Il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, in un’intervista esclusiva ad ABC News rilasciata ieri, ha dichiarato che il massiccio afflusso in Europa di rifugiati dalla Siria e dal Nord Africa rappresenta “un enorme problema”, con cui bisognerà probabilmente fare i conti “per i prossimi venti anni”.
E’ questa l’opinione dai leader militari di Washington e della Nato che mostrano vera preoccupazione per un problema che vede l’Europa divisa ed incerta, con il Sud del continente che ha la sensazione di non avere abbastanza sostegno ed i leader delle aree centrali e settentrionali che pensano che sia un problema che deve essere affrontato al Sud e che non li riguarda.
La foto-shock del bambino siriano di tre anni morto annegato su una spiaggia turca è diventata il simbolo di questa emergenza, su cui nessuno può ormai far finta di chiudere gli occhi.
Immagini che secondo Dempsey potrebbero avere un effetto simile al terribile attacco con colpi di mortaio del 1995 contro un mercato di Sarajevo, che spostò gli equilibri in favore di un intervento della Nato in Bosnia.
In Ungheria, in queste ore, centinaia di migranti e profughi stanno rifiutando la registrazione nei centri d’accoglienza magiari e si stanno mettendo in cammino verso Germania e Austria (in particolare Vienna, distante 240 chilometri)., mentre Budapest registra il record di afflussi (oltre 3mila in un giorno) e mentre 4mila sono arrivati in Serbia, altri 5600 in Macedonia.
Il premier britannico David Cameron ha garantito che la Gran Bretagna aderirà alla ricollocazione di “migliaia” di altri rifugiati siriani in risposta all’aggravarsi delle crisi umanitaria. Arriveranno dai campi Onu al confine con la Siria e non sono tra le persone che si trovano già in Europa. Cameron, che si trova a Lisbona per parlare con il primo ministro portoghese, ha poi sottolineato che il suo Paese agirà “con la testa e con il cuore”, ma non ha dato indicazione di intendere accogliere alcuno delle centinaia di migliaia di migranti che sono arrivati sin’ora in Europa.
Due giorni fa, i ministri degli Esteri dell’Unione europea si sono riuniti per discutere alla ricerca di regole comuni per affrontarla.
La Commissione sta lavorando ad un nuovo piano su una più equa (e obbligatoria) ridistribuzione delle quote di migranti, sollecitata dal presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. La Germania si è detta pronta ad accogliere 800mila richiedenti asilo nel 2015, quattro volte in più rispetto allo scorso anno mentre leader di quattro paesi del centro-est europeo (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) ribadiscono la loro opposizione a questa proposta.
Sul tema migranti nella Ue è intervenuto anche il leader russo Vladimir Putin sostenendo che si tratta di un evento “prevedibile e che ci si doveva attendere. La Russia aveva avvertito della vastità del problema”, causata, secondo lui dal fatto che l’Ue ha “ciecamente seguito la politica Usa verso la Siria. I Siriani che abbandonano il loro Paese non lo fanno per il governo di Assad ma per colpa di Is”.
E mentre a Ginevra sono ripresi i negoziati di pace libici sotto egida Onu, il governo islamista libico di Tripoli (a differenza di quello di Tobruk privo di riconoscimento internazionale) ha chiesto ai Paesi europei e arabi di organizzare “una conferenza regionale alla fine del mese” per porre fine alla tragedia.
Ciascuno va in una direzione, senza che si possa comporre alcuna unità. Ed il problema resta e cresce ogni giorno per dimensione e tragedia.
Per l’antropologo Marc Augé, quello che accade tra il Mediterraneo e l’Europa è il sintomo di una società in difficoltà, senza più progetti e convinzioni forti.
L’autore de “Le nuove paure”, afferma che di fronte ad un problema che non è emergenziale, invece di agire globalmente le politiche interne sono tutte divise, senza cercare una cooperazione fra istituzioni e nazioni.
Invece l’Europa si è scoperta debole, divisa e incerta, ma soprattutto deprivata del suo senso più profondo: quello della solidarietà.
Italia e Grecia accusano la presidenza di turno lettone di aver frenato la realizzazione del piano Juncker, mentre anche Spagna e Francia si trovano su posizioni molto defilate.
In effetti ciò che appare (e da giugno ormai), è una Europa che non si apre, ma invece si blinda.
Il presidente della commissione europea Juncker afferma di non volere un’Unione in cui si ergano muri, ma poi nulla fa di concreto per fermarne l’edificazione.
Merkel e Hollande bacchettano l’Italia per non avere ancora provveduto all’allestimento di grandi centri di primo smistamento finalizzati, nelle loro intenzioni, all’identificazione di chi arriva per poter applicare l’assurdo regolamento Dublino ed evitare che dall’Italia (o dalla Grecia) i profughi si spostino nel nord Europa.
E in Italia crescono i seguaci di Salvini, coloro i quali vogliono i respingimenti, mentre la Merkel si dice inorridita delle manifestazioni dei neonazisti, ma non si interroga su quale cultura del dell’egoismo e della cancellazione della solidarietà il neonazismo abbia potuto prosperare.
L’Europa sta imbarbarendosi, dimenticando che i canali umanitari, la protezione delle persone, il salvataggio dei naufraghi, la prima accoglienza sono i doveri dell’immediato.
Certo, con il buon cuore non si risolve tutto ed è per questo che la forza politica più agile, nell’attuale confusione, cioè la Lega, si giova dell’attivismo televisivo di Matteo Salvini che è formidabile e sostenuto da un cinismo stupefacente.
In verità sono molte le formazioni che, nell’Unione Europea, hanno sfruttato la paura davanti all’immigrazione incontrollata per guadagnare posizioni: è successo in Francia e in Olanda, in Svezia e in Gran Bretagna. Sta succedendo in Polonia.
Ma in Italia la questione è infinitamente più pericolosa perché c’è la Sicilia davanti all’Africa, non il Sussex o la Slesia, come saggiamente ha scritto Beppe Severgnini.
Nessuna operazione di polizia internazionale fermerà il flusso di profughi, non basteranno i muri, non sono servite le cariche brutali con lancio di granate al confine macedone. Di fronte a una morte certa nel proprio paese, la scelta non può che essere la fuga, a qualunque costo.
Occorre che l’Europa si ricordi il suo ruolo e faccia per intero il suo dovere, che l’Onu sia più incisivo ed attivo nei fatti e si meriti i festeggiamenti per i suoi 70 anni con più interventi in Africa.
Carlo Di Stanislao
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