A sei anni dalla catastrofe del terremoto, si respira una strana aria di amoroso interesse per la città, che tuttavia appare avvolta in una sorta di inafferrabile senso della perduta “anima aquilana”.
Inafferrabile senso che sembra aleggiare entro il Palazzetto dei Nobili di piazza Santa Margherita, dove gli eredi diretti ed indiretti hanno riunito le opere pittoriche e documentali dei componenti del Gruppo Artisti Aquilani che, a partire da qualche tempo prima dalla liberazione dal nazifascismo, intuì il profondo anelito della totalità della comunità civile di “uscire” – come avvenne – dalle ceneri della guerra.
I loro nomi: Cavalieri, Cencioni, Centi, Nardis, Mancini, Muzi, Iorio, Santoro, forse non dicono molto all’attuale generazione, perché non se ne conosce appieno il coinvolgimento culturale che riuscirono a suscitare in ogni aquilano sì, con le opere pittoriche, ma soprattutto con la realizzazione di strutture di cui ancora oggi – terremoto permettendo – la città fruisce.
Il Castello cinquecentesco – per fare un esempio – sarebbe rimasto carcere, se non vi fossero state le idee e le azioni (a qualunque livello, anche politico) di tanti uomini di cultura, e in particolare del sovrintendente Chierici e di Pio Iorio, che convinsero l’allora Ministro di grazia e giustizia, Palmiro Togliatti, a dare alla città il suo centro culturale a cominciare dal Museo Nazionale d’Abruzzo.
Così Nino Carloni, con il corale apporto degli amministratori del tempo e dei tantissimi “amanti dei quattro sassi dell’Aquila”, per dirla con Mario Lolli, riuscì a creare la “città della musica” che poi nel mondo venne indicata come la “Salisburgo d’Italia”. E ancora. Da quel Gruppo di artisti e di uomini di cultura si giunse al Teatro Stabile di Peppino Giampaola, Luciano Fabiani ed Errico Centofanti, che girò l’Italia e fuori.
Tutte cose, anche spirituali, per la penetrante presenza della Chiesa di Carlo Confalonieri, che non furono mai avulse dalla crescita economica-industriale della città (dalla Società Marconi, all’Italtel, alla Hoescht, fino alla Reiss Romoli ed oltre), il cui sviluppo, negli anni ’90 del secolo scorso, venne “congelato” via via con lo smantellamento del polo elettronico ed il deconsolidamento di tutte le strutture più significative.
Dunque, un decadimento della città, reso ancor più profondo dal sisma del 2009, immediatamente dopo il quale, per essere un avvenimento di eccezionale drammaticità, avrebbe dovuto colpire fortemente l’opinione pubblica, perché si ridestasse, come accadde nel dopoguerra, il sopito senso di appartenenza alla città, nella versione più diretta della cittadinanza.
Non è stato così!
La dolorosa diaspora imposta (e accettata da molti con qualche compiacimento, anche per la loro insospettata resilienza) ha distrutto il sentimento civile che unisce le persone, per cui la città è nota nel mondo, oggi più di ieri, per il grave danno subito, ma non per la “passata cittadinanza” che ormai è bisognosa d’essere riattivata per guardare al futuro dei giovani, quelli rimasti, non già dei “deportati” nelle varie città della riviera o chissà dove.
Di qui la rievocazione del passato aquilano del Palazzetto dei Nobili, che ha colpevolmente escluso totalmente la parte cattolica, per evitare, come si ripromettono i proponenti, risposte frettolose e consolatorie, poiché la città è di fronte all’emersione chiara della necessità di ritrovare e ritrovarsi nell’antica ”anima aquilana” da dare alle giovani generazioni.
Amedeo Esposito
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