È passata da poco la mezzanotte; dopo aver superato la dogana, stanchi ma contenti veniamo accolti all’aeroporto di Tel Aviv dal sorriso raggiante di padre Firas Aridah. Si presenta spiegando il significato del suo nome in arabo, vuol dire “piccolo leone ” e lo si capisce dal passo veloce e dalla determinazione con cui ci propone il programma della visita. Intanto dai finestrini della macchina, che ci porta in territorio palestinese, si apre a noi un paesaggio familiare: intravediamo vegetazione e sagome di rocce illuminate dalla luna che ricordano la nostra Sicilia.
La prima impressione, attribuibile ad una intuizione confusa dal buio, viene confermata in pieno la mattina seguente: colline ornate di ulivi, mandorli, noci e…viti circondati da muri a secco si definiscono meglio ai nostri occhi. Ci sentiamo a casa se non fosse che ci salutano con l’espressione “marhabba”; pur essendo un Paese del Mediterraneo non ci aspettavamo tanta somiglianza. Nel nostro primo viaggio che da Jifna porta a Ramallah cominciano però ad emergere nuovi aspetti.
Le case costruite con pietra locale hanno un’architettura squadrata e molto sobria, svettano a tratti i minareti con le cupole dorate, parte della popolazione indossa abiti tradizionali, intensi odori di spezie invadono l’aria. Al ritorno ci attende in parrocchia una tavola imbandita la signora Malak ha preparato per l’occasione involtini di foglie di vite con riso e carne e il “maclube”, un risotto di pollo e verdure. Alle 16.30 l’inno Ichmnà, che significa incontriamoci, seguito dal Padre nostro dà inizio alle attività del Summer Camp.
I ragazzi divisi per età in quattro gruppi indossano magliette di vari colori, i capi educatori si occupano alternativamente delle varie fasce d’età proponendo giochi, danze, attività manuali. È previsto nei giorni a seguire anche l’affitto a prezzi modici di una vicina piscina annessa ad un locale ricreativo per trascorrervi gran parte della giornata; il mare, distante diverse decine di chilometri, è un lusso per pochi.
La giovane suor Rita, dell’ordine del Santo Rosario, interviene in tutte le necessità, ma il regista è padre Firas – “abuna” in arabo – che con infaticabile energia oltre a svolgere il consueto lavoro per la parrocchia, amministra i beni del patriarcato latino di Gerusalemme e
trascorre parte del tempo in ufficio davanti al computer o al cellulare per mantenere contatti anche interreligiosi così non ci stupiamo se all’improvviso sparisce per una delle tante riunioni nel villaggio o in paesi distanti. Ha instaurato un ottimo rapporto di fiducia con i suoi ragazzi, si diverte e scherza ma soprattutto pianifica e verifica con gli animatori le fasi del campo, riserva momenti alla catechesi e nel frattempo scatta innumerevoli foto da condividere sul web.
Tentiamo di imparare le espressioni arabe di base per comunicare il più possibile, ma le aspirate e le gutturali ci mettono in seria difficoltà, di certo più facile l’inglese che conoscono molto bene; decidiamo di non darci per vinti e troviamo tra le ragazze interpreti molto comprensive che imparano nello stesso tempo i corrispettivi termini italiani. La serata si conclude al Kindergarden, il giardino della scuola dell’infanzia, dove arrivano alcuni genitori, ci sono anche musulmani perché le classi sono frequentate dai loro figli.
Il momento ricreativo è gestito dai giovani che in una stanza hanno approntato un piccolo bar; grida gioiose di bimbi che giocano spensierati nell’area attrezzata si sovrappongono alle canzoni di ritmo arabo ponendo la parrocchia di s.Giuseppe, l’unica cattolica, come punto di sereno ritrovo per la popolazione di Jifna, circa 2000 anime, 850 cristiani tra cui ortodossi, il resto musulmani.
L’incontro con padre Raed, direttore della Caritas di Gerusalemme, ci allarga la visione della situazione dei cristiani in Terra Santa e della popolazione palestinese in genere. E’ molto difficile soprattutto nelle striscia di Gaza – “il più grande carcere del mondo” lo definisce – dove gli operatori sono molto attivi nel sostenere i bambini malnutriti o con problemi di salute attraverso un presidio sanitario. Con grande gioia ci mostra la foto con il direttore della Bank of Palestine che ha donato alla Caritas di Gerusalemme un ambulatorio mobile per Gaza.
Non è facile ripartire da un luogo così unico; tuttavia sappiamo di aver instaurato un legame di fraternità importante, ci sentiamo insieme operai di una vigna dal terreno difficile da arare, ma che può dare ancora innumerevoli frutti perché i tralci si impegnano a rimanere saldamente attaccati alla Vite.
Maria Grazia Modica
Giorgio Abate
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