La notizia dei 20 genitori di Petilia Policastro (Crotone) denunciati dai carabinieri per non avere mandato i figli a scuola, mi fa tornare alla mente i racconti che a Gioiosa Jonica mi faceva mio padre a proposito dell’istruzione scolastica nella Calabria dei primi anni del Novecento. Famiglie contro la scuola e contro i maestri. Facevano di tutto per allontanare i figli dalla scuola. Piccole braccia da sfruttare, non cervelli da far crescere culturalmente! Li avviavano subito al lavoro. Nei campi, nell’edilizia, nelle botteghe artigiane. Lavori umili e lavori pesanti. Un mestiere – qualsiasi mestiere – valeva più del “pezzo di carta”. Perchè dava qualcosa da mangiare. Poco, ma dava qualcosa di concreto. Lo studio non dava da mangiare, non dava nulla di concreto. Mentalità difficili da cambiare. Chiuse ad ogni ventata di utile progresso. I maestri di scuola erano da molti considerati addirittura dei nemici, perché distoglievano i loro figli dal lavoro.
Un ricordo familiare. Che mi riguarda. Mio padre per poter studiare – cosa che desiderava più di qualsiasi altra – fu costretto ad andare dai carabinieri e denunciare mia nonna. Mi raccontava: ”Ogni giorno, quando ritornavo da scuola, mia madre mi chiedeva: ”Cicciarè, hai imparato a fare la firma?” Rispondevo: ”Ancora no”. E lei: ”Perché impieghi tanto tempo? Sbrigati!” Pensavo che fosse interessata al mio apprendimento scolastico. Ero troppo piccolo ed ingenuo per poter sospettare quale era invece il fine reale di quella domanda che per me stava diventando ossessiva. Così, quando venne il bel giorno che io sul quaderno riuscii a scrivere il mio nome e cognome, orgoglioso tornai a casa e dissi a mia madre: ”So fare la mia firma !” Mi aspettavo i complimenti. Invece… invece la doccia fredda. Mi ordinò: ”Da domani niente più scuola. Sai fare la tua firma? Questo ti basta. Ora bisogna pensare al tuo futuro. Per poter mangiare si deve lavorare. Imparare un mestiere. Da domani mattina vai a fare l’apprendista falegname”. Mio padre non aveva più di otto anni. Cercò di insistere: ”Ma io voglio andare a scuola!”. Protestò. Pianse. Minacciò: ”Vado dai carabinieri, alla mia età la frequenza della scuola è obbligatoria. Lo dice la legge. Lo impone la legge”. Niente. Mia nonna fu irremovibile.
Mio nonno era emigrato in America e quindi tutte le decisioni le prendeva mia nonna. Che era molto rigida. Me la ricordo, me la ricordo troppo bene, quanto era autoritaria anche con noi nipoti! Immagino con i figli. Ma mio padre non si diede per vinto. Dalla minaccia passò ai fatti. Andò veramente dai carabinieri. Bussò alla porta della caserma. Il piantone gli chiese: ”Ragazzino che ti serve?” E lui: ”Voglio parlare con il maresciallo. Sono venuto a denunciare mia madre. Non mi vuole mandare a scuola”. I carabinieri convocarono subito in caserma mia nonna. La invitarono a rispettare i voleri del bambino e a non violare la legge, se non voleva incorrere in guai giudiziari. Lei rispose: ”Gnorsì, signor comandante. Farò come Voi mi ordinate. Ma vi dico che non ho soldi da sprecare per comprare libri, quaderni, penne e matite. Se la sbriga lui, che non vuol capire l’inutilità della scuola. E’ un testardo. Io non posso dargli nulla. Siamo poveri e sono tante le bocche da sfamare con quei pochi soldi che dall’America mi manda mio marito”. Salutò il maresciallo. A mio padre disse: ”Ora facciamo i conti a casa, tu ed io”.
Lo afferrò saldamente per mano per impedirgli, una volta fuori dalla caserma, di scappare e sottrarsi alle prevedibili … conseguenze. Grave mancanza di rispetto. Aveva osato denunciarla e farla convocare dai carabinieri. In paese la gente cosa avrebbe detto? “Mara Rosa ha dovuto subire la scelta del figlio per ordine dei carabinieri! I figli che non rispettano le decisioni delle mamme e vanno dai carabinieri! Gesù, Gesù, ma dove siamo arrivati, di questo passo dove andiamo a finire???”. Le vecchie “commari” di paese che non tolleravano che la parole e l’autorità materna venissero messe in discussione da “ ‘nu cotrareju” (un bambino), certamente avrebbero avuto da dire. Sulla bocca della gente. Che vergogna! Mio padre non mi disse mai quale fu la reazione della madre a casa. L’ho sempre immaginata. Perchè mia nonna usava – e sì che le usava! – certe maniere… E la scopa non la utilizzava solo per pulire il pavimento… Temo che anche in quella circostanza, al chiuso delle quattro mura domestiche… la resa dei conti sia stata abbastanza “pesante”. Mio padre il rischio l’aveva …previsto. Ma ci teneva tanto al risultato finale, cioè poter continuare a studiare, che non gliene importava nulla del “tributo” che avrebbe dovuto pagare alla lesa maestà materna! Pensava: i lividi passano, la cultura resta. Fatto sta che ha potuto continuare a frequentare le scuole elementari, ma a due condizioni. La prima: nessuna aggravio economico per il misero bilancio della famiglia per l’acquisto di libri, quaderni etc. La seconda: il pomeriggio da “Mastru Rocco” per imparare il mestiere di falegname. I compiti? “Quando è possibile farli. Non sono una priorità”, impose mia nonna. Categorica:”Non pensare di sprecare il petrolio per accendere il lume e studiare la sera”.
Tra mille difficoltà mio padre ha vinto la sua personale lotta per la crescita culturale. Debbo dire che ha avuto la fortuna di incontrare un grande Maestro, l’ins. Domenico Cento, che lo apprezzava e che lo aveva aiutato in maniera determinante, fornendogli il necessario per poter andare avanti. “Un Maestro davvero vicino agli alunni, ci seguiva, ci stimolava ad amare la cultura, con la sua grande cultura. Mi prestò il suo libro, che copiai interamente, con grande pazienza”. Mio padre ha ottenuto ottimi risultati, sia a scuola che come falegname. Grande abilità nell’arte dell’intaglio. Ha realizzato camere da letto pregiatissime e prestigiosissime, veri e propri capolavori! Ha conseguito brillantemente il diploma di scuola professionale, con un rimpianto: “Avessi avuto la possibilità di andare all’Università!!!”,mi ripeteva spesso. E’ stato un bravo educatore ed amministratore. E’ stato insegnante di applicazioni tecniche nella Scuola di Avviamento e nella Scuola Media, anche con responsabilità dirigenziali. Non ha mai dimenticato le lezioni ed i buoni esempi del Maestro Cento. E l’immensa gratitudine l’ha concretizzata quando da sindaco di Gioiosa Jonica ha fatto intitolare il nuovo edificio della Scuola Media al “Maestro Domenico Cento”. Mi diceva: ”Un atto doveroso per ricordare un grande uomo di cultura che ha dato a tante generazioni di gioiosani la possibilità di crescere e di affermarsi culturalmente, combattendo l’analfabetismo e l’ostruzionismo della famiglie che erano contro l’istruzione dei figli per partito preso”.
Gioiosa Jonica è stata molto riconoscente anche a mio padre, che ha ricoperto la carica di sindaco per cinque volte ed è stato amministratore ininterrottamente dal 1952 fino al 1986, quando alla vigilia di Natale è stato stroncato da un improvviso malore. Una via del paese porta il suo nome. Alla cerimonia di intitolazione erano presenti i più importanti leader politici calabresi, a partire dall’on. Giacomo Mancini. Nel nuovo millennio dover constatare che ci sono genitori calabresi che vengono denunciati dai carabinieri perché non mandano i figli a scuola fa proprio male. Quello che è avvenuto a Petilia Policastro – che purtroppo non sarebbe un caso isolato – ci deve far riflettere. Far finta di niente non è possibile. Girare la testa dall’altra parte nemmeno. In Calabria ci sono profonde lacerazioni sociali. Ci vuole maggiore attenzione per la scuola. Più cultura significa restringere gli spazi alle forze antisociali. Che prosperano sfruttando l’incultura. E’ questa la triste verità. La politica continua ad essere colpevolmente latitante. Il governo regionale non brilla e quello nazionale non sembra molto preoccupato delle sorti dei calabresi. E non è giusto. E non va bene. La Calabria non può sprofondare nell’indifferenza generale. Le lezioni del Maestro Domenico Cento, la coraggiosa scelta di mio padre sono buoni esempi da ricordare, per andare avanti. Non per ritornare ai primi del Novecento!
Domenico Logozzo
Lascia un commento