“Nessuna mente umana ha congegnato né alcuna mano mortale ha elaborato queste grandi cose. Esse sono i doni generosi dell’Altissimo Dio, il quale, mentre ci tratta con ira per i nostri peccati, si è nondimeno ricordato della sua misericordia”(Abraham Lincoln, 1863). Nel 150mo anniversario della fine della Guerra Civile Americana, il 9 Aprile 1865, la Democrazia negli States accusa il colpo della “profezia” di Abraham Lincoln che fu il primo Presidente Repubblicano Conservatore Innovatore Unionista a difendere, in nome del Popolo e di Dio, la Libertà, l’Unione degli Stati Americani continentali, la Famiglia fondata sul Matrimonio di un uomo e di una donna, i diritti civili di eguaglianza alla nascita di ogni Persona, la Proprietà, l’Impresa, la Patria. Auguriamo agli Americani in Italia e nel mondo di fare tesoro della nostra e della loro Storia per onorare la memoria di tutti i Caduti e salvare la Democrazia e la Libertà. Calcolare il costo della Guerra Civile Americana (1861-65) è impossibile: oltre i 20 miliardi di dollari ufficiali. Ben più terribile fu il prezzo in sangue. Sui campi di battaglia, negli ospedali, in prigionia, 365.205 uomini erano caduti per l’Unione in terra e sui mari; 320.245 per la Confederazione. Più di 685.000 i Caduti Americani. Quanto ai feriti, invalidi e minorati fisici dell’Unione, essi ammontavano a 285.245. Fatte le debite proporzioni anche per i confederati, le perdite totali superavano il milione. Senza contare le terribili mutilazioni e umiliazioni subite dai popoli civili del Nord e del Sud. Durante la sanguinosa Guerra Civile Americana (1861-65) il Presidente Abraham Lincoln (il kolossal di Steven Spielberg, per la fotografia di Janusz Kaminski, vincitore di due soli Premi Oscar all’85.ma edizione degli Academy Awards, candidato a 12 statuette d’oro!) proclamò la Giornata Nazionale del Ringraziamento e di lode religiosa. Lincoln, eletto il 6 Novembre 1860 e insediatosi il 4 Marzo 1861, fu il primo repubblicano a conquistare la carica presidenziale americana e a battersi strenuamente per l’Unione degli States. “L’anno che si avvia alla fine – dichiara il Presidente Lincoln nella National Thanksgiving Proclamation del 1863 – è stato ricolmo della benedizione di campi fruttuosi e di cieli salubri. A queste munificenze, di cui godiamo così costantemente da essere portati a dimenticare la loro fonte, se ne sono aggiunte altre di natura così straordinaria da non poter che penetrare e addolcire anche i cuori abitualmente insensibili alla Provvidenza sempre vigile di Dio Onnipotente. In mezzo a una Guerra civile di ineguagliata portata e severità, che talvolta è sembrato invitare e provocare l’aggressione degli Stati stranieri, è stata preservata la pace con tutte le nazioni, è stato mantenuto l’ordine, sono state rispettate e obbedite le leggi ed è prevalsa l’armonia ovunque tranne che nel teatro del conflitto militare; mentre quel teatro si è grandemente ristretto con l’avanzare degli eserciti e delle marine dell’Unione. La necessaria deviazione della ricchezza e delle forze dai campi dell’industria pacifica alla difesa nazionale non hanno arrestato l’aratro, le navette o le navi; l’ascia ha allargato i confini dei nostri insediamenti e le miniere, di ferro come di carbone e dei metalli preziosi, hanno prodotto ancora più abbondantemente di prima. La popolazione è aumentata costantemente, nonostante le spoliazioni sul campo, l’assedio e il campo di battaglia; e al Paese, che gioisce nella consapevolezza di un aumento di forza e vigore, è permesso aspettarsi che continuino gli anni di grande aumento della libertà. Nessuna mente umana ha congegnato né alcuna mano mortale ha elaborato queste grandi cose. Esse sono i doni generosi dell’Altissimo Dio, il quale, mentre ci tratta con ira per i nostri peccati, si è nondimeno ricordato della sua misericordia. Mi è sembrato giusto e appropriato che essi fossero riconosciuti con solennità, riverenza e gratitudine, con un sol cuore e una sola voce, dall’intero Popolo americano. Invito pertanto i miei concittadini in ogni parte degli Stati Uniti, e anche coloro che si trovano in mare e che soggiornano in terre straniere, di designare e osservare l’ultimo giovedì di novembre prossimo, come giornata di ringraziamento e Lode al nostro Padre benefico che abita i Cieli”. La Guerra di secessione Americana, scoppiata il 12 aprile 1861, tra gli Stati del Sud e quelli del Nord in un conflitto cruentissimo senza precedenti nel Nuovo e nel Vecchio Mondo, fu immortalata nelle storiche pellicole cinematografiche italiane: “Il buono, il brutto e il cattivo” e “Una ragione per vivere, una per morire”, rispettivamente dei registi Sergio Leone e Tonino Valerii. Le cause sociali, culturali, economiche e politiche sono più complesse di quanto si creda. La decisione presa nel Novembre 1860 da undici Stati schiavisti (Carolina del Sud, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Carolina del Nord e Tennessee) di costituirsi in Confederazione autonoma a seguito dell’elezione a presidente degli Usa di Lincoln, fu il tentativo di difendere non tanto l’istituzione della schiavitù, della quale l’Europa cristiana era stata maestra nel mondo, quanto i diritti degli Stati a fronte del potere federale centrale. La Guerra Civile americana fu evitata per un soffio già nel 1832 quando l’adozione di leggi doganali protezionistiche a difesa della produzione industriale nazionale, tutta concentrata negli Stati del Nord, era stata contestata dagli Stati del Sud dove l’economia prevalentemente agricola, basata sulla grande proprietà e sul potere dei piantatori, dipendeva dagli scambi con l’estero. Mentre il Nord dei piccoli proprietari terrieri, delle grandi città e degli industriali, non aveva ragioni per mantenere la schiavitù. Anzi, ne aveva per abolirla e così incrementare la forza lavoro nelle fabbriche per la produzione manifatturiera. Casus belli immediato del conflitto fu l’espulsione della guarnigione federale Yankees da Fort Sumter il 12 Aprile 1861, con una serie di attacchi delle truppe sudiste guidate dal generale Lee (Bull Run, 21 Agosto 1861) che, respinto il tentativo unionista di conquistare Richmond, capitale dei confederati (Giugno-Settembre 1862), lanciò una vasta offensiva a Nord (Dicembre 1862-Maggio 1863). Alla caduta di New Orleans era seguito il blocco delle coste sudiste e l’isolamento economico degli stati confederati (Aprile 1862) le cui difese dovettero cedere (Febbraio-Giugno 1862) agli attacchi vittoriosi del generale Grant. Che con la campagna di Vicksburg (Novembre 1862-Giugno 1863) divise in due il fronte avversario. La nuova offensiva di Lee giunse a minacciare la stessa Washington, ma venne fermata nella battaglia decisiva di Gettysburg (1-3 Luglio 1863). La fase finale del conflitto rese celebre il generale nordista Sherman che occupati Tennessee, Georgia e Carolina (Settembre 1864-Febbraio 1865) aggirò le forze confederate impegnate sul fronte settentrionale. I sudisti, ormai circondati, tentarono l’inutile difesa di Richmond nella battaglia di Five Forks del 1° Aprile 1865, prima di arrendersi al generale Grant ad Appomattox il 9 Aprile 1865. Se gli Americani oggi, dopo aver elaborato la loro Storia, possono tranquillamente sventolare le bandiere di guerra confederate e unioniste accanto a quella a stelle e strisce e dei singoli Stati, senza tema di finire in galera, in Europa e in Italia le cose vanno diversamente da 150 anni. Ancora oggi, dopo le feste istituzionali comandate, si stenta a credere che i cittadini facciano non poca fatica a sostenere che l’Unità d’Italia e il nostro Risorgimento furono azione di popolo in tutti gli schieramenti politici e militari protagonisti sul campo con pari dignità. Il 17-20 marzo 1861 con la resa della fortezza di Civitella del Tronto si compiva un fatto storico senza precedenti per la nostra storia. Doveva nascere un’Italia federale e invece fu “sanzionata” e proclamata, dal nulla, una Unità politico-amministrativa sardo-piemontese che avrebbe creato non pochi problemi in tutto il Paese. Alcuni libri, discorsi presidenziali ed articoli, proferiti e pubblicati di recente, vengono a lenire almeno in parte quel senso di frustrazione che normalmente affligge i ricercatori della verità dei fatti. A causa del passato disinteresse della vulgata ufficiale nei confronti della nostra storia patria. Chi ricorda il discorso di Giuseppe Ferrari al Parlamento subalpino, il 2 Aprile 1861, sulla questione del brigantaggio meridionale? Chi erano i briganti? Perché furono sterminati (circa 9mila, secondo le cifre ufficiali)? Perché le opere di Cattaneo sono state dimenticate non solo dalla scuola pubblica? Duole constatare come l’età dell’oro dei giganti della storiografia italiana, sia ormai un altro mito. Come per la Guerra Civile americana, imperversano opere ed articoli retorici che sembrano piuttosto le conseguenze infauste del “politically correct” in quanto pretendono di plasmare la verità della Storia in base alle esigenze politiche del momento, dimenticando o facendo finta di dimenticare che l’intrusione di fini politici significa la morte della Storia come Scienza critica e la sua sostituzione con un insieme di favole e di grossolane falsificazioni. Come quella di equiparare il nazifascismo al comunismo nella Seconda Guerra Mondiale: incredibile operazione in corso d’opera in Europa (Paesi baltici e Ucraina) per offendere i Russi e spezzare le celebrazioni del 70.mo anniversario della sconfitta di Mussolini, Hitler e Tojo, grazie alla Vittoria delle Quattro Potenze antinaziste e antifasciste: Usa, Unione Sovietica, Francia e Regno Unito. Contro le favole e le grossolane falsificazioni della Storia, dobbiamo, in quanto Italiani in un’Europa secolarizzata, nichilista ed atea, opporre la sincerità e la giusta Verità della Scienza. Siamo il Belpaese che conserva e cerca di valorizzare il 70 percento del patrimonio culturale dell’Umanità. Non possiamo permetterci altre guerre civili o mondiali in nome del falso umanitarismo bellico. Salutiamo, quindi, con il più vivo e schietto entusiasmo le parole di quanti, storici e giornalisti, hanno degnamente celebrato il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia rivolgendo il pensiero a chi sui diversi fronti, benché già Italiani da secoli per religione e cultura, versò il proprio sangue per la libertà. Tutti, nessuno escluso. È giusto rendere l’onore delle armi e della memoria a quanti si schierarono contro i sardo-piemontesi, contro Garibaldi, contro le camicie rosse, contro i 250mila soldati italiani dispiegati per combattere il brigantaggio, sterminando decine di migliaia di persone. È giusto rendere l’onore delle armi e della memoria a quell’esercito dimenticato del Regno delle Due Sicilie. A quanti, finita la guerra per l’Unità del Regno di Vittorio Emanuele II, chiesero inutilmente ai Savoia, al nuovo Re d’Italia, di essere reintegrati nell’esercito e nell’amministrazione del nuovo Stato, e di ottenere una pensione di guerra. Senza tema di smentita o di accusa di revisionismo neoborbonico, è ineludibile che l’Ottocento sia stato il secolo delle nazionalità, come ci ricordano Adolfo Omodeo e Raimondo Luraghi. Formidabili miti apocalittici in grado di liberare, come l’energia di un megatsunami, quell’immensa forza ideale di lotta e sacrificio (Inno di Mameli, il Canto degli Italiani) che guida le masse in battaglia. Ma anche in grado di tradirle quando la sua forza devia dagli obiettivi principali, dalle promesse iniziali e si spegne nella sterile permanenza del potere, nella vuota retorica della politica territoriale al servizio di pochi borghesi. Con le masse ignoranti e disperate incapaci di reagire. Pena il plotone di esecuzione sabaudo, borbonico e italiano. Quello di “nazione” fu uno dei miti più forti creati dalla Rivoluzione francese, in grado di imprimere ai combattenti rivoluzionari la volontà di distruggere la Tradizione, l’Antico Regime, gli eserciti reazionari d’Europa e d’America, e inermi cittadini. La “nazione” portò al potere la nascente classe borghese e industriale sostenuta dalle masse ignoranti e contadine nel Vecchio continente, cui la Rivoluzione e i condottieri durante le battaglie e i moti (Garibaldi, i Mille e i Savoia in Italia, oggi celebrati pure dal Presidente Barack Hussein Obama che invita gli Americani a studiare il nostro Risorgimento; noi invitiamo gli Italiani a studiare la Guerra di secessione americana) avevano promesso la terra. Le invincibili fanterie ed artiglierie moderne (anche il Giappone imperiale contro i clan Samurai fedeli all’Imperatore) del nascente mercato nazionale e industriale, si alimentavano così grazie a quest’ideale irresistibile e inarrestabile, seminato e diffuso dalle armate napoleoniche in Europa e indirettamente attraverso intellettuali sudisti come Thomas Jefferson negli Usa e in Estremo Oriente. “I diversi Stati, costituenti gli Stati Uniti d’America, non sono riuniti in base al principio dell’illimitata sottomissione al loro governo centrale – scrive di suo pugno Thomas Jefferson nelle risoluzioni dell’Assemblea legislativa del Kentucky – ma che essi costituirono, in base a un contratto avente la forma ed il nome di Costituzione degli Stati Uniti con relativi emendamenti, un governo generale per fini specifici, delegando a tale governo certi poteri ben definiti, e riservandosi ogni Stato tutti i residui diritti di autogoverno”. Per la pace, la felicità e la prosperità degli Stati Uniti d’America, gli ingranaggi della guerra avrebbero macinato centinaia di migliaia di morti. Gli stati nazionali creati o imposti con il ferro, il fuoco e il sangue (Bismarck) fecero dell’Ottocento il secolo delle rivoluzioni incompiute che preparono la strada alle tre Guerre Mondiali (due calde e una fredda) del Novecento. Lo storico Raimondo Luraghi evidenzia il fatto che “non vi fu stato nazionale che non sorgesse grazie alla lotta armata, intesa a dare il potere alle classi emergenti nazionali ed a piegare mediante la forza la resistenza” degli oppositori. “Secondo il mito che guidava le varie lotte nazionali si trattava di creare qualcosa di nuovo, mai precedentemente esistito, per lo meno nella forma di stato nazionale”. Ecco allora, con tutti i limiti del caso, un ponte ideale tra la lotta risorgimentale dei patrioti italiani ovunque schierati e la lotta per la “grande Repubblica” di Lincoln (“che della nazione americana fu il Bismarck e il Cavour”) anch’essa “mai veramente esistita prima e forgiata tra il fuoco e il sangue della Guerra civile” e delle Guerre indiane. E che alcuni credono continui tuttora nel mondo attraverso guerre senza soluzione di continuità (Webster Tarpley, “La fabbrica del terrore: origini e obiettivi dell’11 Settembre”, 2007, Arianna Editrice). In America i sudisti replicavano al grande Presidente nordista queste parole: “Noi non siamo una nazione, ma un’unione di stati indipendenti e sovrani”. Era il vecchio Sud a parlare. Il nuovo Nord, artefice degli attuali Stati Uniti, rispondeva con Lincoln, Grant, Sherman e la migliore industria bellica della società moderna. Fu il loro “Risorgimento” per fare dell’Unione uno Stato nazionale su base federale. Gli oppositori cercarono, come qui in Italia, di opporre un loro nazionalismo fondato sulla difesa della Tradizione, degli antichi e sacri valori neoclassici che la Rivoluzione industriale nazionale avrebbe cercato di distruggere con tutto il volume di fuoco possibile e immaginabile (cf. film Via col vento). Ma il nazionalismo borbonico fu solo un pallido tentativo smorzato sul nascere. I Borbone avevano curato assai poco i rapporti con la stampa e l’educazione dei propri sudditi. Il divario con l’America era abissale. D’altra parte le masse ignoranti d’Italia (negli Usa quasi tutti sapevano leggere e scrivere sopra i venti anni; le invenzioni, i giornali e le rotative si svilupparono all’inverosimile) cosa avrebbero potuto opporre all’invasore? La difesa di un vecchio mondo ormai condannato sarebbe stata mai possibile? Il Sud americano e italiano, così profondamente “lontani” furono soltanto questo? I volumi: “La Spada e le Magnolie” e “Storia della Guerra civile americana” di R. Luraghi; e “Italiani nella guerra civile americana (1861-65)” di Emanuele Cassani, dimostrano che il conflitto civile americano non fu solo un evento bellico limitato agli Stati Uniti d’America. Fu il primo conflitto moderno per gli armamenti utilizzati, l’entità degli eserciti contrapposti, la mobilitazione generale insieme militare, civile ed economica. A confronto il nostro Risorgimento, come ricorda Indro Montanelli nella sua Storia d’Italia, “fu impresa modesta e rabberciata ma la più decente da noi compiuta come nazione”. Sui campi di battaglia del Nuovo Mondo si scatena un fenomeno inaudito e letale: la guerra industriale, culmine supremo della guerra totale. Tutto il peso della potenza economica di un Paese-nazione viene mobilitato per schiacciare il nemico. È questa la Guerra civile americana, prologo della Prima Guerra Mondiale per l’uso spietato di letali strumenti bellici, impensabili nelle nostre guerre d’indipendenza, prodotti dalla potenza dell’industria in mano alla borghesia nazionalista. Fenomeno agghiacciante che d’ora in avanti avrebbe macinato centinaia di milioni di morti sulla Terra. Il soldato diventa così l’artefice e la vittima di quel meccanico processo produttivo di ferro, acciaio, fuoco e battaglia. Oggi le cose non sembrano affatto cambiate: i missili si producono e devono pur essere lanciati da terra, da cielo, da mare, verso qualche obiettivo! Si scatenano rivoluzioni e guerre, si destabilizzano governi e regni, per accaparrarsi i combustibili fossili in nome della solidarietà, della libertà, della difesa dei diritti civili e dell’umanitarismo. Nell’era nucleare la Lezione va appresa in fretta perché i regimi cambiano più velocemente e la globalizzazione mette pericolosamente a rischio le identità e i valori dei popoli. C’è chi ancora oggi sogna ideali di Democrazia e Libertà forgiati in base alle esigenze politiche, all’interno di quel mostruoso processo produttivo che lega il nostro Risorgimento e quello Americano a tutte le guerre combattute nel mondo fino ai nostri giorni. Pensate a cosa accadrebbe se tutti i popoli invocassero il diritto al loro “risorgimento” manu militari! Centocinquantaquattro anni fa la vita degli Italiani e degli Americani fu sconvolta per sempre. Edifici costruiti da secoli e radicati nelle coscienze attraverso miti, consuetudini, credenze, tradizioni, ideologie e interessi economici, precipitarono nel pozzo della guerra. Altri miti si fecero strada. Dalle macerie e dai fiumi di sangue del Nord e del Sud nacquero un Nuovo Mondo e nuovi problemi politici ancora irrisolti non solo in Italia e negli Usa. Il Presidente Obama credo sia d’accordo sulla necessità e l’urgenza di un’elaborazione razionale della Storia sulla Terra. L’immane conflitto nord-americano fu infinitamente più cruento delle nostre guerre d’indipendenza risorgimentali europee. La Secessione o Guerra Civile, come affermò Tocqueville, avrebbe travagliato la società americana per molto tempo. Riflessioni su misura che si sposano perfettamente al caso italiano ed aiutano a capire meglio che cosa si festeggia in Italia e negli Usa. Sappiamo tutto sul Risorgimento e sulla Guerra Civile americana? Nonostante le profonde differenze tra i due popoli, non si possono tacere le complicate e difficili apparenti analogie. Ogni generazione riscrive daccapo la sua storia, offrendo al Lettore la sua visione e valutazione dei lucidi fatti che mito e leggenda non furono e non sono. L’immenso dramma che 150 anni fa ebbe per teatro tutta l’Italia e il Nord America può e deve a buon diritto collocarsi tra i grandi fenomeni che gli studiosi non finiranno mai di esplorare nella miniera inesauribile della Verità storica. “Né si deve dimenticare – evidenzia Luraghi – che nessun fatto è storico prescindendo dalla mente che come tale criticamente lo pensa; e poiché inesauribile è il pensiero critico, inesauste sono le prospettive insite in ogni problema: e l’idea che si possa mai giungere ad una storia definitiva di un qualunque fatto è da respingersi come illusoria”. L’avventura dello storico è straordinaria perché rivive attraverso la ricerca sul campo “tutta l’affascinante vicenda in perenne contatto con quegli uomini del passato, ridestati come per magia”. È stato fatto per il Risorgimento italiano? Quella che gli Americani chiamano “la storia dietro la storia”, è un’ottima chiave di lettura e di ricerca della verità anche sulla delicata questione dei rapporti tra gli Stati italiani pre-unitari (dopo il 17 Marzo 1861) e gli Stati Uniti d’America. Tema non ancora esaminato in gran dettaglio e ben lungi dal ritenersi sviluppato in maniera soddisfacente. La storia è andata com’è andata e non come sarebbe potuta andare. Non c’interessa la retorica del vano fantasticare. Piuttosto di comprendere quanto è accaduto in Italia e negli Usa. Tsunami d’inchiostro scorrono nelle tipografie senza aver neppure sfiorato l’argomento mentre il chatting elettronico e mediatico sull’Expo2015 Alimentare d’Italia (ahinoi ancora tutto istituzionale nonostante le coccarde, i fiocchi, le gite presidenziali e il Tricolore su giacche, piazze e balcony pericolanti) assuma proporzioni bibliche se non apocalittiche. Eppure nel 2011, per Legge dello Stato, i politici italiani consapevolmente “esautorarono” la Festa della Vittoria del 4 Novembre 1911, della Quarta Guerra d’Indipendenza che completò l’Unità d’Italia consacrando lo spirito nazionale, in nome della netta polarizzazione delle letture di questa pagina decisiva della biografia d’Italia. Qualcuno provi a spiegarlo al Milite Ignoto caduto nella Grande Guerra, che evidentemente ancora non era nato il 17 Marzo 1861. L’apologia enfatica dell’Accademia ufficiale e la detrazione più radicata delle galassie di elaborazione culturale indipendenti, non sono riuscite a risparmiare agli Italiani la creazione di quest’altro mito. Che se tale non fosse, convincerebbe chi di dovere a consacrare definitivamente il 17 Marzo come la prima Festa nazionale di ogni anno (dopo la “prima” festeggiata nel 2011) seguita dalle altre del 25 Aprile, 2 Giugno e 4 Novembre. Anch’esse Feste nazionali indispensabili per la piena consapevolezza del nostro essere italiani in Europa e nel mondo. Perché a pagare le conseguenze di quella polarizzazione furono gli ambiti scientifici e giovanili, anche se a trionfare fu certamente l’agone mediatico dove il pedigree accademico scarseggia. Tra i due fronti così diversi per volume di fuoco, incontriamo la Verità del fatto storico che certa retorica patriottarda ha già revisionato ad abundantiam. Nessuno dei presidenti in carica negli Usa dai tempi di Lincoln ha più omesso di emettere il Proclama annuale di Ringraziamento. Barack Obama giurò sulla voluminosa Bibbia di Lincoln nel Gennaio 2009. Quella Bibbia era stata acquistata espressamente per la cerimonia di giuramento del 4 Marzo 1861. Nel suo Address (Discorso Presidenziale di Inaugurazione) dopo il giuramento, il Presidente Obama ricorda che i Patrioti americani del 1776 “non combatterono per rimpiazzare la tirannia di un re, o i privilegi di pochi senza regole. Ci consegnarono una Repubblica, un governo, del popolo, che viene dal popolo e agisce per il popolo”. Un pensiero che riprende chiaramente il celebre passaggio del famoso Gettysburg Address, uno dei discorsi più conosciuti del Presidente repubblicano unionista Lincoln che abolì la schiavitù, pronunciato il 19 Novembre 1863 mentre infuriava la Guerra Civile. “Oggi continuiamo un viaggio che non avrà mai fine – dichiara Obama – la storia ci dice che la Libertà ci viene da Dio, ma che tocca agli uomini sulla terra difenderla e metterla al sicuro. Ciò che unisce la nostra Nazione non è il colore della nostra pelle o l’origine dei nostri nomi, ma che tutti gli uomini sono creati uguali ed hanno diritti inalienabili. La prosperità della nostra Nazione si deve fondare sul lavoro di una classe media forte. Gli Stati Uniti hanno obblighi verso il resto del mondo e sosterranno sempre la democrazia, dall’Asia, all’Africa, dalle Americhe al Medio Oriente. Sosterranno i diritti delle persone più umili, la libertà. Fratelli e sorelle gay devono avere gli stessi diritti. Un decennio di guerra sta terminando. La ripresa economica è iniziata. È il nostro momento e sapremo sfruttarlo, a patto che lo sfrutteremo insieme. Non possiamo fare errori di principio, non possiamo fare dibattiti senza fine. Dobbiamo agire e andare avanti sul percorso di una reale ricerca della felicità. Anche se sappiamo che le nostre decisioni sono spesso imperfette. Noi crediamo che la prosperità dell’America – osserva Obama – deve essere fondata su una classe media che prospera. Ma il nostro Paese non può avere successo quando un gruppo sempre più ristretto sta molto bene ed un gruppo sempre maggiore ce la fa a stento. Perché noi sappiamo che l’America cresce quando ogni persona può trovare indipendenza ed orgoglio nel proprio lavoro. Dobbiamo fare le scelte difficili per ridurre i costi della sanità e la dimensione del nostro deficit. Rifiutiamo però l’idea che si debba scegliere tra prendersi cura della generazione che ha costruito il Paese e gli investimenti per la generazione che costruirà il futuro”, dichiara il Presidente Obama, sottolineando che “alcuni programmi sono inadeguati, per questo bisogna portare nuove idee e tecnologie per ridare slancio al Governo, al codice fiscale, per la riforma della scuola e dare possibilità ai cittadini che hanno capacità di lavorare, imparare e arrivare più in alto”. Ogni frase di Obama è intercalata da uno squillante “We the People of United States” che, come sempre, fa sicuramente breccia nei cuori degli Americani. Un esempio, a parte le contraddizioni valoriali con Lincoln, per i politici italiani europei che non parlano mai di “Noi il Popolo…” e non ringraziano mai Dio Creatore e Padre. Sempre autoreferenziali e narcisi nella difesa dei loro interessi particolari di bottega, i nostri politicanti burocrati italiani europei, che offendono Dio, la persona, la famiglia, la proprietà, la libertà, il lavoro, l’impresa e la stessa democrazia. Sono i peccati originali, politici e culturali che ereditiamo dal nostro Risorgimento italiano incompiuto, violato e sepolto sotto una spessa coltre di polveri ideologiche. La fitta trama dell’apparato mediatico risorgimentale non si lascia bucare tanto facilmente. Ne è convinto lo storico Oscar Sanguinetti, il quale mette in luce le schermaglie tra l’accademia e i “guerriglieri” culturali indipendenti. Quali sono state le conseguenze del 17 Marzo 1861 sulla storia successiva? Che cosa rimane oggi nella memoria pubblica e privata in cui affonda le radici la nostra convivenza nazionale? È buona norma cercare di capire la prudenza degli storici. La storia è analisi, è anamnesi, non è amnesia. Il 17-20 Marzo 1861 si compie in gran fretta lo sforzo plurisecolare di edificazione di un organismo politico ed amministrativo unitario in Italia, sostituendo istituzionalmente la visione civico-religiosa di nazione, fondata sulla cultura cattolica tradizionale dei popoli della Penisola, con i semi laici e massonici delle libertà promesse dalla Rivoluzione francese del 1789. Che da ideale si era tradotta in “res gestae” (istituzioni, stati, eserciti, scienza, riforme del diritto, costume) nel ventennio di Napoleone Bonaparte. Il Secolo dei risorgimenti nasce in Francia ma i fenomeni popolari di resistenza divampano ovunque in tutto il mondo, tant’è che nel periodo fra il 1792 e il 1814 prendono il nome di Insorgenza. L’Italia era già federale da secoli (cf. Petrarca e Cattaneo). La contrapposizione fra l’Italia delle minoranze progressiste, ideologizzate e rivoluzionarie da una parte, e l’Italia del senso comune popolare fondato sulla Religione e la Tradizione dall’altra, fu inevitabile. Idem tra il Paese legale e il Paese reale. Il fatto stesso che ancora oggi dopo 154 anni se ne discute, dimostra la mole di lavoro necessaria sul territorio per completare l’Unità nazionale dei cittadini del Nord, del Centro e del Sud Italia, fondata sull’obiettiva volontà di unire interessi, progetti, valori, ideali comuni in una Italia e in una Europa in piena decadenza economica, etica e demografica, già troppo vecchi in un mondo che cambia altrettanto velocemente e che rischia di fagocitarci. Bisogna cristallizzare le memorie dei nostri Padri della Patria. E bisogna farlo in fretta, magari grazie a Lincoln. Il fatto risorgimentale è più importante del fatto unitario? Pur di attuare il Risorgimento, le forze che lo animarono sarebbero state disponibili anche a soluzioni federali, non unitarie o, al limite, dispotiche pur di spazzare via l’Antico Regime? Agli Italiani non fu imposta la Repubblica Romana del 1849. Fu imposta una nuova cultura nazionale trasmessa dai sardo-piemontesi grazie all’autorità dello Stato, attraverso una mitografia nazionale e letteraria (i romanzi “Pinocchio” di Collodi e “Cuore” di De Amicis) che insegna un nuovo senso comune, nuovi valori in cui credere, nuovi pensieri, nuovi stili di vita anche per il Pater familias e il Maestro elementare oggi così poco considerati! Il capo-famiglia italiano avrebbe dovuto rinunciare alla forza lavoro dei suoi figli maschi offrendoli allo Stato per la lunga leva. Eppure, fin dai tempi di Giotto, San Francesco, San Domenico, Santa Caterina, Petrarca e Dante, l’Italia aveva già conosciuto una svolta antropologica senza precedenti in Europa. Cristallizzata nel Rinascimento e nella Scienza galileiana fondata nel Cristianesimo. Nacque la nuova cultura nazionale italiana forgiata da geni del calibro di Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Galileo Galilei, che avevano scosso il pensiero occidentale influenzando Cartesio, la modernità umanistica e razionalistica. Grandi scienziati italiani furono e sono esponenti della Religione e della Chiesa Cattolica. La cultura laica e individualistica francese enfatizzò con la Rivoluzione del 1789 (altro flop fu la mancata festa del Bicentenario, vissuta a Parigi e testimoniata direttamente dal sottoscritto, poche settimane prima del crollo del Muro di Berlino!) la cultura delle libertà come valori assoluti e non come condizioni, allo scopo di annientare l’influsso del Cristianesimo sulla cultura europea e sugli statuti dei popoli, Italia compresa. Per rimuovere Regni, Tradizioni e ogni altra identità nazionale pre-unitaria, per ridurre all’emarginazione ed all’insignificanza il fatto religioso e prodigioso del Divino nella vita pratica dei sudditi non ancora cittadini. Nacque così il secolarismo che continua a inquinare fasce sempre più ampie della società, dell’economia, della tecnologia, della scienza e delle culture dei popoli europei sempre a rischio di auto-annientamento per la Balcanizzazione forzata (anche in Ucraina?) in nome degli interessi dei Warlords e della creazione di stati etnicamente “puliti” secondo l’ingegnoso sistema escogitato dalle Nazioni Unite e dai poteri più o meno oscuri che condizionano le menti libere. Queste sono le basi etiche dell’Unità d’Italia e d’Europa? La smania di novità (“rerum novarum cupido”, la definisce Papa Leone XIII) è cultura della modernità che ha sostenuto, secondo alcuni storici, la decadenza civile dell’Italia fin dal Medioevo, annichilendo il prezioso tesoro classico di costumi, esperienze, pratica religiosa, buon senso e famiglia italiani, accumulato nei secoli da generazioni di Patres nostri antenati, colti ed analfabeti ma già Italiani. Tutto fu dilapidato? I più liberi, gaudenti e spregiudicati che sostituirono le vecchie aristocrazie con altre oligarchie, continuarono a spargere veleno e i loro emuli oggi non possono festeggiare più nulla se non la parabola del loro fallimento e il prologo di una nuova tragedia internazionale nel Mediterraneo e in Europa (Siria, Giordania, Israele, Ucraina, Russia, Balcani). Il modo di pensare sempre più secolarizzato, naturalistico, darwiniano, cinico, materialistico, moralmente superficiale, ambiguo ed ambizioso del giovane nipote Tancredi Falconieri che magistralmente Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) contrappone nel suo romanzo Il Gattopardo, alla mentalità tradizionale del principe Fabrizio Salina, è l’Italia burocratica del 17 Marzo 1861 e l’Europa dell’apocalittico Leviatano AD 2015. All’Italia dei burocrati si oppose strenuamente la fedelissima fortezza di Civitella del Tronto resistendo, non invano, all’invasore. Se solo Steven Spielberg di Lincoln sapesse! Come oggi l’Italia reale dei cittadini (non sudditi) resiste ai venti di guerra di chi nelle segrete stanze di oscure Cancellerie ha già deciso una nuova catastrofe mondiale in nome dell’umanitarismo e della credibilità di trilioni di dollari-spazzatura. Nell’Ottocento fu la “nuova” Italia sabauda a creare ed alimentare la Questione Meridionale che porterà alla crisi dello stato liberale, delle dottrine politiche, della scienza e del foro, fino alla definitiva morte della Patria nel fascismo, la “peste bruna” del XX Secolo. L’Italia laicista e incompiuta che costringerà la Chiesa (espulsa da canoniche, conventi, corti, università, tribunali, ospedali e società) a clericalizzarsi, ad arroccarsi in autodifese impossibili, pur consapevoli che tutto il mondo è paese. Una Chiesa che seppe resistere senza abdicare al suo alto magistero evangelico, non solo tra i ceti più umili, annunciando il Vangelo grazie ai cristiani laici italiani ed alle numerose fraternità francescane e domenicane che difesero la cristianità in mezzo alla tempesta rigida ed aggressiva del laicismo massonico pubblico, la nuova “religione civile”. La novità assoluta del 17 Marzo che molti dimenticano, è l’affermazione dello Stato moderno, un unico organismo amministrativo e politico che in Italia si espande per la prima volta in tutta la società raggiunta dalla conquista militare. Una società lontana anni luce dall’inarrestabile progresso americano di quegli anni. La leva obbligatoria è il primo contatto dei giovani con l’autorità dello Stato che assume il ruolo da protagonista assoluto nella vita degli Italiani. Anche il mondo della scienza apparentemente ci guadagna. Lo Stato non è più solo un contenitore di difesa e regolazione della vita pubblica e privata, ma diventa l’Architetto di ogni italiano. Nascono le grandi Società scientifiche alle dirette dipendenze dello Stato. Muta però l’ethos civile. Per la prima volta i cenacoli letterali ed esoterici del Rinascimento, le sette religiose del Seicento e le logge massoniche del Settecento e dell’Ottocento, sono costretti a cedere la missione etica e maieutica all’organo politico supremo, al Re Padre della Patria. Che nella visione idealistica del liberalismo italiano (cf. l’hegeliano teatino Bertrando Spaventa, 1817-1883) diventa il principale artefice del cambiamento sociale, la più potente leva del progetto unitario concepito non dalle masse (altrimenti sarebbe Stato federale!) ma da minoranze “illuminate” per instaurare un nuovo ordine sociale secolare, cosmopolitico, ugualitario e plebiscitario quanto basta, a misura di italiano borghese e colto. Pronto cioè per la carneficina industriale della Grande Guerra. Il 17-20 Marzo 1861 alla Nazione italiana plurisecolare fondata su ben altre possenti colonne portanti etiche e culturali che oggi incredibilmente, senza la comicità di alcuni geni, facciamo fatica a ricordare e valorizzare, fu inferto il colpo ferale per aprire la via non alla vittoria sull’analfabetismo ma allo stato pedagogo fascista ed all’ingresso dell’ideologia internazionalista, comunista prima e capital-consumistica poi, nella politica italiana europea. Fu vera gloria quell’indipendenza e quell’unità attuata a prezzo di non poche rinunce, compromessi, sacrifici, problemi, questioni, delazioni, tradimenti, guerre e vendette? Quella “Italia dei notabili” fra il 17 Marzo 1861 e il 4 Novembre 1918, oltre a smentire la “leggenda rosa” risorgimentale, presenta al mondo un Paese diviso su tutto, dove le libertà individuali appartengono a pochi eletti ed elettori (che poi sono e saranno sempre gli stessi!) di quel ceto borghese laico e liberale dominato dalla figura del Re. L’Italia del 17 Marzo 1861 è omologata a una morale scettica e relativistica ispirata ai dettami delle massonerie europee. È un Paese-Stato che, sconfitto il Papato, discrimina i preti, i frati e i laici cristiani in ogni ambito della vita sociale, chiudendo chiese, monasteri e conventi. Come ultimi della classe degli stati nazionali, bisognava recuperare il tempo perduto. L’Italia assume subito, grazie a Cavour fin dal 1855, un ruolo attivo ed aggressivo nelle relazioni internazionali. “Morire per Sebastopoli” fu il primo dei comandamenti massonici dominanti. L’Italia, ahinoi, ebbe l’ardire di diventare nazione anche grazie alla partecipazione alla Guerra di Crimea (1854-1856). Cavour volle a tutti i costi inviare un contingente sabaudo per sedersi al tavolo della pace e porre la Questione Italiana. Quindicimila uomini guidati dal generale Alfonso Lamarmora si unirono alle truppe francesi, britanniche e turche contro la Russia per ottenere un ruolo nelle trattative del Marzo 1856 a Parigi. Dove Napoleone III concesse ai Piemontesi un accordo supplementare nonostante le proteste cattoliche austriache. Il piccolo regno dei Savoia ne uscì con le ossa rotte! La spedizione in Russia incredibilmente aumentò i debiti del Re che, per quella partecipazione internazionale ricordata nel dipinto di Induno sulla battaglia della Cernaia, pose le basi del patto segreto di Plombières con la Francia e della Seconda Guerra di Indipendenza. La Crimea è dunque parte della nostra storia nazionale europea, come si legge nella biografia di Napoleone III (Salerno editore 2010) scritta da Eugenio Di Rienzo che spiega anche i motivi per cui Francia e Gran Bretagna decisero di affiancare la Turchia contro la Russia. Il pretesto era la rivalità sul controllo dei luoghi cristiani nell’Impero Ottomano, ma la vera ragione era di porre un limite alle ambizioni zariste, attraverso il controllo dello Stretto dei Dardanelli sul Mediterraneo. La Guerra di Crimea fu una delle più sanguinose dell’Ottocento. Diede vita a una letteratura mitologica che arriva ai nostri giorni con un solenne squillante monito. Molti non hanno mai visto una delle due versioni della Carica dei Seicento (nel 1936 con Erroll Flynn e nel 1968 con David Hammings), celebri pellicole cinematografiche che raccontano in maniera romanzata il disastro della Battaglia di Balaclava del 25 Ottobre 1854. Quando per un ordine male interpretato, 673 cavalieri britannici si scagliarono contro le linee russe forti di ventimila soldati. Fu un massacro simbolo dell’ottusità e della retorica militare, cantato dal poeta Tennyson. Un altro simbolo del coraggio britannico, sempre relativo alla giornata del 25 Ottobre, è la famosa “sottile linea rossa”, celebre espressione proverbiale che fu coniata da un giornalista del Times per indicare le due file di fanti messi ad attendere la carica dei cavalieri russi, sicuri di sfondare verso Balaclava. I pochi dragoni britannici attesero che i Russi arrivassero a cinquanta metri prima di far fuoco. Un atto temerario che fu premiato dalla buona sorte. Se per l’Italia la Guerra di Crimea rappresentò un passo decisivo verso l’unità nazionale, per la Francia di Napoleone III fu una notevole affermazione internazionale, per la Gran Bretagna fu un successo parziale e la nascita di una nuova organizzazione tra cui l’introduzione degli ospedali da campo secondo i metodi voluti da Florence Nightingale, per la Russia fu la sconfitta e la presa di coscienza dei propri limiti. Lev Tolstoj, ufficiale ventiseienne testimone del disastro, nei tre racconti di Sebastopoli avvia una critica radicale che suona come uno schiaffo per una grande nazione che all’epoca si credeva imbattibile. Allora, racconta Ettore Cinnella, storico dell’Università di Pisa, autore del saggio “1917. La Russia verso l’abisso” (Della Porta editori) con una dolorosa presa di coscienza partì la riforma dell’esercito, la riforma sociale che diede la libertà ai contadini e si avviò la costruzione della rete ferroviaria. La penisola di Crimea, strappata definitivamente dai Russi all’Impero ottomano nel 1783, per la sua felice posizione geografica e per la complessa composizione demografica di origine tatara, ha sempre avuto un ruolo cruciale nella Storia della Russia zarista e dell’Unione Sovietica. Ettore Cinnella ricorda che a Sebastopoli nel Novembre 1905 nacque il primo soviet congiunto di marinai e operai (“1905. La vera rivoluzione russa”, Della Porta editori, 2008). E fu in Crimea che nel 1920 il generale Petr Nikolaevic Vrangel, comandante cristiano delle Armate Bianche, oppose l’ultima resistenza all’esercito comunista bolscevico rosso. La Crimea venne donata dalla Federazione russa all’Ucraina nel 1954, in occasione del tricentenario dell’annessione dell’Ucraina alla Russia. Fu un fatto formale perché l’Unione Sovietica, pur essendo una federazione, era uno Stato burocratico fortemente centralizzato, ma anche un omaggio fatto alla propria terra dal leader ucraino Nikita Kruscev, l’artefice insieme al Presidente americano John F. Kennedy della Pace sulla Terra. Perché si è sempre in due a volere la pace o la guerra! La popolazione della ridente penisola della Crimea porta in dote non solo le ferite della Seconda Guerra Mondiale. La Battaglia di Crimea tra le forze naziste e sovietiche si svolse tra l’autunno del 1941 e l’estate del 1942. La tragedia che ancora oggi lacera quella regione fu la deportazione verso l’Asia centrale, a conflitto finito, di duecentomila tatari accusati di aver collaborato con i nazisti. I tatari di Crimea, autorizzati a rientrare in patria da Kruscev, paragonano quell’episodio al genocidio armeno, poiché morì quasi la metà dei deportati. In Italia e in Europa si parla poco di questo dramma nelle scuole, nella politica e nei cenacoli culturali, mentre i riflettori non si sono mai spenti sulla conferenza di Yalta, tra i vincitori (70 anni fa) della Seconda Guerra Mondiale contro Hitler, Mussolini e Tojo. Infatti Roosevelt, Churchill e Stalin, dettano ancora legge sull’Europa mentre alcuni in Polonia e Ucraina tentano invano di riscrivere la Storia contro la Santa Russia! Il dittatore georgiano amava le coste della Crimea, meta della nomenklatura comunista internazionale. Palmiro Togliatti morì a Yalta il 21 Agosto 1964. Alla Crimea è legata anche una figura del socialismo riformista italiano, la compagna di Filippo Turati, Anna Kuliscioff, nata nel 1855 a Simferopoli, il capoluogo amministrativo della Crimea che il 16 Marzo 2015 ha proclamato il suo futuro di libertà, con legittime elezioni democratiche, ritornando nella Patria russa. Nell’Italia dell’Ottocento, Destra e Sinistra storiche dovranno vedersela con le opposizioni reali al governo del Paese: cattolici, repubblicani e socialisti contesteranno il sistema con ogni mezzo, non solo all’interno del Parlamento nazionale ma come “anti-Stato” alla consorteria laica al vertice del Paese. Il divario tra Nord e Sud Italia cresce ma non degenera in un conflitto stile Secessione americana. Per un sacco di buone ragioni. L’inutile strage (Benedetto XV, 1914-1922) della Prima Guerra Mondiale (1914-18) fu per gli Italiani l’evento clou dell’Unità nazionale. Per l’Italia fu la Quarta Guerra d’Indipendenza, ben più efficace di tante bande e fanfare propagandistiche dei miti risorgimentali, liberali e festaioli nella retorica patriottarda. La Grande Guerra per la Vittoria del 4 Novembre 1918 riuscì laddove avevano fallito i politici, amalgamando fra loro i Comuni d’Italia che la storia aveva forgiato come tante Legnano. Ma a che prezzo! Nella comune disgrazia, nel medesimo dolore, nel lutto, tra le trincee fangose e putride, tra i gas asfissianti del nemico, sui monti, tra le valli e nei fiumi, tra scariche di mitraglia nell’assalto all’arma bianca, il 4 Novembre nasce la Nazione Italiana moderna. Un titolo da poter vantare fra le altre potenze mondiali. Quello che la consorteria laica del Re non era riuscita a realizzare pacificamente ma che una certa impietosa casta retorica militare poté soddisfare grazie all’aiuto dell’industria militare pesante. Oggi diciamo giustamente che ne è valsa la pena! I nostri Caduti che onoriamo nel Tricolore il 17 Marzo, il 25 Aprile, il 2 Giugno e il 4 Novembre, sono i nostri Patres dell’Italia unita di oggi che inorridiscono alla sola idea di distruggere e/o trasformare il Senato della Repubblica in un nuovo euro-pollaio al servizio dei Signori della guerra. Guai a noi se dimentichiamo la Lezione della Storia! Che sia di monito a tutti quei popoli che vogliono giustamente conquistare la Libertà e la Democrazia. Da soli. Noi Italiani non abbiamo mai goduto di una “no fly zone” né di una risoluzione dell’Onu né di un bombardamento preventivo dell’obsoleta Nato. Non abbiamo mai gioito o sparato fuochi d’artificio dopo aver perso battaglie e guerre! Certo che ne è valsa la pena all’epoca, prima dell’avvento delle armi termonucleari. L’Unità d’Italia non si tocca, neppure nel contesto euro-mediterraneo. Il suolo patrio è sacro e va difeso da qualunque invasione per mare, per cielo, per spirito e per terra. Ma l’Unità d’Italia non fu figlia di una risoluzione sovranazionale né di un disegno opaco che avrebbe dovuto magicamente concludersi nella soluzione di problemi ancora oggi aperti dopo 154 anni e stranamente irrisolti. Se quell’Unità del 17 Marzo fosse stata largamente condivisa e partecipata da tutti gli Italiani, come lo fu per gli Americani 150 anni fa, avrebbe potuto benissimo condurci per primi sulla Luna, su Venere, su Marte e su Giove, molto prima degli States e della Russia. Ma così non è stato e mai sarà. I romanzi di J. Verne rimangono sulla carta per gli Italiani che rischiano di affogare in un casco d’acqua! Dovevamo dedicarci alle guerre coloniali per tenere il passo. L’analfabetismo completò l’opera e impedì a quell’Unità di schiudere orizzonti sconfinati di progresso e opportunità uniche, reali e improcrastinabili per il Belpaese. Iniziò la fuga dei cervelli verso altre Nazioni libere come l’America (il grande Meucci, l’inventore del telefono!) e si aggravarono le condizioni del Sud Italia depredato e umiliato. Iniziarono le politiche dell’assistenzialismo che perdurano nonostante i risibili placebo somministrati dal governo Renzusconi al paziente ormai moribondo. I piatti della bilancia costi-benefici di quell’Unità sono l’altro tabù che, unitamente alle stragi fasciste nei Balcani, per decenni ha costretto storici, sociologi e insegnanti alla prudente dottrina del silenzio. Guai a mettere in discussione le scelte fatte e i traguardi conquistati; guai a non parlarne se non in retorici termini entusiastici che ancora oggi allontanano la fondazione degli Stati Uniti di Europa con la Russia. Ma se non possiamo ancora disporre in ogni ospedale d’Italia di un dispositivo non invasivo per la prevenzione e cura dei tumori, sappiamo di chi fu la colpa. Di chi ha frenato le scoperte, i brevetti e le ricerche nucleari nel Belpaese! Così nel 1911, nel 1961 e nel 2011 abbiamo celebrato la Retorica. Chi può dire chi saremo e cosa faremo nell’Anno Domini 2061? Il Bicentenario d’Italia verso cui navighiamo a vista, è ancora lontano. La rivoluzione risorgimentale che alcuni oggi vorrebbero importare in Italia e in Europa direttamente dalle coste Nord Africa, magari in versione arabesca tra palme, cammelli, datteri e dune, si affievolì molto presto all’indomani del 17 Marzo 1861. Certamente i dieci anni successivi furono un capolavoro politico-diplomatico. Non mancarono le annesse stragi di civili, di ex ufficiali borbonici, di contadini e di intellettuali. Nel libro “Il Sangue del Sud”, Giordano Bruno Guerri rilegge il Risorgimento e il Brigantaggio come Storia d’Italia. Quella “prima” Unità invece di offrire a tutti gli Italiani un unico scudo istituzionale, per diverse ragioni lascia fuori porzioni non trascurabili di nazione: la Corsica, Nizza, il Ticino svizzero, ampie zone adriatiche e Malta. Fra il 1912 e il 1918 il Regno d’Italia annette vivaci minoranze etniche: Albanesi, Aostani, Greci del Dodecaneso, Tedeschi del Tirolo meridionale, Slavi dell’Istria e delle città adriatiche. Non si riesce a compensare la grande fuga (emigrazione) dei ceti italiani più umili, che aumentata dal 1876. Un flusso mai visto nella Storia d’Italia. Questi nostri Italiani privano il Belpaese del loro lavoro e del loro genio a favore di altri stati e nazioni d’Europa e d’America. Tra coloro che erano diretti in Argentina, il papà del futuro Papa Francesco. È l’Italietta giolittiana che segna il passo verso la più grande tragedia della nostra storia (1915-1945) la grande Guerra Civile Europea dei Trent’Anni. Le famigerate leggi razziali fasciste del 1938. L’Olocausto, la Shoah del popolo ebraico europeo. A quell’Italietta dobbiamo ancora oggi lo stereotipo dell’Italiano all’estero tutto pizza e mandolino, mistico, libertino, mammone, cuoco, sarto, profumiere e latin lover. Lo Stato unitario, opera dell’intelligente capolavoro strategico e politico di Camillo Benso Conte di Cavour, sotto la pressante emergenza della rivolta meridionale e della Questione Romana, doveva fare presto. Fra il 1861 e il 1870 furono bruciate tutte le tappe per varare rapidamente un ordinamento territoriale statuale mai esistito prima e destinato a seguire, nel bene e nel male, il futuro del popolo italiano frammentato politicamente (culturalmente e spiritualmente unito da secoli) e dell’intero continente europeo. Quella felice fretta, per alcuni colpa e superficialità, che caratterizza anche il lavoro dei media odierni dimentichi delle conseguenze dell’operazione risorgimentale nel Sud Italia, ci risparmiò lutti e distruzioni ben peggiori. Con la forza della ricchezza, delle baionette e dei cannoni industriali sperimentati in America, salì al potere una classe burocratica insensibile al grido di dolore del popolo italiano ed alle questioni aperte: romana, cattolica, federale, repubblicana, meridionale. Furono demolite d’ufficio le istituzioni pre-esistenti, gli ordinamenti e gli assetti sociali, gli organismi politici e i codici. Stipendi e rendite furono annullati, esautorando e licenziando moltissime persone, razziando le risorse finanziarie e le industrie del Sud. Antiche città capitali della gloriosa storia plurisecolare d’Italia, furono ridotte a capoluoghi di provincia, a luoghi di villeggiatura. Il popolo italiano fu tradito. Il sistema economico unitario creò forti squilibri fra le varie regioni del Belpaese esposte all’azione delle lobby di famiglie e clientele, alla miseria che costringerà milioni di persone all’espatrio. Nel 1861 l’uniforme ordinamento sabaudo porrà fine alle autonomie territoriali e dei sistemi di autogoverno (antidoto ai fascismi) con l’accentramento totale dell’amministrazione nella figura del Prefetto napoleonico. Gli espropri dei “beni nazionali”, la soppressione degli ordini religiosi, la riorganizzazione dell’apparato ecclesiastico sul principio di rigida separazione fra Stato e Chiesa, la guerra giacobina contro i cristiani, contro la stessa vita spirituale dei fedeli, contro la pratica religiosa pubblica, terranno lontani dall’attività politico-istituzionale un’intera fetta sociale della nascente Nazione italiana. Sessant’anni di lotta contro il Cristianesimo romano, desteranno dal sonno milioni di sudditi e muteranno sensibilmente la poetica risorgimentale e il destino dell’Italia. Scuola e leva obbligatoria diventano i “tabernacoli” civili della nuova religione di Stato, i luoghi dell’uniformazione linguistica, politica e culturale, sotto lo sguardo vigile del Re. Il quadro è quello storico, talmente oggettivo da destare curiosità e meraviglia tra gli Americani. Come si sarebbero comportati i Meridionali d’oltreoceano? Garibaldi e i suoi Mille con chi si sarebbero liberamente alleati, con i Nordisti o con i Sudisti americani? Cinquantaquattro anni fa gli Americani celebrarono il generalissimo e il primo centenario dell’Unità d’Italia, azzardando una risposta ambigua: con il primo Presidente degli Stati Uniti, il massone George Washington. Ma forse la verità non la sapremo mai. Quei “peccati” originali non ci fanno certo rimpiangere gli “ordini” pre-unitari dell’Antico Regime, ma scatenano naturalmente una serie di interrogativi sulle loro mancate nocive conseguenze che il nuovo regime costituzionale di Vittorio Emanuele II seppe scongiurare. La nostra Storia fu diversa da quella del Nord America. In Italia i Savoia misero in campo capillarmente tutto il loro potenziale liberale, accentratore, d’ordine pubblico e di potere che trova i suoi prestigiosi simboli in istituzioni, opere ed eventi altrove sconosciuti: la figura mitica del Carabiniere e del Maestro elementare; la Terza Guerra d’Indipendenza del 1866 contro l’Austria; le varie spedizioni coloniali per scimmiottare le capacità belliche e strategiche delle altre potenze; la Scuola pubblica nel romanzo Cuore e il senso del dovere nel romanzo Pinocchio; negli organi di stampa (dove i Borbone avevano fallito!) sempre più determinanti per plasmare l’opinione di chi sapeva leggere, scrivere ed ascoltare; l’Inno di Mameli. Anche il ruolo del clero fu paradossalmente determinante per evitare una permanente guerra civile disastrosa tra Nord e Sud Italia, addolcendo l’amara pillola dei sudditi cristiani. La guerra tra Stato e Chiesa combattuta nelle alte sfere, si smorza non tanto nelle Guarentigie quanto piuttosto grazie all’azione capillare e diretta di preti, frati e laici cristiani tra le masse disperate in attesa di grazie e miracoli. Nelle parrocchie, nei santuari, nelle chiese, nelle cappelle, nei conventi e monasteri d’Italia superstiti, ardono e risplendono le nuove fiaccole della civiltà cristiana italiana che oggi celebriamo come Nazione. Gli Italiani rinacquero intorno alle figure di santi come il giovane passionista abruzzese San Gabriele dell’Addolorata, venerato nel Santuario di Isola del Gran Sasso sempre in attesa di Papa Francesco. La rivoluzione risorgimentale si smorza. Ogni velleità militare, ogni disagio, ogni rancore, ogni conflitto trova in questi luoghi sacri la sua valvola di sfogo. Ma non di rassegnazione. La Chiesa locale svolge così la sua funzione educatrice quale fattore di coesione e di equilibrio sociale. Vengono smentiti clamorosamente dalla storia gli anticlericali che accusano il Papa di sobillare le masse. A conferma del fatto inequivocabile che gli Italiani pre-esistevano all’Unità del 1861. Come altrimenti la Chiesa avrebbe potuto ammortizzare lo tsunami militare, politico, sociale e costituzionale del nuovo ordinamento sardo-piemontese? Non solo la Chiesa, ma anche clan e famiglie si adoperarono per spegnere sul nascere qualsiasi tentativo di rivoluzione delle masse contro lo Stato sabaudo, giocando poi un ruolo non secondario all’indomani dell’8 Settembre 1943. Quando lo Stato venne meno al suo dovere e si ritirò improvvisamente abbandonando gli Italiani che misero a nudo il meglio della Costituzione materiale incarnata ben prima del 1861. In America quelle nostre Questioni avrebbero probabilmente fatto saltare l’intero continente, facendo da detonatore a una guerra civile ben più sanguinosa di quella effettivamente combattuta fino al 12 Aprile 1865. In Italia, invece, incredibilmente quelle Questioni tennero unita una Nazione durante la tragedia della guerra civile 1943-45, dell’azione partigiana contro l’invasore e dell’indiscriminata guerriglia internazionalista comunista anti-italiana ed anti-nazionale. Queste sono le realtà della Storia d’Italia. Fatti che gli Usa non hanno mai conosciuto né prima né dopo (solo nei film fantapolitici stile Red Dawn e Revolution) la loro prima Guerra Civile. “In Italia questa trama plurisecolare di istituzioni e culture associate – osserva lo storico Oscar Sanguinetti – misconosciute se non schiacciate dall’ordine postunitario, insieme a questa assunzione di responsabilità per senso dell’onore e per amore del bene comune, garantiscono dopo eventi catastrofici la tenuta e la ripresa dell’organismo nazionale di fronte al disastro” e della sovrastruttura istituzionale, ponendo le basi alla riforma costituzionale repubblicana. Le antiche e tenaci strutture familistiche e religiose del popolo italiano, fanno la differenza tra l’ordine e il caos: pur contestando politicamente il regime, salveranno sempre lo Stato unitario. Dunque, ne è valsa la pena grazie a Cavour. L’Unità politica, l’unica allora possibile, è stata necessaria e feconda per l’Italia. Altrimenti saremmo stati spazzati via dalla storia e dalle vigorose pressioni secolarizzatrici e omologanti del laicismo massonico. Che oggi minacciano l’Europa sempre meno cristiana e sempre più preda degli oscuri poteri dei Signori della guerra (Warlords). È un fatto storico: l’Unità d’Italia non poteva avvenire diversamente, nel senso che non poteva essere più rinviata per l’ingresso nel concerto degli Stati moderni. Il dato storico è ciò che conta. Non ha alcun senso contestarlo se non per attirare attenzione e “audience”, immaginando scenari cinematografici fantastici di realtà alternative stile “Wild West” (anche se la lotta al brigantaggio trasformò il Meridione d’Italia in un Far West ancora sconosciuto al grande cinema!) di uno Stato federale italiano ottocentesco controllato da geniali agenti speciali al servizio del Presidente! La Storia come la Natura, aborre il vuoto, non procede per “remake”. Duole riaffermalo con forza, convinzione e determinazione ma bisogna riconoscere che nel XIX Secolo l’Italia non poteva nascere diversamente: senza la conquista militare da parte del “meno italiano” degli Stati; senza imporre il suo Re Padre della Patria e il suo ordinamento istituzionale; senza annientare quel che c’era prima e senza litigare con il Papato e la Chiesa. Ferite oggi rimarginate (cf. discorso del Cardinale Bagnasco). Quel che conta è che l’Italia istituzionale (cornice) nacque il 17 Marzo 1861, tre giorni prima della resa della fortezza borbonica di Civitella del Tronto. Ma la Nazione (il quadro) subì “un processo di alterazione dei suoi paradigmi etici che ne ha intaccato profondamente la salute morale e civile”. Quella radiazione ionizzante del 1861 cercò di modificarne il Dna, il nucleo vitale, ma fu il popolo italiano, in Patria ed all’estero, a cambiare le istituzioni. Non viceversa. Questa è la nostra ricchezza che nessun’altra storia potrà mai emulare. Gli Italiani, le masse popolari, non accettarono mai il compromesso al ribasso, mai si piegarono ai principi anti-cristiani e ambigui della modernità, potenzialmente dirompenti e che oggi minano alle fondamenta non solo l’Italia e l’Europa ma il mondo intero. Si possono indossare tanti “abiti” politici e costituzionali, nella divisione dei poteri e nella vita sociale, ma non si può tradire l’Italianità così come non si può distruggere il Senato della Repubblica Italiana in nome della peggiore legge elettorale di sempre. Politologi e sociologi seri, ne sono convinti. Chi li ascolta? La Costituzione materiale prevale sempre su quella formale con il solo limite del buonsenso del Padre di famiglia. Anche oggi siamo in piena emergenza democratica e politica: l’inverno demografico e produttivo affligge l’Italia cristiana del terzo millennio. La frammentazione, la devitalizzazione, la senescenza precoce, la perdita d’identità e di cittadinanza attiva, caratterizzano la nuova “agonia” dell’Italia. Senza gli Stati Uniti di Europa con la Russia, siamo condannati all’estinzione. Ci risiamo. La Storia vuole metterci di nuovo alla prova. I politici ignorano i fatti sotto i loro occhi prima e dopo il 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, fantasticando su scenari impossibili, tra brindisi, Expo2015, cene e fuochi d’artificio inverosimili, mentre l’universo mondo e la natura sembrano annunciare un nuovo tragico: basta! Altro che Rivoluzione dei gelsomini! Chissà se si apriranno davvero i nostri occhi sulla realtà vera presente. Non si possono ignorare le 101 emergenze internazionali che sono di ordine politico, antropologico e naturale. L’Uomo ha già dichiarato guerra al pianeta Terra. E quelle emergenze sembrano alimentarsi delle sofferenze diffuse e quasi empaticamente sincronizzate, che mettono a rischio non soltanto il sistema di protezione civile planetaria, ma anche gli ordinamenti democratici. Quante guerre umanitarie “per la Libertà e la Democrazia” possiamo sostenere? Quante emergenze naturali possiamo alleviare? Quante catastrofi sismiche, vulcaniche e nucleari possiamo evitare? Siamo liberi o schiavi? Mai nella sua storia, l’Italia unita si scopre così determinante per i futuri assetti democratici sulla Terra, nel Mediterraneo e in Europa, stavolta a fianco della Santa Madre Russia che il 9 Maggio 2015 in Europa celebra i 70 anni della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica contro il nazifascismo. Il raggiungimento di un così alto e nobile “magistero” europeo, è costato molto sangue fin dall’antichità. Né possiamo nè dobbiamo permettere che altrove, magari a pochi chilometri dall’Italia, scoppi la pentola a pressione delle masse disperate d’Africa e d’Europa prese in giro, a suon di promesse propagandistiche miliardarie di assegni inesistenti per progetti inconsistenti, da irriconoscibili Usa, Nato e Unione Europea di disperati burocrati in cerca d’autore. L’Unità nazionale italiana si va perfezionando non nelle fallimentari missioni all’estero (i cui responsabili sono chiamati a renderne conto al Parlamento!) ma all’interno degli Stati Uniti di Europea con la Russia e del concerto internazionale (ONU) delle supreme Leggi naturali. Abbiamo il dovere, come Italiani, di contaminare le Istituzioni e gli strumenti operativi politici, culturali e militari su base democratica (Nuova Nato alle dirette dipendenze del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) con questi nostri valori e diritti autenticamente risorgimentali e, in senso lato, cristiani. Occorre farlo nella misura in cui sapremo fare dell’Italia il principale attore ed artefice del grande Progetto di Giuseppe Mazzini: gli Stati Uniti d’Europa. Non un mito, ma un Progetto politico vero, che gli attuali burocrati e Warlords cercano miseramente di affossare alimentando la “russiafobia”! Non siamo schiavi delle Sette Sorelle né di una Europa pagana, neutra, esotica, ideologica, relativistica e nichilista, predisposta al Gran Califfato dei tagliagole stipendiati. La Nato è un dispositivo di difesa e non di attacco e conquista. Pena, la sua delegittimazione. L’ONU si assuma le sue responsabilità. L’Italia può oggi impedire la Terza Guerra Mondiale e la fuga di milioni di profughi da tutte le zone del pianeta controllate da regimi non democratici. L’Italia ha il dovere di contrastare con ogni mezzo questi pericoli che in passato, senza quell’Unità, ci avrebbero sommersi e distrutti. Eppure sembriamo ancora divisi e vulnerabili. Cristianesimo, Romanità, Germanesimo, Ebraismo, sono le nostre colonne portanti insieme ai Popoli slavi. Anche in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America (un po’ meno in Francia) lo hanno capito: il travaglio della post-modernità è indecifrabile quando la Storia si compie. È l’identità nazionale, non il nazionalismo patologico, che salva. Guai a noi se perderemo la nostra identità in nome di ambigue limitazioni di sovranità ad uso e consumo affaristico e commerciale di oscuri poteri non soggetti al controllo democratico del Popolo sovrano degli Stati Uniti di Europa. L’identità previene lacerazioni, guerre civili, dittature, ideologie e la fine della civiltà. L’Unità d’Italia del 1861-1918 che festeggiamo il 17 Marzo, 25 Aprile, 2 Giugno e 4 Novembre di ogni anno, poggia sulle fondamenta solide dell’identità del popolo italiano, sulla sua storia plurisecolare cristiana ed ebraica. Non sulle sovrastrutture burocratiche, consumistiche e imperiali che non sono affatto democratiche. L’Europa degli Popoli ne sia cosciente e consapevole perché non possiamo, non vogliamo e non dobbiamo abdicare alla nostra natura di Europei insieme alla Russia. L’ONU, la Nato e l’Unione Europea, sono strumenti di civiltà e di governo mondiale per la Pace. Non sono dogmi dell’unanimità né i beni supremi né la panacea di tutti i mali. Sono un mezzo per esaltare i popoli liberi, le loro identità e culture, per un ordinamento costituzionale armonico e unitario che non può più ignorare l’Italia, la sua storia, la sua identità, il suo sacrificio, il suo ordinamento e i suoi caduti per la libertà. Per conseguire il bene comune, nel rispetto dei diritti e dei doveri della Persona, abbiamo rinunciato ai baciamano ed agli inchini di comodo ai re e dittatori della storia. Questo dimostra, al di sopra di ogni ragionevole dubbio o sospetto, la nostra capacità di discernere gli eventi, di non seguirne più la corrente infausta e, soprattutto, di saper risorgere dalle macerie sempre, grazie a quelle radici plurisecolari italiane, uniche e vitali. Quale tesoro per l’ONU, la Nato, l’Europa con la Russia e i Popoli liberi del mondo. I “complessi” dell’Unità 1861 sono stati superati. Ora spetta all’Europa democratica degli Stati Uniti Federali fare altrettanto per liberarsi delle pesanti zavorre imperiali del nichilismo e del paganesimo. Dunque, correttamente interpretando il pensiero di Abraham
Lincoln, il Presidente repubblicano conservatore innovatore riformista dell’Unione degli Stati Americani, passando per i nostri Cavour e Vladimir Putin, pare non sia il Presidente Barack Hussein Obama che giura sulla Bibbia appartenuta a Lincoln e dichiara di voler espressamente esportare la Democrazia nel mondo rivoluzionando i diritti civili della persona e della famiglia, a poter essere una guida sicura e una garanzia per la pace, l’armonia e la prosperità sulla Terra. Né la novella Hillary Clinton. Gli Americani e gli analisti politici l’hanno capita la morale dell’Address inaugurale del Presidente Barack Hussein Obama solennemente rimarcata in ogni intervento sullo Stato dell’Unione? “Giuro solennemente che adempirò fedelmente all’incarico di Presidente degli Stati Uniti, e preserverò, proteggerò e difenderò, al meglio della mia capacità, la Costituzione degli Stati Uniti”. Nel pronunciare il giuramento, il Presidente Obama manifesta l’apparente forte e determinata volontà di governare gli Americani e il Mondo libero sui valori che furono di Abraham Lincoln. Il Giuramento sulla Bibbia appartenuta a Lincoln e l’Address (“We the People of the United States…”) del Presidente Obama per l’Inauguration Day del suo secondo mandato alla Casa Bianca, il 21 Gennaio 2013, contengono tuttavia una serie di sostanziali contraddizioni valoriali, sotto gli occhi di tutti, che oggi rischiano di precipitare la Terra negli abissi della Terza Guerra Mondiale in nome della pagana “credibilità degli Usa” fondata sul Dollaro e non sulla Persona. Google e Apple, i due colossi mondiali dell’informatica, rimuovendo gli “account” dei liberi cittadini russi di Crimea e di Ucraina, hanno effettuato un pericoloso precedente incostituzionale. Distrutte tutte le libertà fondamentali della Persona, come quelle di esprimere liberamente il proprio pensiero su Internet in piena sostanziale e formale dignità e credibilità personali, cosa resta? Come scrisse Lincoln, “è possibile ingannare tutti qualche volta ed è possibile ingannare qualcuno sempre. Ma non è possibile ingannare tutti sempre”. Statista statunitense di Hodgensville del Kentucky, sedicesimo Presidente degli Stati Uniti d’America, Lincoln fu un avvocato autodidatta, convinto antischiavista, deputato per i Whig dal 1834 al 1842 al parlamento dell’Illinois e poi al Congresso dal 1846 al 1849. Dal 1856 aderì al nuovo Partito Repubblicano oggi in profonda crisi negli States. L’elezione di Lincoln a Presidente nel 1860 provocò una sollevazione degli Stati schiavisti, cui seguì la creazione di una Confederazione indipendente e la Guerra di Secessione. Nel 1863 Lincoln emanò il Proclama di Emancipazione dei neri, che abolì la schiavitù limitatamente agli Stati scissionisti del Sud. Riconfermato Presidente nel 1864, Lincoln l’anno successivo fece approvare al Congresso l’emendamento alla Costituzione che sancì l’abolizione della schiavitù in tutta l’Unione americana. Fu ucciso poco dopo la resa definitiva dei Sudisti. Figlio primogenito di modesti coloni quaccheri, Lincoln ebbe una giovinezza avventurosa: prima mozzo sulle zattere per il trasporto del legname a New Orleans, poi carpentiere, garzone di un negozio nell’Illinois (1831). L’anno dopo partecipò valorosamente, col grado di capitano, alla guerra contro la tribù dei Nativi Americani di Black Hawk. Candidato Whig all’Assemblea legislativa dell’Illinois nel 1832, fu battuto alle elezioni dai Democratici, ma riuscì per la legislatura del 1834. E da quell’anno fino al 1842 Lincoln fu deputato per il Partito Whig, segnalandosi soprattutto per una prima coraggiosa presa di posizione contro lo schiavismo. Dal 1837 esercitò l’Avvocatura. Pur non avendo seguito studi regolari si era preparato da solo per superare gli esami di abilitazione alla pratica forense, ottenendo largo successo professionale e acquistando una posizione dominante nella direzione del suo partito. Che nel 1846 rappresentò al Congresso federale dove assunse posizione contraria alla Guerra inziata dal governo degli Usa contro il Messico. Lincoln presentò nel 1849 un’importante disegno di legge per impedire l’introduzione della schiavitù nei territori messicani annessi all’Unione. Scaduto quell’anno il mandato parlamentare, Lincoln si ritirò a vita privata. La questione della schiavitù, resa improvvisamente acuta nel Paese dalla presentazione, da parte di S.A. Douglas del Kansas-Nebraska Act (1854) che apriva tutto il territorio di Nord-Ovest allo sfruttamento dei neri, provocò il repentino ritorno di Lincoln sulla scena pubblica. Fu il discorso di Peoria del 16 Ottobre 1854, col quale fondò la sua tesi antischiavista sul principio, umanitario e democratico che “i nuovi Stati liberi sono le terre dove possono andare i poveri per migliorare la loro condizione”, a renderlo celebre. Nelle elezioni senatoriali del 1858 Lincoln perse la sfida con Douglas, suo diretto avversario. Ma solo dopo averlo battuto nell’opinione pubblica nazionale con una serie di discorsi che contribuirono in modo decisivo alla crisi politica dei Democratici ed alla affermazione del nuovo grande Partito Repubblicano, del quale divenne dal 1856 l’organizzatore infaticabile. Nella convinzione che la battaglia antischiavista contro gli Stati del Sud potesse essere vinta solo mediante la realizzazione di quel più organico accentrato potere statale che costituiva la base programmatica della nuova formazione politica. Nella National Convention del Partito, riunitosi a Chicago nel maggio 1860, Lincoln fu scelto come candidato alla Presidenza degli Usa. Il risultato favorevole delle elezioni provocò di riflesso, non appena conosciuto, l’insurrezione degli schiavisti, e già un mese prima che Lincoln potesse essere insediato come Presidente degli Usa, il 4 Marzo 1861, il movimento di Secessione del Sud si concludeva con la formazione di una Confederazione indipendente. Neppure l’appello rivolto da Lincoln in spirito di tollerante moderazione nel discorso inaugurale della sua Presidenza al popolo americano del Sud, perché non distruggesse l’Unione, poté impedire lo scoppio della Guerra di Secessione. Nella condotta politica del conflitto, Lincoln mostrò grande abilità. Fu prudente all’inizio, quando attese che il nemico sferrasse il primo colpo, come effettivamente avvenne il 12 Aprile 1861 a Charleston. Per chiamare alle armi il popolo del Nord che solo al principio del 1862 fu impegnato con la parola d’ordine nella lotta antischiavista, allorché Lincoln si accorse che il radicalismo di una siffatta impostazione era la migliore garanzia contro il minacciato riconoscimento della Confederazione del Sud da parte delle potenze europee, e la migliore arma per mettere in crisi il sistema economico del nemico. Il 1º Gennaio 1863 Lincoln emanò il Proclama di Emancipazione della popolazione negra, limitatamente però ai territori controllati dai Confederati. Il provvedimento non si applicò infatti agli Stati schiavisti dell’Unione né alle zone sottratte ai Confederati dalle truppe federali. L’abolizione totale fu sancita solo dal 13.mo Emendamento alla Costituzione degli Usa, votato dal Congresso il 31 Gennaio 1865. Il successo delle operazioni militari confortò la sua politica e la crescente popolarità gli assicurò la vittoria quasi plebiscitaria nelle elezioni presidenziali del 1864, nonostante l’opposizione all’interno del suo proprio partito. Il discorso dell’11 Aprile 1865, in cui all’indomani della resa del Generale Lee, il Presidente americano esaltò l’avvenuto ristabilimento dell’autorità nazionale nel trionfo dei principi di democrazia repubblicana, fu anche il testamento politico di Lincoln. Tre giorni dopo, il 14 Aprile 1865, in un palco del teatro di Washington, il Presidente fu assassinato da G.W. Booth, fanatico partigiano della Secessione. Oggi l’Europa degli Stati Uniti continentali con la Russia (i Warlords se ne facciano un’urgente solenne ragione) sono il nostro Futuro di Pace, il nostro territorio inesplorato, senza il bisogno di cancellare la Storia con altro sangue innocente. Prima che sia troppo tardi. Prima che le vetuste pericolosissime categorie burocratiche e militari della guerra fredda, tanto di moda nel Palazzo della obsoleta Nato, assumano automaticamente il controllo della Questione Europea, tema puramente politico e diplomatico. Prima che il potente meccanismo dei Signori della guerra e del nulla, faccia precipare tutti i popoli della Terra nel più glaciale inferno termonucleare. Lincoln oggi, da autentico conservatore innovatore repubblicano, inviterebbe i suoi connazionali al buonsenso, alla logica, alla fede, ossia a non regalare la vittoria a Obama e Hillary Clinton che amano giustiziare i propri nemici invece di processarli; e gli Europei ad agire decisamente per la Pace e la Prosperità insieme alla Santa Madre Russia cristiana negli Stati Uniti di Europa. Ecco cosa distingue i Conservatori Innovatori Repubblicani dai Democratici. L’Unione.
© Nicola Facciolini
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