italiane”. Grazie a postazioni interattive, pannelli descrittivi, filmati e simulazioni sismiche, è possibile capire come e perché si verificano i terremoti, studiare il moto delle placche e seguire il monitoraggio dei fenomeni sismici in tempo reale. A far crescere la consapevolezza dell’esistenza dei rischi naturali, sono i pannelli dedicati alle conseguenze socio-ambientali del terremoto della Marsica. Frutto di un lavoro di ricerca realizzato dai volontari del Servizio civile nazionale (Scn), i quadri tematici affrontano in modo capillare il problema degli orfani e la ricostruzione post sisma. “Assoluta particolarità del percorso espositivo – rivela Giuliana D’Addezio – è una piattaforma vibrante progettata per un massimo di sei persone, che simula le scosse del terremoto di L’Aquila del 2009, avvertite in tre località a diversa distanza dall’epicentro. Il visitatore salendo sulla struttura può rendersi conto di come l’entità della scossa possa variare a seconda della distanza. Inoltre, a mostrare gli effetti del terremoto sui manufatti, è uno scaffale ripieno di oggetti che risente delle vibrazioni”. Altra attrazione è un sensore sismico che consente di registrare i “terremoti” prodotti dai visitatori. A far capire il lavoro di monitoraggio all’interno della Sala di Sorveglianza Sismica del Centro Nazionale Terremoti (CNT) dell’Ingv, è uno schermo che mostra le attività dei sismologi e tecnici dell’Istituto. “Questa iniziativa – spiega Stefano Gresta, Presidente dell’Ingv – rappresenta l’occasione per diffondere la Cultura della Prevenzione e dell’Informazione, evidenziando ancora una volta i traguardi raggiunti nell’arco di un secolo dalla cultura scientifica e dalla sismologia moderna per la difesa dai terremoti e la mitigazione del rischio sismico”. Tiziana Sgroi, ricercatrice dell’Ingv, è stata una delle oltre 200 donne scienziate selezionate per una raccolta di biografie pubblicate dalla rivista Oceanography, dal titolo “Women in Oceanography – A Decade Later”. I risultati dell’articolo che le è valso il riconoscimento, “Geohazards in the Western Ionian Sea Insights from Non-Earthquake Signals Recorded by the NEMO-SN1 Seafloor Observatory”, si possono riassumere sinteticamente nell’assunto che non sono solo i terremoti a testimoniare i fenomeni di instabilità dei fondali marini. Esiste una vasta gamma di segnali sismici che permettono di valutarne l’hazard. Gli scienziati hanno condotto uno studio sui tali “precursori” non associati a terremoti classici, registrati dall’Osservatorio sottomarino NEMO-SN1, per valutarne l’instabilità nel settore occidentale del mar Ionio. L’area studiata che comprende la Sicilia orientale e il mar Ionio, pare caratterizzata da un’alta pericolosità sismica e vulcanica, legata alla presenza sia di strutture geologiche importanti, responsabili in passato di grandi terremoti, sia dell’Etna, uno dei vulcani più attivi al mondo da almeno mezzo milione di anni. I segnali sismici correlati con i processi tettonici e vulcanici, registrati regolarmente dalle stazioni a terra, sono ben conosciuti. Meno note sono altre anomalie sismiche originate dalle strutture tettoniche poste nel bacino Ionico e dalla presenza di fluidi magmatici legati all’attività dell’Etna. Tali segnali sono molto complessi poiché risentono anche degli effetti legati all’attività del mare. Uno studio multidisciplinare basato sull’analisi dei segnali sismici di pressione e idroacustici registrati dall’Osservatorio sottomarino NEMO-SN1 che è uno dei nodi dello “European Multidisciplinary Seafloor and water-column Observatory” (www.emso-eu.org) ha permesso di identificare l’origine di questi segnali e di associarli ai processi tettonici e vulcanici che interessano l’area della Sicilia orientale e del bacino Ionico. NEMO-SN1 è situato circa 20 Km al largo di Catania, alla profondità di 2100 metri. È collegato alla stazione costiera del porto mediante un cavo elettro-ottico sottomarino che garantisce l’alimentazione e la comunicazione “real-time” bidirezionale con l’Osservatorio. Il segnale GPS ricevuto a terra è trasmesso su fibra ottica e distribuito al sismometro, garantendo così la precisione necessaria per il riferimento temporale. Grazie alla trasmissione immediata dei segnali sismici acquisiti, è stato possibile integrare l’apparato nella Rete Sismica Nazionale. Nello studio in oggetto, oltre ai dati del sismometro a larga banda (Guralp CMG-1T, banda passante da 0.0027 Hz a 50 Hz, campionato a 100 campioni al secondo) sono stati analizzati anche i segnali acquisiti da un sensore di pressione (Paroscientific 8CB-4000, intervallo di campionamento di 15s, risoluzione di 1 Pa 10-4dbar) e da un idrofono (SMID DT405D, campionato a 2 kHz, risoluzione 10-2 Pa, banda passante da 50 mHz a 1 kHz). La profondità del sito e il buon accoppiamento meccanico dello strumento con il fondale marino, garantiscono un’alta qualità del segnale sismico con un buon rapporto segnale/rumore. Le registrazioni sismiche dell’Osservatorio sottomarino NEMO-SN1 consistono principalmente in terremoti locali, di origine tettonica e vulcanica. Una percentuale rilevante riguarda alcuni segnali sismici che testimoniano l’instabilità del fondale del mar Ionio e l’attività dell’Etna. Gli scienziati hanno analizzato tre diverse tipologie di dati non associati a terremoti: segnali sismici associati a frane sottomarine, tremore vulcanico e “Short Duration Events” (SDE). I segnali classificati come frane sottomarine, sono caratterizzati da un alto contenuto in frequenza, dalla mancanza di fasi P ed S ben riconoscibili e dalla lunga durata del segnale. Le analisi di polarizzazione e “particle-motion” hanno permesso di evidenziare la presenza di un campo d’onda costituito prevalentemente da onde di Rayleigh provenienti da una sorgente superficiale. Questi episodi risultano essere associati a strutture presenti nel bacino Ionico, principalmente alla “Scarpata Ibleo-Maltese” caratterizzata alla base da depositi di sedimenti inconsolidati (“slumps”) e al “Messina Rise”, un’area di margine continentale attraversata in vari punti da canyon e valli sottomarine. Il secondo tipo di segnale analizzato è il tremore vulcanico, un fenomeno sismico continuo che caratterizza le aree vulcaniche attive, legato a fluttuazioni di pressione indotte dallo spostamento di masse magmatiche. Per la sua natura, gioca un ruolo attivo nel monitoraggio in real-time dell’attività di un vulcano. Il confronto della distribuzione delle ampiezze del tremore vulcanico registrato dall’Osservatorio NEMO-SN1 e da alcune stazioni a terra durante l’episodio di fontana di lava del 19 Febbraio 2013, evidenzia la buona ricezione del segnale da parte di NEMO-SN1. Tale risultato riveste una grande importanza poiché implica una vicinanza della stazione sottomarina con il sistema di alimentazione profondo dell’Etna. Il terzo tipo di segnale, denominato “Short Duration Event”, è un fenomeno impulsivo di alta frequenza (10-50 Hz), breve durata (circa 1-2 secondi) e regolare decremento dell’ampiezza nella coda del segnale. Gli SDE sono soggetti a una forte attenuazione e le analisi di particle-motion indicano una direzione di propagazione prossima all’orizzontale. Ciò fa ipotizzare che la sorgente che genera questi eventi sia superficiale e vicina all’Osservatorio. L’analisi multidisciplinare condotta sui segnali registrati dal sismometro, dal pressostato e dall’idrofono, ha permesso di evidenziare l’origine dei segnali. Le frane, che in molti casi sono state precedute da terremoti locali e regionali, sono associate alle strutture tettoniche presenti nell’area quali la Scarpata di Malta e il Messina Rise. Il tremore vulcanico rappresenta la tipica manifestazione dell’attività dell’Etna ed è quindi legato ai movimenti del magma. Gli scienziati hanno interpretato gli SDE come associati a processi di idrofratturazione della copertura carbonatica che si trova alla base della Scarpata. Fenomeni che potrebbero essere legati a variazioni del campo di stress associate al movimento del magma. L’articolo pubblicato su Oceanography mostra come l’instabilità del fondale Ionico sia collegata non soltanto all’attività vulcanica dell’Etna e alle strutture tettoniche che hanno generato i terremoti noti dal catalogo storico. Grazie a un approccio multidisciplinare condotto sui dati registrati dal sismometro, dal pressostato e dall’idrofono, i ricercatori Ingv hanno potuto identificare i meccanismi che guidano la generazione dei segnali sismici non legati a terremoti classici. La storia italiana docet. L’Anno Domini 1638 in Calabria è ricordato come un tempo di grandi terremoti. Fu in quel periodo, infatti, che si verificò la prima importante sequenza sismica conosciuta tra quelle che nel corso della storia hanno ripetutamente devastato la regione Calabria. Forti terremoti sono noti anche nei secoli e decenni precedenti (il terremoto del 1184 nella Valle del Crati e quello che nel 1626 distrusse Girifalco) ma la serie di violente scosse che colpirono la Calabria centro-settentrionale tra Marzo e Giugno del 1638 fu, per ampiezza dell’area devastata ed entità delle distruzioni, paragonabile alle sequenze che nel 1783 e nel 1905-1908 colpirono gran parte della regione. Quelli del 1638 sono anche i terremoti più distruttivi che, negli ultimi mille anni, hanno interessato il settore centro-settentrionale della Calabria. Eventi ben documentati, descritti da numerose relazioni e memorie pubblicate a breve distanza dal disastro. Testimonianze, osservazioni dirette e resoconti di prima mano, costituiscono un cospicuo e attendibile patrimonio di informazioni che ha permesso ai sismologi storici di determinare con precisione l’area dei danni più gravi e l’estensione della zona colpita, nonché di delineare l’impatto sociale ed economico dell’evento. Le prime scosse distruttive avvennero nei giorni 27 e 28 Marzo e colpirono un’ampia fascia del versante tirrenico tra la Valle del Crati e il Vibonese. Il secondo forte terremoto avvenne l’8 Giugno e causò gravissimi danni prevalentemente sul versante ionico della Sila. La prima forte scossa avvenne nel pomeriggio del 27 Marzo 1638, verso il tramonto (ore 21:30 “all’italiana”) e fu un evento catastrofico, con effetti che raggiunsero il grado 11 della scala Mercalli-Cancani-Sieberg. Nel Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani, che riprende lo studio di Guidoboni et al. (2007), l’evento è riportato come un’unica grande scossa con magnitudo equivalente Mw pari a 7.0 Richter, calcolata sulla base della distribuzione delle intensità macrosismiche, tra le più elevate della storia sismica italiana. Secondo alcuni Autori, le distruzioni furono causate da almeno tre distinte e violentissime scosse avvenute tra il 27 e il 28 Marzo (Galli & Bosi, 2003). Quella del pomeriggio di Sabato 27 fu la più forte e colpì il territorio compreso tra l’alta Valle del Crati e la Valle del Savuto, a Sud di Cosenza, al confine tra le attuali province di Cosenza e Catanzaro. Diversi paesi, tra cui Diano, Carpanzano, Martirano, Conflenti, Motta Santa Lucia, Rogliano, Grimaldi, Scigliano, Savuto, Mangone, furono completamente rasi al suolo (Guidoboni et al. 2007). Il giorno successivo, Domenica delle Palme 28 Marzo 1638, due nuove forti scosse colpirono il territorio posto immediatamente a Sud di quello interessato dalla prima violenta scossa. I due nuovi eventi colpirono la parte nord-occidentale della Stretta di Catanzaro, nella zona tra Sambiase, Lamezia Terme e Sant’Eufemia, e la zona del Vibonese, sul versante occidentale delle Serre, estendendo così verso Sud l’area degli effetti distruttivi rispetto al terremoto del 27 Marzo. Dunque (Galli & Bosi, 2003) lo scenario fu dovuto non ad una sola grande scossa ma ad almeno tre forti scosse avvenute tra il 27 e il 28 Marzo con valori di magnitudo equivalente Mw compresi tra 6.6 e 6.8 Richter. In tal caso la magnitudo Mw 7.0 riportata nel Catalogo sarebbe in realtà sovrastimata e deriverebbe dalla somma complessiva degli effetti di queste singole scosse che di fatto avrebbero avuto ciascuna una magnitudo più bassa. Galli & Bosi (2003) stimano una magnitudo equivalente Mw 6.8 per l’evento nel pomeriggio del 27 Marzo, e Mw 6.6 per entrambe le scosse del 28 Marzo, da intendersi come valori massimi proprio per l’effetto di cumulo dei danni. Furono però scosse molto violente. A titolo di paragone, si consideri che il terremoto dell’Irpinia del 1980 ebbe Mw 6.9 e quello del 6 Maggio 1976 in Friuli Mw 6.5 Richter. Che si sia trattato di una sola grande scossa di Mw 7.0 o, più verosimilmente, di tre forti scosse con Mw superiore a 6.5, il quadro complessivo degli effetti causati dal terremoto calabrese di fine Marzo 1638 non cambia. Fu uno scenario di immane distruzione. Tutta la regione calabra fu interessata dagli effetti: danni gravi si ebbero fino a Rosarno, verso Sud, e fino a Scalea e a Castrovillari, verso Nord; danni più leggeri furono riscontrati verso Sud fino alla zona dell’Aspromonte e a Messina, dove crollò parzialmente la copertura della cattedrale, verso Est fino a Crotone, e verso Nord fino a Maratea, dove furono rilevate leggere lesioni. Gli effetti più gravi e distruttivi interessarono un’ampia fascia della Calabria centrale tra la Valle del Crati e il Vibonese. Secondo lo studio di Guidoboni et al. (2007) complessivamente i centri abitati che subirono importanti distruzioni e crolli estesi, con effetti uguali o superiori al grado 9 MCS, furono 107, diciassette dei quali furono completamente rasi al suolo con effetti superiori al grado 10 MCS. Un’altra novantina di località subì danni gravi e crolli parziali, tali da rendere inabitabili numerose abitazioni con effetti superiori al grado 7 MCS. Fra queste anche Cosenza, dove una ventina di edifici crollò completamente e quasi 600 rimasero gravemente lesionati e riportarono crolli parziali. Tredici fra chiese e monasteri furono distrutti o seriamente danneggiati. Notevoli distruzioni interessarono anche il Castello e il Duomo, di cui crollò il campanile. A Catanzaro i danni furono meno gravi, ma comunque rilevanti: moltissimi edifici rimasero più o meno seriamente lesionati, oltre 300 furono quelli che risultarono inagibili. Il Duomo e il Palazzo Vescovile riportarono gravi danni. Il terremoto verso Nord fu avvertito fortemente, ma senza danni, in Basilicata e in modo più leggero a Taranto e fino a Napoli. L’area di risentimento tuttavia risulta scarsamente definita. Di sicuro la scossa fu avvertita più o meno fortemente in molte parti della Sicilia. L’evento principale del 27 Marzo e i due violenti terremoti del giorno 28, furono preceduti da una forte scossa avvenuta circa due mesi prima, il 18 Gennaio 1638, che causò alcuni danni. Le repliche furono particolarmente frequenti per tutto il mese di Aprile e, secondo le testimonianze e le fonti del periodo, causarono molto spavento tra la popolazione ma non ulteriori danni, come rivela il frontespizio di una relazione a stampa dell’epoca sul terremoto del Marzo 1638 (“Vera Relatione del Spaventevole Terremoto Successo alli 27. di Marzo sù le 21. hore, nelle Provincie di Calabria Citra, & Ultra. Dove si narrano tutte le rovine causate nelle Città, Terre, e Castelli, con li nomi di essi, e con la morte delle persone”, Roma, Lodovico Grignani, 1638). La violenza delle scosse del 27 e 28 Marzo produsse notevoli effetti anche sull’ambiente naturale, con imponenti dissesti geomorfologici e idrologici che, in qualche caso, modificarono il paesaggio in modo permanente: grandi fenditure e voragini si aprirono nel suolo in tutta l’area epicentrale tra Cosenza e la Valle del fiume Savuto; smottamenti di terreno interessarono le zone di Martirano e di Cosenza, dove franò la sommità del colle Pancrazio; variazioni nella portata delle sorgenti furono segnalate ad Amantea e a Sambiase. Nella piana di Sant’Eufemia, i dissesti idrologici e i fenomeni di subsidenza del suolo causati dalle scosse, andarono ad aggravare l’impaludamento dell’area, portando alla formazione di estese zone di acqua stagnante che favorirono il diffondersi della malaria in tutta la zona. L’area paludosa, di circa 180 Kmq, compresa fra i fiumi Amato e Angitola, fu bonificata soltanto tre secoli dopo, nel 1928. La scossa del 27 Marzo causò anche effetti di tsunami lungo il litorale di Pizzo, sulla costa meridionale del Golfo di Sant’Eufemia: il mare in un primo momento si ritirò per uno spazio che, secondo le fonti coeve, fu di circa 2000 passi (circa 3,7 Km) e in seguito inondò violentemente la spiaggia (Guidoboni et al., 2007). La Calabria, come tutta l’Italia meridionale, faceva parte del Regno di Napoli che all’epoca era sotto il dominio della Corona spagnola, retta dal re Filippo IV (1621-1665) che vi aveva istituito un Vicereame. Il re di Spagna era rappresentato a Napoli da un Viceré, all’epoca Ramiro Felipe Nuñez de Guzmán, Duca di Medina de las Torres (1637-43). Il territorio calabrese era diviso nelle due province di Calabria Citra, corrispondente all’attuale provincia di Cosenza, e di Calabria Ultra, le odierne province di Crotone, Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria. L’abitato di Pianopoli (CZ) fu fondato, con il toponimo iniziale di Feroleto Piano, da una parte degli abitanti superstiti di Feroleto, i quali abbandonarono il vecchio paese distrutto dal terremoto del Marzo 1638 e ricostruirono le loro abitazioni nella pianura sottostante. Gli altri abitanti superstiti rimasti sulle alture, invece, ricostruirono Feroleto, l’odierna Feroleto Antico, sulle rovine del 1638. Quando le gravissime notizie del disastro sismico raggiunsero Napoli, il Viceré Nuñez de Guzmán decise di nominare il consigliere Ettore Capecelatro suo plenipotenziario per le province calabresi; conferendo i pieni poteri straordinari a Capecelatro che si trasferì in Calabria per organizzare i primi soccorsi alle popolazioni, si volle compiere una rilevazione particolareggiata dei danni per redigere una relazione completa sulla tragedia. Secondo la sua documentazione ufficiale, complessivamente furono distrutte oltre 10mila case e altre 3mila divennero inabitabili. La forza devastante del terremoto fu aggravata dalle caratteristiche comuni a molti abitati calabresi: gran parte dei paesi era arroccata sui rilievi e gli edifici erano addossati gli uni agli altri, spesso su pendii scoscesi. Le case erano in prevalenza costruite in pietra e ciotoli di fiume, legati da malte di scarsa qualità. In molti centri gli edifici erano realizzati anche con mattoni di argilla cruda seccata al Sole. Le case, come osserva lo stesso Capecelatro, erano “economiche ma fragilissime”, caratteristiche che amplificarono gli effetti distruttivi delle scosse. Il terremoto fece migliaia di vittime. Secondo le prime notizie giunte a Napoli, i morti furono circa 30mila, cifra ripresa dal Viceré nella sua relazione alla Corte spagnola. Le stime ufficiali del consigliere Capecelatro, tuttavia, risultarono molto inferiori (9.571 morti, dei quali 6.811 in Calabria Citra e 2.760 in Calabria Ultra) ma furono probabilmente sottostimate perché ignorarono la mortalità nei centri situati nelle zone marginali rispetto all’area più danneggiata, e soprattutto i numerosi decessi che avvennero nei mesi successivi a seguito delle ferite e degli stenti. Idem per il terremoto di L’Aquila! Il sisma del Marzo 1638 causò gravissimi danni al Castello Normanno-Svevo che domina dall’alto la Piana di Sant’Eufemia a Nicastro (Lamezia Terme), determinando il crollo di gran parte delle mura perimetrali e dei bastioni. Si salvò soltanto la parte interrata dove si trovavano le carceri che continuarono ad essere utilizzate fino ai terremoti del 1783, a seguito dei quali il Castello venne definitivamente abbandonato. Il sisma si verificò in un periodo già molto difficile per la Calabria travagliata, come del resto tutto il Regno di Napoli e gran parte dei Paesi europei, da decenni di grave crisi economica, incursioni dei Turchi e altri fattori negativi. L’impatto devastante del terremoto, con migliaia di vittime e vaste distruzioni, spinse le popolazioni superstiti alla fuga in massa dagli abitati distrutti, causando la paralisi delle attività economiche e della vita sociale in tutta la zona. Nonostante le enormi distruzioni, gli abbandoni definitivi e i cambiamenti di sito, documentati dalle fonti a seguito del terremoto del 1638, non furono molti. A Sant’Eufemia gli abitanti superstiti abbandonarono il vecchio abitato distrutto e ricostruirono il paese su un’altura collinare a circa 6,5 Km di distanza, col nome di Sant’Eufemia del Golfo, oggi Sant’Eufemia Vetere. A Feroleto (Cz) una parte della popolazione migrò nella pianura sottostante, dando origine al nucleo iniziale dell’abitato di Feroleto Piano, l’attuale Pianopoli. Grimaldi (Cs) nella valle del Savuto, fu ricostruito a 800 metri circa dalle rovine dell’antico paese. Il consigliere Ettore Capecelatro terminò la sua missione alla fine di Maggio 1638. Era in procinto di rientrare a Napoli quando si verificò la seconda grande scossa dell’8 Giugno che colpì il versante ionico della Sila devastando i centri abitati dell’odierna provincia di Crotone solo marginalmente danneggiati dai terremoti di Marzo. L’evento causò nuovi danni in paesi del Cosentino e del Catanzarese già duramente colpiti dalle scosse di due mesi e mezzo prima. Nonostante l’enorme vulnerabilità del patrimonio edilizio delle zone che colpì, anche il sisma del 16 Dicembre 1857 in Basilicata fu certamente un terremoto molto forte. Se oggi è ben compreso dal punto di vista geodinamico, poiché fu causato da una delle numerose grandi faglie estensionali che interessano la dorsale appenninica dalla Toscana alla Calabria, tuttavia molto resta da acclarare sulla sua esatta magnitudo, su quanto fosse lunga la faglia responsabile del terremoto e sulla durata dello scuotimento. La magnitudo non è l’unico parametro sismologico che influenza la severità di un terremoto. Non tutti i terreni di fondazione rispondono nello stesso modo alla sollecitazione sismica e non tutti gli edifici si danneggiano con le stesse modalità a parità di scuotimento. Capire a fondo tutte queste circostanze è sempre cruciale, in tempo di pace, per stimare lo scuotimento atteso in ogni singola porzione del territorio e per progettare edifici in grado di resistergli. Dovere e responsabilità istituzionale della Politica. Gli scienziati dispongono di dati di dettaglio solo per i forti terremoti degli ultimi 20-30 anni, un intervallo che rappresenta una frazione minima della plurisecolare storia sismica italiana. Il terremoto del 1857 causò danni notevoli in un’area eccezionalmente grande: la regione caratterizzata da intensità macrosismiche MCS pari al X grado o superiore, si estese per circa 900 Km quadrati. La maggior concentrazione dei danni fu riscontrata nell’Alta Val d’Agri a monte della diga del Pertusillo, ma le intensità di IX e X grado MCS furono registrate in un’area estesa della parte settentrionale del Vallo di Diano fino al bacino di Sant’Arcangelo. Il famoso Mallet faticò a capire dove esattamente il terremoto avesse dispiegato i suoi effetti maggiori, ovvero quale ne fosse l’area epicentrale. Infatti, dopo essere sbarcato a Napoli, egli raggiunse l’Alta Val d’Agri passando per il Vallo di Diano, seguendo approssimativamente il tracciato dell’attuale autostrada Salerno-Reggio Calabria e attraversando i Monti della Maddalena in corrispondenza della Piana di Magorno. Prima di raggiungere l’Alta Val d’Agri, Mallet trascorse diversi giorni nel Vallo di Diano ispezionando i danni subiti da Polla, anche a quei tempi uno degli insediamenti principali dell’area, e da numerosi altri paesi della zona. A sua insaputa, tuttavia, Mallet non era ancora entrato nell’area più gravemente danneggiata dalla scossa del 1857, e le distruzioni che stava studiando erano in gran parte dovute ad amplificazioni locali dello scuotimento sismico dovute allo spesso pacco di sedimenti fluviali e lacustri che ammanta il fondo del Vallo di Diano (Gallipoli et al., 2003). Solo in seguito egli visitò i paesi dell’Alta Val d’Agri, rilevando l’immensa distruzione e i fenomeni naturali che accompagnarono il sisma. Le tecniche oggi in uso per calcolare la magnitudo dei terremoti pre-strumentali sulla base della distribuzione del danno, consacrano il terremoto del 1857 come uno dei più forti eventi sismici italiani di tutti i tempi (M 7), confrontabile con le tre calamità più forti del XX Secolo (Messina e Reggio, 1908; Marsica, 1915; Irpinia, 1980) se non addirittura come il più energetico. La presumibile posizione ed estensione della faglia responsabile del terremoto del 1857, è stata ottenuta dall’analisi automatica dei dati di intensità attraverso il programma Boxer (Gasperini et al., 1999) che determina un epicentro, una magnitudo, l’orientazione del piano di faglia e la sua lunghezza proporzionale alla magnitudo stessa. Il piano di faglia viene considerato simmetrico rispetto all’epicentro così stimato. La faglia ottenuta viene confrontata con le sorgenti sismogenetiche contenute nella banca dati nazionale DISS (DISS Working Group, 2010) la cui proiezione in superficie viene indicata da rettangoli neri, e con l’epicentro calcolato da Robert Mallet che decise di determinare l’epicentro come il punto di incontro di una serie di linee ideali tracciate lungo il prolungamento della direzione di caduta di manufatti. Questo approccio, ideato da Mallet stesso, parte dal presupposto che nell’area di massimo scuotimento i manufatti siano danneggiati dall’arrivo delle onde P, anche se oggi è noto che è l’arrivo delle successive onde S a causare i danni più gravi ed estesi. L’esercizio richiese inoltre l’accortezza di escludere preventivamente quei manufatti che, per funzione o forma, risultano in qualche modo vincolati, ovvero impossibilitati a cadere in una direzione arbitraria ma solo in direzioni prefissate, come le lapidi delle tombe a terra nei cimiteri. Il metodo fu utilizzato estesamente fino al 1915, anno del terremoto della Marsica, per essere poi soppiantato da metodi puramente strumentali. Una faglia è un piano di taglio della crosta terrestre lungo la quale, durante il terremoto, avviene lo scorrimento relativo di due blocchi rocciosi sottoposti a tensione dalle forze geodinamiche globali. Quando lo sforzo accumulato supera la resistenza dell’attrito tra i blocchi rocciosi, la faglia si frattura iniziando dal punto di minor resistenza. Questo diventa l’Ipocentro del terremoto che sta per scatenarsi e la sua proiezione in superficie è invece nota come Epicentro. Dall’ipocentro la frattura si propaga a una velocità di circa 2-3 Km al secondo, irradiando energia sismica ed esaurendosi nell’arco di pochi secondi. Per un terremoto non registrato dagli strumenti, ad esempio un evento storico, l’epicentro è definito come il baricentro della distribuzione del danno. Per questo viene chiamato anche Epicentro Macrosismico. La differenza tra queste due definizioni non deve essere trascurata. L’ipocentro strumentale rappresenta solo il punto di inizio o la nucleazione della frattura, ossia della rottura sismica, ed è quindi solo indirettamente legato al danno causato dal terremoto. Questo punto può trovarsi al centro della faglia, e si parlerà allora di Rottura Bilaterale; ovvero può propagarsi simultaneamente verso le due estremità, o vicino a una estremità, e si avrà quindi una Rottura Unilaterale. Una rottura prevalentemente bilaterale causa una distribuzione dello scuotimento e del danneggiamento, simmetrica rispetto al centro della faglia, e quindi la determinazione strumentale dell’epicentro potrà essere pressoché coincidente con quella dell’epicentro macrosismico. Viceversa una propagazione unilaterale dà luogo di norma a una distribuzione dello scuotimento asimmetrica nella direzione in cui si propaga la rottura. E poiché in Italia i grandi terremoti sono causati da faglie lunghe anche 30-50 Km (in altre aree della Terra anche centinaia di chilometri, come fu per il mega-terremoto di Sumatra nel 2004) l’epicentro strumentale potrà trovarsi anche a oltre 20 Km dall’epicentro macrosismico. Ecco perchè, tra rancori e livori ideologici, regna ancora il caos non soltanto sui mass-media che ignorano queste considerazioni scientifiche fondamentali. L’epicentro ottenuto da Mallet dovrebbe rappresentare con buona approssimazione la proiezione in superficie del punto di nucleazione del terremoto, ovvero il suo epicentro strumentale, se nel 1857 fosse esistita una rete di sismografi come quella odierna dell’Ingv. L’epicentro calcolato da Mallet cade circa 15 Km a Nord-Ovest dell’estremità della faglia ipotizzata sulla base del programma Boxer sotto le premesse già discusse, ossia a oltre 30 Km dall’epicentro macrosismico, ma a breve distanza dal bordo settentrionale della sorgente sismogenetica Melandro-Pergola del database DISS. Come mostrano chiaramente le isosisme tracciate da Mallet, le curve che uniscono luoghi colpiti dalla stessa intensità macrosismica, questo punto cade all’estremità nord-occidentale dell’area complessivamente colpita, che presenta quindi una forte asimmetria verso Sud-Est. È importante capire come si spiega quest’asimmetria e cosa implica in termini sismologici. Fino al 2007 il terremoto del 1857 era considerato da quasi tutti coloro che lo hanno studiato come un unico grande evento dotato di un enorme potenziale distruttivo. Ma un esame attento delle fonti storiche mette in evidenza che la scossa principale che sconvolse l’Alta Val d’Agri era stata preceduta, di circa due minuti, da un’altra scossa significativa. Uno studio di dettaglio condotto da Branno et al. nel 1983 sui danni causati dal terremoto del 1857, riporta un’osservazione di Leopoldo Del Re, l’allora direttore dell’Osservatorio Astronomico di Napoli, secondo cui “alle ore 10 e minuti 10 di Francia si è sentita una prima scossa di tremuoto della durata di quattro in cinque secondi, la quale è stata dopo due minuti seguita da altra di assai maggiore intensità e della durata di circa venticinque secondi”. La loro ricostruzione mostra che la prima scossa colpì la parte Nord dell’area mesosismica cartografata da Mallet, tra i paesi di Balvano e Marsico Nuovo. Si trattò quindi di una fortissima premonitoria, un terremoto di magnitudo tra 5.5 e 6.0 che produsse danni in un’area situata a Nord della Val d’Agri in corrispondenza della Valle del Melandro che ricade all’interno dell’isosisma di massima intensità tracciata da Mallet e all’interno dell’area di X grado MCS riportata in Guidoboni et al. nel 2007. Le informazioni sul tempo di occorrenza esatto della scossa principale, riportate da Branno et al. nel 1983, che peraltro derivavano a loro volta da Baratta (1901), e la loro ricostruzione del danneggiamento associato al primo sub-evento, suggeriscono che il terremoto del 1857 sia stato un evento multiplo o complesso, ovvero composto da più eventi distinti e vicini nello spazio e nel tempo. Fino al 2007, anno del suo centocinquantenario, il terremoto del 1857 veniva considerato dalla maggior parte degli scienziati, inclusi i compilatori del database DISS (DISS Working Group 2007), come un evento semplice generato da una faglia lunga 20-25 Km posta al di sotto dell’Alta Val d’Agri. Al contrario, la faglia lunga 15-20 Km posta lungo l’asse estensionale dell’Appennino meridionale in corrispondenza della Valle del Melandro, a Nord-Ovest dell’Alta Val d’Agri, veniva considerata una struttura quiescente, non legata cioè ad alcun terremoto storico o strumentale, e dunque da trattare con cautela per i calcoli di pericolosità sismica (DISS database 2.0: Valensise e Pantosti, 2001; Montone, 2004; Lucente et al., 2005). Burrato e Valensise (2008) hanno invece proposto che il terremoto del 1857 sia stato in realtà un evento complesso, causato dalla rottura di entrambe le faglie citate, da lungo tempo quiescenti. Come già osservato, l’epicentro calcolato da Mallet cade qualche chilometro a Nord della sorgente sismogenetica Melandro-Pergola. Anche ammettendo un’incertezza della localizzazione maggiore rispetto a quella stimata da Mallet, è interessante notare che la presunta nucleazione della rottura cade vicino ad un’estremità dell’area mesosismica, ovvero la zona di massimo danneggiamento, ma a circa 30 Km di distanza dall’epicentro macrosismico. Queste osservazioni suggeriscono agli scienziati che il terremoto in Basilicata del 1857 sia stato generato dalla rottura in rapida successione delle sorgenti sismogenetiche Melandro-Pergola e dell’Alta Val d’Agri. Rottura che potrebbe essere iniziata nel triangolo Caggiano-Vietri di Potenza-Savoia di Lucania, non lontano dal bordo Nord-Ovest della sorgente Melandro-Pergola, per poi propagarsi unilateralmente verso Sud-Est, innescando poi la sorgente dell’Alta Val d’Agri. Secondo uno studio di McGuire et al. (2002) rotture prevalentemente unilaterali avvengono nell’80 percento dei grandi terremoti crostali per fagliazione normale. Quindi è molto probabile che questo tipo di rottura possa essere avvenuto anche durante il terremoto del 1857. Questa forte direttività spiegherebbe bene la forte asimmetria del danno verso Sud-Est, ovvero verso il bacino di Sant’Arcangelo. Ora, assumendo che lo spessore dello strato sismogenetico nella regione colpita dal terremoto del 1857 sia lo stesso di quello dell’area irpina colpita dal terremoto del 1980 e che il movimento cosismico sul piano di faglia nel 1857 sia stato lo stesso o comparabile con quello del terremoto del 1980 (1.0-2.0 m), si ottiene per il sistema di faglie dell’Alta Val d’Agri e per quello della Valle del Melandro una stima della magnitudo del massimo terremoto potenzialmente generabile pari rispettivamente a 6.5-6.7 e 6.3-6.6. I valori più alti si ottengono utilizzando la relazione di Hanks e Kanamori (1979) per convertire il momento sismico Mo nella magnitudo momento Mw, quelli più bassi utilizzando le relazioni di Wells e Coppersmith (1994) a partire dalla lunghezza delle due faglie. Le magnitudo stimate sulla base dei dati geologici di lunghezza delle faglie, devono essere paragonate con la magnitudo stimata del terremoto del 1857 ottenuta dai dati di intensità macrosismica. Il risultato è che, anche ipotizzando la rottura contemporanea di entrambe le faglie durante un singolo grande terremoto, si ottiene una magnitudo che è di 0.1-0.3 unità inferiore alla magnitudo calcolata dai compilatori dei cataloghi CPTI e CFTI usando le tecniche di calcolo automatico sviluppate da Gasperini et al. (1999), che è pari a 7.0. Anche tenendo conto delle numerose incertezze che caratterizzano questo calcolo, la differenza suggerisce agli scienziati non solo che lo scenario secondo il quale entrambe le faglie si sono attivate durante il terremoto del 1857 è plausibile, ma anche che la lunghezza e la larghezza delle faglie o il movimento cosismico durante il terremoto possono essere ancora sottostimati. Allo stesso tempo va osservato che le relazioni empiriche di Wells e Coppersmith (1994) per i terremoti estensionali, come nel caso del 1857, implicano che un evento di Magnitudo 6.8-7.0 sia associato alla rottura di una faglia di lunghezza compresa tra 44 e 68 Km, prendendo la larghezza e il movimento cosismico già specificati. Di conseguenza, anche assumendo la magnitudo (M 6.84) calcolata da Branno et al. (1983) che rappresenta un limite inferiore, il terremoto del 1857 può essere stato generato dalla rottura delle due faglie adiacenti. Anche il terremoto dell’Irpinia del 1980 fu sicuramente un evento complesso di tre sub-eventi principali in 40 secondi, causato dalla rottura di una faglia segmentata complessivamente lunga 38 Km e di un’ulteriore faglia parallela lunga 10 Km (Bernard e Zollo 1989; Pantosti e Valensise, 1990). Il Catalogo CPTI (CPTI Working Group 2004) assegna a questo terremoto una Mw 6.9. La complessità della sorgente sismogenetica è un tratto ricorrente della sismicità italiana, sebbene il tempo trascorso tra i vari sub-eventi possa variare da pochi secondi a diverse settimane. Fanno riflettere le 14 sequenze sismiche strumentali con magnitudo momento superiore al grado 5.5 Richter, avvenute in Italia negli ultimi cinquant’anni. Dieci di queste sequenze, dunque ben più della metà, sono state sicuramente caratterizzate da una sorgente complessa, e solo quattro da una scossa singola. Altri esempi possono essere ritrovati nel record storico, anche se molti di questi sono troppo antichi per poter essere studiati in dettaglio. Il terremoto del 1857 rappresenta un’ottima Memoria di come i dati geologici e sismologici storici possano e debbano integrarsi nell’interesse di una migliore comprensione dell’assetto sismotettonico e di una più efficace stima della Pericolosità sismica nel Belpaese. Una stima di magnitudo pur preziosa, come quella ottenibile con tecniche moderne dai dati storici di intensità, può talora risultare sovrastimata; la complessità dei forti terremoti, fenomeno frequente se non addirittura dominante in Italia, può comportare una sottovalutazione dell’estensione dell’area interessata dal sisma se i dati storici non vengono interpretati accanto a quelli geologici; la direttività della rottura in forti terremoti può modificare in modo sostanziale il quadro degli effetti. Nel 1857 la direttività verso Sud-Est ha di fatto limitato lo scuotimento nelle popolose aree del Salernitano e del Napoletano: esattamente il contrario di quello che successe nel terremoto del 1980, quando un’evidente direttività verso Nord-Ovest causò danni ingenti in queste stesse due aree e addirittura crolli nel centro urbano di Napoli. I droni scientifici possono fare la differenza come nel film Interstellar! Un team di esperti internazionali con competenze multidisciplinari in sismologia, geochimica, microbiologia, geologia e geofisica, per monitorare e studiare l’eruzione idrotermale di fango Lusi, è volato in Indonesia nell’ambito del Progetto europeo LUSI LAB. Sono stati eseguiti per la prima volta campionamenti di fango e gas con un drone dotato di apposita strumentazione, progettata e assemblata in cooperazione tra l’Ingv e l’Università di Oslo. Un drone multifunzione da Laboratorio con nuove tecnologie e strumenti dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia si è alzato in volo per esplorare per la prima volta una delle più grandi eruzioni idrotermalli al mondo. Il monitoraggio e lo studio dell’attività del “vulcano” di fango, rientrano nell’ambito del progetto finanziato dal Centre for Earth Evolution and Dynamics (CEED) dell’Università di Oslo. “Lusi è un eccezionale laboratorio natural – rivela Adriano Mazzini che studia l’eruzione dal 2006 ed è responsabile del progetto LUSI LAB – è ancora oggi in attività e continua a eruttare gas, fango e acqua. Risale al 2006 la sua prima eruzione nel Nord-Est dell’isola di Java a seguito di un terremoto di magnitudo 6.3. Sono quasi 7 i kmq di territorio sommersi da fango bollente e 50mila le persone evacuate. Nei periodi di massima attività Lusi è arrivato a eruttare fino a 180mila metri cubi di fango al giorno e le stime sulla sua longevità rimangono altamente speculative”. L’obiettivo principale del progetto è di capire la struttura interna del “vulcano” e i meccanismi di innesco delle eruzioni, attraverso l’uso di un drone dotato di apposita strumentazione in grado di effettuare non solo campionamenti di gas, fango e agenti inquinanti ma anche fotografie termiche, riprese nel visibile e video in alta definizione. “Punto di forza del velivolo telecomandato da terra – osserva Giovanni Romeo, responsabile del Laboratorio Nuove Tecnologie e Strumenti dell’Ingv – è di arrivare dove l’uomo non riesce, permettendo così di esplorare ambienti estremi, altrimenti inaccessibili, e raccogliere una vasta gamma di dati utili per studiare i meccanismi e le reazioni geochimiche che caratterizzano i siti in eruzione”. Il Lusi-drone è stato testato con successo, effettuando campionamenti di gas e fango, acquisizioni di immagini visibili e termiche, misurando concentrazioni di gas in aria, grazie a un dispositivo realizzato dal Centro di ricerca CSP Innovazione nelle ICT di Torino, in grado di misurare e georeferenziare differenti specie gassose. Questa tecnica ha permesso la mappatura delle concentrazioni di diversi gas nella zona attorno a Lusi. Ulteriori test e misure saranno importantissimi per completare una stima globale dei gas emessi dal cratere. “Lusi – spiega Romeo – offre ai ricercatori la possibilità di studiare un fenomeno eruttivo in evoluzione dalla sua recente nascita e di affinare metodi di indagine da utilizzare sul territorio nazionale”, per arricchire la letteratura scientifica. Il volume “L’Etna nella Storia. Catalogo delle eruzioni dall’antichità alla fine del XVII secolo”, edito da Bononia University Press, di Emanuela Guidoboni, già dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, Cecilia Ciuccarelli, Dante Mariotti, Alberto Comastri e Maria Giovanna Bianchi, ricercatori Ingv, è un viaggio storico e filologico negli oltre due millenni di storia delle eruzioni sull’Etna, il vulcano attivo emerso più alto d’Europa che sorge nella costa orientale della Sicilia, a ridosso di Catania, proclamato dall’Unesco nel 2013 Patrimonio dell’Umanità. L’obiettivo dell’opera è di redigere un Catalogo storico di nuova generazione in grado di fornire per ogni eruzione una critica chiara e completa, senza escludere dubbi e pareri discordanti che nel tempo sono stati formulati da vari autori. I risultati di questo imponente lavoro andranno a costituire la base di numerose altre ricerche che la comunità vulcanologica nazionale e internazionale svolge sull’Etna, confermando ancora una volta il valore dell’approccio storico ai fenomeni geodinamici. Un punto di vista che solo Paesi di antica cultura scritta, come l’Italia, possono assumere e sviluppare. Gli studiosi e gli appassionati di Fisica sanno che, nonostante i grandi progressi di ricerca in questa disciplina classica, alcuni fenomeni ancora sfuggono alla modellizzazione e al calcolo previsionale. Uno di questi riguarda le dinamiche delle “turbolenze” che interessano molto da vicino i processi ad alta tecnologia, l’ambiente, la meteorologia. Ora i ricercatori di tutto il mondo potranno misurare, per la prima volta con la necessaria precisione, le “quantità” rilevanti per descrivere questi flussi, grazie al nuovo Centro di cooperazione internazionale “CICLoPE – Centre for International Cooperation in Long Pipe Experiments”, realizzato a Predappio nelle strutture delle ex Industrie Caproni, concesse in comodato gratuito all’Università di Bologna dall’Aeronautica Militare Italiana. I lavori per la realizzazione del laboratorio, possibili grazie a una serie di finanziamenti di matrice europea veicolati dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito dei programmi Obiettivo 2 e POR-FESR, oltre al contributo dell’Università di Bologna, si sono svolti in tre fasi: nella prima è stata recuperata l’area dismessa e i tunnel; nella seconda sono state realizzate le strutture portanti del laboratorio; nella terza, finanziata parzialmente con fondi Cipe, è stata realizzata la “galleria del vento” (Long Pipe) che costituisce la punta di diamante di tutto l’impianto. È proprio grazie alle dimensioni dei tunnel, alla stabilità delle caratteristiche ambientali e all’assenza di disturbi esterni, che il CICLoPE è in grado di ospitare tutte le attrezzature necessarie alla riproduzione delle dinamiche tipiche dei flussi reali allo studio, garantendo un’estrema qualità di misurazione delle variabili in campo. “Il forte interesse per lo studio delle turbolenze – spiegano i ricercatori – è legato al fatto che le equazioni che governano i moti turbolenti, pur essendo note, sono praticamente impossibili da risolvere in forma teorica: è proprio la mancanza di una soluzione teorica a impedirci di formulare modelli fisico-matematici sufficientemente accurati; per questo il problema della turbolenza è riconosciuto come uno dei problemi irrisolti della fisica contemporanea”. In altre parole, in chiave applicativa, non è ancora possibile, ad esempio, stimare con la necessaria precisione il consumo di carburante di un moderno velivolo da aviazione civile, di valutarne correttamente le emissioni e di prevedere la successiva dispersione degli inquinanti prodotti dai motori. Allo stesso modo, la mancanza di un’adeguata comprensione della turbolenza impedisce di formulare previsioni accurate in molti settori in cui la possibilità di avere previsioni attendibili risulta decisivo. Come parte integrante del network EUHIT (www.euhit.org) che mette in rete i maggiori Centri di ricerca europei che si occupano dello studio della turbolenze, quali il Max Plank Institute e il Cern di Ginevra, CICLoPE può ospitare tutti i gruppi di ricerca che desiderano condurre studi ed esperimenti nel campo dell’aerodinamica, della fluidodinamica, delle gallerie del vento, della progettazione di sensori e della simulazione numerica dei flussi. Anche la Scienza, come ogni fatto umano, è suscettibile di errore, e anche tra gli scienziati c’è ogni tanto qualcuno che imbroglia. Questi due fatti evidenti anche nell’Eso-cosmologia, ovvero che la scienza non sia perfetta nei suoi protagonisti, vengono talvolta usati dagli antiscientisti oscurantisti per diffondere sfiducia nella Scienza, o relativizzarla sino a renderla uguale a qualsiasi altra esperienza umana, come la politica politicante autoreferenziale, la letteratura e la sociologia, cui è lecito tendere orecchio come una delle voci del coro, ma niente più. Eppure la Storia dimostra tutt’altro fin dai tempi di Galileo Galilei che eppur credeva in Colui che ha fatto il Mondo, suggerendo che la Scienza è quell’insieme di saperi che prima e meglio di qualsiasi altro, grazie al Cristianesimo in Europa, ha sviluppato strumenti per ridurre al minimo grado errori e imbrogli, dotandosi di una rigorosa etica dell’oggettività e del rispetto del dato empirico, senza per questo rinunciare a speculazioni talvolta persino filosofiche, ma sempre partendo dai (e tornando ai) dati di realtà. Solo 21 anni fa i pianeti alieni extrasolari erano puramente fantascientifici. Nella sua importante Storia, la più antica società scientifica del mondo, l’Accademia dei Licei, ha deciso di dedicare un’importante Convegno all’analisi del lato oscuro della Scienza, dimostrando sin dal titolo, “Etica della Ricerca Scientifica – I principi, i problemi, le soluzioni e le incertezze”, come essa vigili costantemente sul proprio operato, sviluppando sistematicamente contromisure a ogni errore o frode. Il Convegno prende avvio dai principi generali, dando la parola allo storico della medicina Gilberto Cobellini che delinea un percorso temporale per mostrare che “parte dei valori delle Costituzioni nelle democrazie occidentali si ispirarono ai valori della scienza e all’etica della ricerca contenuti nei regolamenti delle prime società scientifiche europee, quali per esempio l’Accademia dei Lincei o la Royal Society”. Valori ed etica che necessitano di una corretta divulgazione scientifica, come ricorda nel suo intervento il fisico Andrea Frova, ma anche di una solida giurisprudenza, tale però “da non giungere – come osserva nel suo intervento Giovanni Maria Flick, già Presidente della Corte Costituzionale – a paralizzare la ricerca, perché se non ci fosse la possibilità dell’errore non ci sarebbe nemmeno la ricerca”. Il Linceo e biochimico Ernesto Carafoli apre la seconda sezione su “Le aberrazioni della condotta scientifica” spiegando le differenze tra gli errori scientifici, sempre possibili e generalmente ritrattati, e le frodi, intenzionali, sistematiche e occultate “che oggi sono quantitativamente aumentate”. Frodi che Cinzia Caporale, direttrice dell’Istituto per le tecnologie biomediche del Cnr, nel suo intervento sistematizza in diverse tipologie e che Gerry Melino, esperto di fama internazionale sui meccanismi di morte cellulare e che nel 1994 ha fondato e tuttora dirige il giornale “Cell Death and Differentiation” del gruppo editoria Nature, considerato il più rilevante successo editoriale scientifico italiano, declina nelle regole che “ogni rivista scientifica deve adottare per arginare frodi, plagi o manipolazioni di dati”. La terza e ultima sessione, sulle “Autocorrezioni della scienza”, viene introdotta da un’autorevole voce della rivista Nature, Alison Abbott. La Scienza è stata la prima a capire, misurare e ridurre gli errori del pensiero umano, inventando procedure come il doppio cieco, il gruppo di controllo, la peer-review e molto altro. Procedure inventate nei conventi cattolici europei già nel Medioevo. Solo oggi però si è capito che questi meccanismi sono sufficienti solo se ci sono buone intenzioni da parte degli scienziati onesti. Recentemente, anche con l’arrivo di Paesi un tempo esclusi dall’arena scientifica internazionale, sono invece emersi diversi casi di “scientific misconduct”, vere e proprie frodi che alterando positivamente i dati tentano di ottenere maggiori fondi di ricerca, specie riguardo alla falsificazione delle immagini nei “paper” biomedici. È il tema affrontato dal fondatore della società Biodigitalvalley, Enrico Bucci, menzionato in un recente articolo di Nature come l’inventore di un programma destinato alle riviste scientifiche in grado di smascherare le false immagini e di raggruppare gli autori di falsi in “cluster”, ovvero famiglie o bande, che tendono a collaborare perché avvezze alla falsificazione. Un atteggiamento, è l’oggetto dell’intervento del celebre patologo Paolo Bianco, noto ai non specialisti per essersi coraggiosamente esposto in TV contro la frode Stamina, che si sta diffondendo nel mondo della Scienza in modo epidemico e che può quindi essere come una malattia eradicato grazie a un sano sistema immunitario istituzionale e alla profilassi della comunità scientific mondiale. Di soluzioni e modelli anglosassoni e continentali per le linee guida, parla Giacinto Della Cananea, ordinario di Diritto amministrativo all’Università Tor Vergata di Roma, che sottolinea “i possibili rischi di un’autoregolamentazione del mondo della ricerca”, suggerendo modelli “burocraticamente snelli come i “notice and comments” britannici, proteggendo chi denuncia le frodi (“whistle blowers”) e insistendo sul fatto che prevenire è più importante di punire”. La discussione, moderata da Elena Cattaneo, Giuseppe Macino e Gerry Melino che, insieme a Carafoli, Corbellini, Pietro Rescigno e Fulvio Tessitore, fanno anche parte del Comitato ordinatore del convegno, coinvolge figure di spicco del mondo accademico e culturale legato alla Scienza come i rettori dell’Università di Milano e Roma La Sapienza, Gianluca Vago ed Eugenio Gaudio, il biochimico dell’ateneo torinese Gianfranco Gilardi e il commissario dell’Istituto Superiore di Sanità, Gualtiero Ricciardi. Se non ci fosse la possibilità d’errore non esiterebbe l’avanzamento scientifico e tecnologico che un giorno ci farà volare tra le altre stelle. Ma proprio per questo, a differenza di altre discipline, la Scienza di Pace basandosi sui dati empirici, pubblici e condivisi, offre sempre le migliori conoscenze possibili in ogni dato momento storico, e se continua a godere di buona salute è proprio perché dell’autocorrezione di frodi ed errori, e degli strumenti per eliminarli, ne ha fatto una vera Scienza. Agli inizi del XX Secolo in ogni Paese nacquero i Consigli Nazionale di Ricerca per favorire, attraverso lo sviluppo di nuova conoscenza e di tecnologie avanzate, la difesa dei territori, e per creare una ben più ampia comunità scientifica che potesse collaborare a una crescita complessiva della società, a un miglioramento delle condizioni di vita. Così alla vigilia della prima Grande Guerra mondiale, Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai pubblicarono un Manifesto con il quale esortarono gli scienziati e gli artisti a opporsi al conflitto tra le nazioni e a impegnarsi per costruire la Pace. I due scienziati invitarono i giovani “buoni europei di domani” a fare dell’Europa una Casa comune. Prima delle ideologie distruttive del Novecento. Oggi ci risiamo. I Warlords stanno disseminando la Rete di odio. L’attacco alla Santa Russia, le politiche aggressive innaturali della Nato, la persecuzione dei cristiani sulla Terra, la riscrittura della Storia del XX Secolo, le stragi di giovani studenti universitari in Africa, il 2 Aprile 2015 a Garissa in Kenya, ne sono stati massacrati 148 solo perchè cristiani, sono episodi programmati nel pericoloso meccanismo messo in moto dai Signori della guerra, della droga e delle armi. L’Occidente massonico che nega la Verità sui Warlords, strumentalizzando le Religioni, che si ostina a sostenere che la Industria delle Armi e delle Guerre, sotto le mentite spoglie del “terrorismo islamico” o “cristiano”, non c’entra nulla con gli Stati e i Governi Occidentali e Orientali mandanti di questi massacri, accusando l’Islam, l’Ebraismo e il Cristianesimo che non sarebbero Religioni di Pace, si rende responsabilmente complice del genocidio dei Cristiani d’Oriente e d’Occidente. La Scienza non può più tacere! Deve partire da quell’invito di Albert Einstein e Georg Friedrich, dalla sua straordinaria attualità in questi tragici anni di crisi e di radicalizzazione dei fondamentalismi, perché la Comunità degli scienziati possa e debba far sentire la sua voce e dare un contributo importante a invertire immediatamente la rotta. Non è secondario che alcune recenti azioni terroristiche si siano rivolte contro persone e luoghi a vario titolo collegati alla cultura, alla libertà, al dissenso, alla fede. È vergognoso il silenzio della Scienza laicista nei confronti dei 148 giovani cristiani africani trucidati dai Warlords all’Università di Garissa in Kenya! Colpire la conoscenza vuol dire spezzare anime, devastare l’identità, la memoria e quindi il futuro e le libertà. Indebolire le democrazie, sottrarre libertà, fa aumentare il senso di insicurezza nelle persone, nelle imprese, e devasta la stessa produtti
ità della ricerca scientifica e tecnologica, perché anch’essa necessita di libertà, in quanto esprime la forma più alta di creatività e di solidarietà fra le persone. Per questo la Scienza e la Ricerca da sempre rappresentano baluardi e strumenti per contrastare ogni forma di violenza e oscurantismo, per rinforzare la pace, la libertà e la democrazia. Alla Scienza, a questa idea di conoscenza che è nata in Europa grazie al Cristianesimo, tutti noi possiamo, come nell’auspicio di Einstein e Nicolai, affidare il futuro degli Stati Uniti di Europa insieme alla Santa Russia, affinché possa lanciare risposte migliorative alle condizioni di vita individuale e comunitaria, attuando modelli alternativi di sviluppo, credito e crescita qualitativa. Si avverte l’urgenza e la necessità di un’altra Europa sempre più diversa dall’attuale pagana, atea, burocratica, laicista e indifferente. Una Nuova Europa che sappia scoprirsi pronta a vincere le grandi sfide dei nostri tempi, ossia a sconfiggere le illibertà dello sviluppo, il vero cancro in Italia, a superare i pregiudizi, a rafforzare i diritti della persona e della famiglia naturale, ad estendere la prosperità a chi non ce l’ha. A questa Nuova Europa insieme alla Santa Russia, la Scienza guarda con interesse e grandi aspettative. Perché prima ancora di essere sommatoria di Istituzioni, l’Europa è una comunità di persone che necessita di una Costituzione, di un Congresso e di un Presidente federale. Già nel 2000, da Lisbona, il Consiglio Europeo, con straordinaria lungimiranza, si pose l’obiettivo di trasformare l’economia dell’Unione entro il 2010 in una Economia basata sulla conoscenza per rendere il vecchio giovane continente più competitivo e dinamico nel Mondo. Tutti sanno, a distanza di poco meno di un quindicennio, quanto siamo ancora lontani dal raggiungimento di quell’ambizioso traguardo e quanto ancora resti da fare per evitare che la Strategia di Lisbona diventi sinonimo di obiettivi mancati, fallimenti politici e guiridici, e di promesse non mantenute che meritano la chiara ssunzione di responsabilità politica personale in Italia e in Europa. Nel frattempo, però, la trasformazione delle economie dei Paesi occidentali ha subito un’incredibile accelerazione in Oriente, ovvero nel Nuovo Occidente, passando da economie industriali a finanziarie e di servizi, lasciando che i Paesi emergenti diventassero l’Officina del Mondo, come fu definita in piena rivoluzione industriale la Gran Bretagna più di due secoli fa. Ma le Officine del nuovo XXI Secolo hanno imparato in fretta e hanno superato rapidamente la stagione delle produzioni “low-cost” e “low-profile” sperate da alcuni come “eterne”! Hanno investito in saperi e tecnologie, capitale umano, e sono diventate riferimento anche sul terreno dell’innovazione e delle produzioni avanzate. Ciò dovrebbe spaventare i politicanti in ogni Democrazia e Stato di diritto che si rispetti. Non in Italia. Tuttavia l’Europa insieme alla Russia ha ancora molte frecce nella sua faretra celeste! I cervelli. Per liberare le enormi potenzialità vanno adottati interventi strutturali e organizzativi tali da potenziare e innalzare il livello qualitativo della ricerca esplorativa finalizzata, dei sistemi produttivi e delle competenze tecnico-scientifiche delle persone. Bisogna liberalizzare l’industria e l’impresa spaziale privata. Per farlo abbiamo bisogno, l’Europa con la Russia ha bisogno, di più pace, più scuola, più università, più ricerca, più industria pesante spaziale. Non di armi, non di guerre, non di trilioni di dollari di carta straccia. Si avverte il bisogno di uno Spazio Europeo della Scienza e della Ricerca che integri le diverse politiche nazionali e superi ogni ostacolo alla libera circolazione dei ricercatori e delle conoscenze condivise. Mai più segreti! Oggi si presenta una straordinaria opportunità. Quella di poter contribuire alla predisposizione di un ampio e sostenibile Progetto di reindustrializzazione comunitaria europea insieme alla Russia. Per questo le scelte dell’immediata Politica di coesione devono fare leva sulla specializzazione intelligente, sull’aggregazione delle competenze, sull’uso intensivo di conoscenze avanzate per poter rispondere positivamente alle sfide dell’Energia Termonucleare, del Cambiamento climatico e dell’uso efficiente delle risorse terrestri, materiali e umane. L’Industria Mineraria Spaziale deve potere decollare! È un sacro dovere delle multinazionali che amano la Terra. Ma si avverte anche un’altra importante sfida sociale e culturale da raccogliere e vincere: mettere al centro di ogni azione la Persona come valore, interesse e tesoro. Solo investendo sulla qualità e continuità della formazione si potrànno sgretolare le false certezze dei fondamentalismi guerrafondai, per offrire maggiori opportunità alla tolleranza, alla democrazia, alla inclusione, alla pace, al lavoro per tutti senza più guerre mondiali. Le sfide della Rinascita economica e della Persona come interesse valoriale, sono interconnesse e vanno vinte in Europa, in Italia e nei territori dove si manifestano gli effetti dell’innovazione e dell’inclusione. I prodotti tecnologici che acquistiamo devono non soltanto essere privi di sostanze nocive per la salute umana, ma anche dimostrare la loro carica etica e morale con etichette del tipo “war free, genocide free, slavery free”. Favorire attraverso gli scienziati il raccordo fra le istituzioni formative, scientifiche e politiche rappresenta un buon viatico su cui investire per dare credito alla speranza di un futuro di Pace sulla Terra.
© Nicola Facciolini
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