La XXV Settimana della Cultura Scientifica e Tecnologica che si svolge in Italia dal 12 al 18 Ottobre 2015, prevede una serie di eventi, mostre, incontri, festival e iniziative organizzate in tutta la Nazione, destinate ai cittadini, in particolare agli studenti, perché diventino finalmente i protagonisti della sensibilizzazione, della partecipazione e dell’innovazione tecnologica grazie alla Scienza, nata in Italia con Galileo Galilei 400 anni fa, e al suo impatto culturale, sociale, economico sulla vita quotidiana degli Italiani. Che, pare ragionevole pensare, non avrebbero dovuto conoscere e patire alcuna “crisi”. Neppure i 600 suicidi imprenditoriali finora registrati dal 2008. Istituita e promossa dal MIUR, la Settimana della Cultura Scientifica e Tecnologica si focalizza quest’anno su temi attualissimi quali: Scienza e Alimentazione, Anno Internazionale della Luce e delle Tecnologie basate sulla Luce, L’impatto sociale delle tecnologie della comunicazione.
Tutte le iniziative di diffusione capillare della Cultura scientifica proposte e organizzate da enti di ricerca, università, scuole, musei, associazioni, aziende, amministrazioni locali, istituzioni culturali e scientifiche che presentino un buon grado di qualificazione e che possano incidere in modo significativo sul pubblico, sono le benvenute, vengono accolte e rese pubbliche sulla piattaforma web Sirio (Sistema Informatico Ricerca Italia Online). I soggetti che intendono proporre iniziative possono farlo dalle ore 9 del 21 Settembre alle ore 15 del 5 Ottobre 2015 attraverso il Portale, accedendo alla sezione dedicata “Plinio” presente in “homepage”. L’intento della Settimana è quello di contribuire alla crescita culturale degli Italiani e dell’Italia, patria dell’Energia Nucleare grazie al fisico Enrico Fermi, costituendo altresì un presupposto per il pieno esercizio dei diritti e dei doveri costituzionali di cittadinanza oggi in gravissimo pericolo. I cittadini italiani, infatti, sono chiamati sempre più spesso a compiere scelte strategiche nei contesti della pace, dell’ambiente, dell’energia, della genetica, della medicina rigenerativa, dell’impresa spaziale industriale pubblica e private. Per essere pienamente autonomi e responsabili non possono prescindere da una solida Cultura scientifica di base, madre di tutte le Libertà fondamentali. La Settimana è inoltre uno strumento per sperimentare e promuovere l’ambizioso progetto del MIUR di dare vita a un sistema nazionale di istituzioni permanenti (musei, centri e città della scienza, università, accademie, imprese, laboratori, nodi strategici, volontariato degli scienziati sociali) impegnate nel compito di garantire ai cittadini un’informazione tecnico-scientifica aggiornata e certificata, provvedendo nel contempo alla valorizzazione del patrimonio tecnico-scientifico del quale è ricchissimo il nostro Paese. A 78 mesi dal terremoto di L’Aquila (Mw 6.3; 312 morti; 6mila feriti) del 6 Aprile 2009, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia continua a svolgere un’intensa attività divulgativa e didattica per le scuole. I ricercatori e i tecnici dell’Ingv accolgono con competenza e passione gli studenti delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, per trasmettere conoscenze scientifiche, entusiasmo ed amore per la Ricerca, la Scienza e la Natura. È possibile seguire percorsi didattici interattivi differenziati per il tipo di scuola sui temi svolti all’interno dell’Ente. BILLI è un radar-laser che consente di misurare a distanza la concentrazione di Anidride Carbonica presente nei gas vulcanici. Un indizio importante per prevedere eventuali eruzioni. Messa a punto dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia (anche nucleare) e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), la tecnologia è stata recentemente sperimentata con successo sul vulcano Stromboli, dove ha fornito per 24 ore consecutive misure sulla composizione dei fumi e immagini tridimensionali del vulcano. Riuscire a prevedere l’approssimarsi di un’eruzione vulcanica e poter allertare le popolazioni delle zone circostanti con il dovuto anticipo, rappresenta una delle grandi sfide della Scienza e della Protezione Civile moderne. Oggi questo traguardo può diventare realtà grazie alla tecnologia messa a punto dall’Enea, chiamata BILLI, acronimo di “BrIdge voLcanic Lidar”, che è in grado di misurare a distanza la composizione di CO2 dei gas vulcanici. Un’operazione complessa, lenta e pericolosa con le tecniche tradizionali. “Misurare il biossido di carbonio in pennacchi vulcanici è una sfida scientifica e tecnologica di estrema importanza – osserva Luca Fiorani del Laboratorio Diagnostiche e Metrologia del Centro Enea di Frascati che ha sviluppato il radar-laser – infatti è ormai assodato che le eruzioni sono precedute dall’aumento di questo gas nel fumo che esce dal cratere”. BILLI è stato messo a punto nell’ambito del progetto europeo BRIDGE (Bridging the gap between gas emissions and geophysical observations at active Volcanoes) finanziato dall’European Research Council (ERC) e coordinato da Alessandro Aiuppa dell’Università degli Studi di Palermo. La tecnologia è in grado di rilevare la composizione dei fumi vulcanici a chilometri di distanza e, grazie a un sistema di specchi, il fascio laser può essere orientato nella varie direzioni fornendo dettagli tridimensionali sul pennacchio vulcanico. Dopo un primo test effettuato nell’Ottobre 2014 alla solfatara di Pozzuoli, il radar laser è stato sperimentato con successo sul vulcano Stromboli, dove ha fornito per 24 ore consecutive immagini tridimensionali del pennacchio fino a 3 chilometri di distanza, misurando il contenuto di biossido di carbonio dei fumi. “Una misura del genere non era mai stata realizzata in precedenza – rivela il professor Aiuppa – il radar laser permette di effettuare scansioni con rapidità e continuità molto superiori a quelle ottenute finora: presto potremo installare radar laser fissi per sorvegliare i vulcani”. La tecnologia radar di BILLI si presta anche a essere applicata in ambienti difficili, come nei luoghi dove si è sviluppato un incendio o in contesti urbani e industriali in cui sono presenti emissioni dovute a processi di combustione. Il nuovo sensore si affianca a una nuova tecnica, firmata Ingv e Cnr, in grado di calcolare, attraverso i dati satellitari e Gps, le modalità con cui il magma profondo risale all’interno del sottosuolo dei Campi Flegrei, creando deformazioni, anche millimetriche, della superficie terrestre. Un meccanismo probabilmente comune ad altre megacaldere come Yellowstone negli Usa e Rabaul in Papua Nuova Guinea. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, dal titolo “Magma injection beneath the urban area of Naples: a new mechanism for the 2012–2013 volcanic unrest at Campi Flegrei caldera” (www.nature.com/articles/srep13100#f4) fornisce nuovi sistemi di monitoraggio utili ad affrontare eventuali future crisi vulcaniche epocali. I dati acquisiti dai satelliti e dai ricevitori Gps (potenziati dalla costellazione Galileo in dispiegamento orbitale) della rete di sensori presenti nell’area dei Campi Flegrei, servono per monitorare le deformazioni della superficie terrestre e conoscere, in tempo reale, l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera. È la nuova tecnica di monitoraggio messa a punto da un team di ricercatori dell’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto Nazionale di Geofisica a Vulcanologia e dell’Istituto per il Rilevamento Elettromagnetico dell’Ambiente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, per comprendere meglio i fenomeni di sollevamento avvenuti in questi ultimi anni nei Campi Flegrei. Lo studio rientra tra le attività di monitoraggio promosse dal Dipartimento Nazionale di Protezione Civile e di quelle svolte nell’ambito del progetto europeo MED-SUV (MEDiterraneanSUpersite Volcanoes). “Grazie ai dati acquisiti dai satelliti COSMO-SkyMed, messi in orbita dall’Agenzia Spaziale Italiana a partire dal 2007, dotati di sistemi radar, e dai ricevitori Gps della rete di sorveglianza geodetica Ingv-Ov, composta da ben 14 sensori sparsi nell’area dei Campi Flegrei – spiega Susi Pepe, ricercatrice del Cnr-Irea – è stato possibile studiare le deformazioni, anche millimetriche, della superficie terrestre e conoscere l’andamento del sollevamento del suolo all’interno della caldera”. Negli scorsi millenni la caldera dei Campi Flegrei ha prodotto eruzioni catastrofiche di carattere semi-estintivo: quella di 40mila anni fa è conosciuta come Ignimbrite Campana (Volcanic Explosivity Index pari a 7) e quella di 15mila anni fa come Tufo Giallo Napoletano (Volcanic Explosivity Index pari a 6). Eventi epocali che hanno fatto crollare la parte superficiale del vulcano per centinaia di metri, formando l’attuale struttura. “Dopo l’ultima eruzione del 1538 che ha prodotto il cratere di Monte Nuovo – rileva Luca D’Auria della Sala di Monitoraggio dell’Osservatorio Vesuviano Ingv – il suolo dei Campi Flegrei ha iniziato a sprofondare lentamente per secoli, interrompendo questo andamento intorno al 1950, quando l’Area Flegrea ha ripreso a sollevarsi. Questo fenomeno, noto come bradisisma, ha manifestato tutta la sua violenza tra il 1982 e il 1985, periodo in cui il suolo si è sollevato di quasi 2 metri, accompagnato da terremoti, provocando l’evacuazione di migliaia di abitanti dalla città di Pozzuoli. Nel 2005 il suolo ha ripreso a sollevarsi lentamente e i terremoti di bassa magnitudo sono ricomparsi”. Tutti eventi storici con VEI finora compresi tra zero e cinque. Negli ultimi 10 anni il suolo si è sollevato di quasi 30 centimetri, tanto che nel Dicembre 2012, sulla base delle valutazioni della Commissione Grandi Rischi, il Dipartimento della Protezione Civile ha innalzato dalla condizione Verde (Quiescenza) a quella Gialla (Attenzione) il Livello di Allerta dei Campi Flegrei, con il conseguente rafforzamento da parte dell’Ingv del monitoraggio del vulcano. “Riguardo l’origine del bradisisma flegreo – rivela D’Auria – la comunità scientifica concorda sul fatto che tra il 1985 ed il 2012 il sollevamento del suolo era legato all’immissione di fluidi idrotermali (acqua e gas) all’interno delle rocce della caldera e al progressivo riscaldamento di queste ultime. Sul più recente episodio di sollevamento, tra il 2012 ed il 2013, il fenomeno sarebbe invece da attribuire alla risalita di magma a bassa profondità (circa 3 Km) che si inietta nelle rocce del sottosuolo formando uno strato sottile, noto come sill, un piccolo lago sotterraneo, con un raggio di 2-3 Km. Il sill era già presente nel sottosuolo e probabilmente è stato attivo durante le crisi bradisismiche degli scorsi decenni quando, quantità di magma, anche dieci volte superiori, sono arrivate in questa piccola camera magmatica superficiale”. Il magma all’interno del sill però può raffreddarsi rapidamente, rendendolo quindi meno capace di produrre eruzioni. Questo meccanismo, osservato ai Campi Flegrei, è probabilmente comune ad altre megacaldere e potrebbe spiegare alcuni comportamenti apparentemente bizzarri osservati in questi vulcani. “La previsione delle eruzioni vulcaniche nelle caldere presenta, a volte, difficoltà maggiore rispetto ad altri vulcani – prosegue D’Auria – la risalita e l’intrusione del magma all’interno di sill potrebbe infatti essere il normale ciclo vitale delle caldere”. La Campi Flegrei Caldera minaccia direttamente la vita di un milione e mezzo di Napoletani. I risultati dello studio sono di grande importanza per l’interpretazione dei dati acquisiti dalle nuove generazioni di satelliti (come quelli della costellazione Sentinel del Programma Europeo Copernicus, operata dall’Agenzia Spaziale Europea) e dalle innovative tecnologie di sorveglianza geofisica ai Campi Flegrei. “Questi nuovi sistemi di monitoraggio, integrati con le nuove metodologie di analisi – rimarca Susi Pepe del Cnr – possono fornire uno strumento utile ad affrontare eventuali future crisi vulcaniche ai Campi Flegrei”. Il complesso di Yellowstone, uno dei più grandi vulcani sulla Terra, è alimentato da due camere magmatiche. Il magma che si trova in quella più profonda, appena scoperta, potrebbe colmare undici volte l’intero Grand Canyon. Sotto il supervulcano di Yellowstone esiste infatti una seconda enorme camera magmatica che alimenta quella, più piccola e superficiale, già nota. La scoperta di un gruppo di geologi e geofisici dell’Università dello Utah a Salt Lake City e del California Institute of Technology a Pasadena (Usa), descritta nell’articolo “The Yellowstone magmatic system from the mantle plume to the upper crust” del 15 Maggio 2015 su Science, cristallizza il quadro della situazione sulla struttura più grande e complessa tra gli edifici vulcanici attivi sulla Terra. Con un volume di 46mila chilometri cubici, la seconda camera magmatica è 4.5 volte più grande della camera superiore, e il suo contenuto potrebbe riempire oltre 11 volte il Grand Canyon. Le sue dimensioni permettono di spiegare la quantità di roccia fusa che si trova sotto Yellowstone, e i livelli di Anidride Carbonica che ne fuoriesce, troppo elevati per essere alimentati dalla relativamente piccola camera superiore. Anche se la camera magmatica superiore è stata la fonte immediata delle tre ultime catastrofiche eruzioni della megacaldera di Yellowstone, avvenute rispettivamente 2 milioni, 1.2 milioni e 640mila anni fa, con una fuoriuscita lavica minore 70mila anni fa, è la camera inferiore che le permette di ricaricarsi periodicamente. A sua volta, il bacino magmatico inferiore è alimentato dal Punto Caldo (Hot Spot) di Yellowstone, un pennacchio magmatico che proviene da una profondità di almeno 640 Km nel mantello terrestre. Anche se vi sono indizi di profondità ancora maggiori. Alla base, il condotto del pennacchio ha una larghezza di circa 80 Km, ma quando arriva a toccare la parte superiore del mantello, a circa 60 Km di profondità, si piega e si allarga, raggiungendo una larghezza di quasi 500 Km. La riserva di magma nelle due camere non è completamente allo stato fuso: per le particolari condizioni di pressione e temperatura, si trova per lo più in uno stato quasi solido, dalla consistenza spugnosa, e solo il 9 percento della roccia della camera superiore e il 2 percento di quella nella camera inferiore è allo stato liquido. Oltre a fornire un quadro completo della struttura profonda della megacaldera di Yellowstone, la ricerca consente di migliorare l’accuratezza delle stime di rischio legate all’attività di questi enormi complessi vulcanici. Le tre eruzioni catastrofiche di Yellowstone, neppure lontanamente immaginabili e rappresentabili in un film fantasy come “2012” di Roland Emmerich (Usa, 2009), avevano ricoperto di cenere gran parte del Nord America. Un evento del genere oggi provocherebbe un cataclisma planetario di enormi dimensioni, forse di livello estintivo per la razza umana sulla Terra. Ma gli scienziati assicurano che è quanto mai improbabile, poiché la stima è di una probabilità annuale su 700mila. Per ottenere questi risultati, Hsin-Hua Huang e colleghi hanno usato la tomografia sismica, la tecnica standard in studi di questo tipo, che sfrutta le onde sismiche per distinguere le rocce di diversa densità presenti nel sottosuolo. Tuttavia, per sondare le regioni più profonde hanno raffinato il metodo in modo da tener conto non solo delle onde sismiche generate da sommovimenti tellurici locali, ma anche di quelle dovute a terremoti molto più lontani. L’Ingv è tra i partner che guidano un team internazionale di vulcanologi e ingegneri in un altro progetto innovativo, denominato “Krafla Magma Drilling Project”, per campionare il magma profondo del vulcano Krafla, in Islanda. L’obiettivo della ricerca è di costituire un’infrastruttura permanente per lo studio e la sperimentazione direttamente sulla camera magmatica nelle profondità del vulcano islandese, realizzando il primo Osservatorio magmatologico al mondo. La presenza del magma profondo nel vulcano Krafla è stata accidentalmente rivelata dalla società Landsvirkjun Power Co., partner del gruppo, durante le attività di ricerca dei fluidi supercritici per lo sfruttamento geotermale (fonte ecologica di energia). Nel corso dell’Estate 2015, ricercatori dell’Ingv hanno condotto esperimenti al vulcano Krafla per definire, attraverso misure e prospezioni geofisiche e geochimiche, lo stato del vulcano prima delle operazioni di perforazione e tentare di ottenere immagini della camera magmatica obiettivo della perforazione, prevista per l’Estate 2016. Il gruppo di ricerca si prefigge di ottenere informazioni dirette sulle caratteristiche del magma prima di un’eruzione, potendo così testare decenni di modelli teorici e speculazioni sullo stato dei magmi abissali. Lo studio permetterà una comprensione avanzata delle condizioni che preludono un’eruzione vulcanica e una valutazione della possibilità di estrarre energia pulita in condizioni di massima sicurezza presso vulcani simili, quali ad esempio i Campi Flegrei e le altre sorgenti geotermiche italiane. Il progetto è finanziato dal prestigioso consorzio “International Continental Drilling Program”, lo stesso che ha studiato la Faglia di San Andreas in California (Usa), e che attualmente collabora con l’Ingv per lo studio di perforazione scientifica ai Campi Flegrei con il progetto “Campi Flegrei Deep Drilling Project” (CFDDP). Il vulcano Krafla è costituito da una caldera, ossia un’ampia area del diametro di circa 10 Km sprofondata in seguito al verificarsi di eruzioni che hanno rapidamente svuotato camere magmatiche superficiali, indebolendo l’assetto strutturale del sistema e causandone il collasso gravitativo. Dal 1975 al 1984 il vulcano è stato sede di un’intensa attività eruttiva, caratterizzata dall’emissione di abbondanti colate di lava, inizialmente lungo sistemi di fratture e successivamente da aree specifiche sulle quali sono andati formandosi coni di scorie. Oggi il vulcano presenta notevoli analogie con la caldera dei Campi Flegrei, localizzata sul margine Ovest di Napoli. In entrambi i casi si tratta di un sistema calderico, sede di abbondante circolazione idrotermale e soggetto a intrusioni di magmi che formano sacche a pochi chilometri di profondità: intorno ai 2 Km per il Krafla, probabilmente intorno a 3-4 Km per i Campi Flegrei. Nel frattempo è stato siglato l’Accordo di collaborazione tra la Marina Militare Italiana e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia per lo sviluppo e la valorizzazione di progetti e infrastrutture di ricerca scientifica in mare e di sicurezza marittima, con particolare riferimento alle emergenze derivanti dai fenomeni naturali. L’Accordo si inserisce nelle linee programmatiche “dual use” che vedono la Forza Armata impegnata in attività a favore della Nazione volte alla sicurezza dei cittadini italiani, alla difesa dell’ambiente e alla protezione civile: attività di ricerca e progetti nel settore della Geofisica per fini utili alla conoscenza e alla previsione dei fenomeni naturali connessi al mare; supporto reciproco allo sviluppo dei centri di eccellenza nell’ambito della ricerca idro-oceanografica e geofisica mediante fornitura di dati, modelli e formazione del personale, e collaborazione in progetti di ricerca finalizzati ai Programmi comunitari. Sono questi i temi chiave dell’Accordo di collaborazione, siglato dal Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, l’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi, e il Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Stefano Gresta. Con l’Accordo si pongono le basi per un rapporto strutturato di collaborazione istituzionale nello sviluppo di partenariati nel campo della ricerca, della progettazione, della formazione, della cultura del mare e della sicurezza marittima anche attraverso il coinvolgimento degli Enti competenti responsabili per la gestione delle emergenze. È dal 2005, con oltre 22 Campagne congiunte, che la Marina Militare e l’Ingv collaborano in attività di ricerca in mare, con scambio di competenze e risultati tecnico-scientifici di rilievo. La prima metà del 2015 ha visto già lo sviluppo di due attività. Nei giorni 8 e 9 Giugno 2015, a bordo della Nave Scuola Palinuro, si è svolta un’importante serie di test a cura di alcuni ricercatori dell’Ingv, del Distretto Ligure Tecnologie Marine, della Historical Oceanography Society e della Società Monitoraggio Ambientale Ricerca Innovativa Strategica, per valutare le possibilità offerte dalla nave Palinuro nel prossimo futuro, comprese le campagne di formazione ed educazione tecnico-scientifica per giovani studenti universitari al fine di migliorare la conoscenza dell’ecosistema marino ripercorrendo le tappe storiche della conoscenza, delle metodologie di analisi e del contributo dato dalle tecnologie marine. La seconda collaborazione, iniziata lo scorso anno e proseguita nel 2015, riguarda l’esperimento scientifico Tomo-Etna per comprendere meglio le dinamiche interne del vulcano siciliano, nell’ambito dei due Progetti europei “Mediterranean Supersite Volcanoes” e “Eurofleets2”. All’esperimento ha partecipato la Nave Galatea della Marina Militare nella campagna istituzionale di rilievi idrografici per l’Istituto Idrografico della Marina. I sofisticati sensori imbarcati e la collaborazione del personale idrografo di bordo che ha affiancato il personale ricercatore civile, hanno permesso di osservare la camera magmatica del vulcano che si trova alla profondità di 13-15 Km e della quale non è ancora nota nel dettaglio la geometria. Tutta la mole dei dati raccolti è destinata ad incrementare le possibilità di mitigare il rischio sismico e vulcanico nella Sicilia orientale. L’esperimento Tomo-Etna coinvolge Istituzioni di diversi Paesi tra cui Spagna, Germania, Inghilterra, Irlanda, Messico, Russia e America, con la partecipazione di più di 65 ricercatori impiegati simultaneamente in quella che può risultare la più grande raccolta di dati geofisici nella zona “offshore” dell’Etna mai fatta prima. La ricerca prevede l’attivazione di 100 nuove stazioni sismiche, oltre alle 70 già attive, per una raccolta di dati fondamentali nello studio del comportamento del vulcano e delle faglie che si trovano nella zona circostante. L’obiettivo è quello di studiare le radici dell’Etna. Il contributo di Nave Galatea ha effettivamente portato alla scoperta di una radice del vulcano ed alla creazione di un modello 3D ad alta risoluzione nell’area marina antistante l’Etna, nella zona di Aci Trezza. Grazie ai dati registrati dai magnetometri e gravimetri installati a bordo, si potranno altresì generare delle mappe di anomalie magnetiche e gravimetriche. Neppure le astronavi aliene sommerse, se esistono, potranno sfuggire! Tutti questi dati verranno integrati alla tomografia sismica acquisita nel 2014 e permetteranno di indagare con grande dettaglio le strutture tettoniche regionali che si estendono dal Tirreno meridionale allo Ionio e che interagiscono con l’intero Sistema Vulcanico Etneo. Inoltre la mole dei dati acquisiti è destinata ad incrementare le possibilità di “mitigare il rischio sismico e vulcanico nella Sicilia orientale”, che rappresenta una delle aree sismiche più pericolose d’Italia. È il deciso impegno della Marina Militare Italiana, dei suoi mezzi e dei propri Uomini in attività impegnative, ma dal forte contributo scientifico, insieme alla Santa Russia. Nel frattempo è uscito il libro “Terremoti, comunicazione, diritto. Riflessioni sul processo alla Commissione Grandi Rischi”, edito da FrancoAngeli, a cura dei due sismologi dell’Ingv, Alessandro Amato e Fabrizio Galadini, e di un sociologo della Università “La Sapienza” di Roma, Andrea Cerase. L’opera si propone di rilanciare un dibattito sulla mitigazione del rischio sismico in una prospettiva marcatamente interdisciplinare. Il libro, presentato il 17 Giugno 2015 al Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale de “La Sapienza”, i cui diritti sono stati interamente devoluti a una Onlus aquilana, si propone di partire dall’analisi dei due processi celebrati a L’Aquila contro la “Commissione Grandi Rischi”, per rilanciare un dibattito sulla mitigazione del rischio sismico e degli altri rischi naturali. Nelle sue 372 pagine, il volume di 20 Capitoli ospita i saggi di 22 autori tra sismologi, geologi, ingegneri, sociologi, psicologi, giuristi, giornalisti scientifici, esperti e accademici, anche stranieri, che delineano accuratamente le criticità emergenti nei due processi, tratteggiando una prospettiva critica rispetto alle sentenze e propositiva rispetto al futuro. Con i contributi di: Alessandro Amato, Stefano Cappa, Marco Cattaneo, Giacomo Cavallo, Andrea Cerase, Giovanni Ciofalo, Massimo Crescimbene, Philip England, Gabriele Fornasari, Fabrizio Galadini, Alessandra Galluccio, Pietro Greco, Gaetano Insolera, Kazuki Koketsu, Federica La Longa, Mario Morcellini, Satoko Oki, Roberto Paolucci, Massimiliano Stucchi, Giuseppe Tipaldo, Mario Tozzi e Cecilia Valbonesi. “Abbiamo tentato di offrire delle chiavi di lettura per comprendere meglio le conseguenze di questi rischi, in particolare quello del terremoto, che solo negli ultimi 50 anni – osserva Alessandro Amato – ha devastato il nostro Paese con migliaia di vittime dalla Sicilia al Friuli, passando per l’Irpinia, l’Abruzzo, il Molise, l’Umbria, le Marche e l’Emilia”. Quello che emerge dai 20 contributi (ognuno dei quali merita un libro speciale) è che “il rischio dei terremoti non solo è sottostimato da chi in generale risiede in zone ad alta sismicità – rileva Fabrizio Galadini – ma persino da persone residenti nelle zone colpite dal terremoto aquilano del 2009”. In Italia, infatti, si tende a dimenticare molto in fretta che i terremoti esistano, in “un atteggiamento di rimozione collettiva che – rivela il geologo – impedisce di imparare dagli errori e storicamente pone le basi per le future catastrofi”. La ricchezza di punti di vista differenti riuniti nel libro, può essere uno strumento importante di riflessione, ma anche operativo. Nelle intenzioni degli Autori, l’opera vuole essere infatti una guida per non ricadere in errori e catastrofi che troppo spesso si ripetono in un Bel Paese, come l’Italia, nel quale i terremoti sono di casa ma facilmente vengono dimenticati per ignoranza culturale scientifica. Guai solo ad evocarne il nome! Secondo Andrea Cerase le considerazioni pubblicate nel volume possono aiutare a mettere a punto “approcci integrati che tengano conto dei vari saperi e che aiutino le autorità a coinvolgere i cittadini nelle decisioni e nella gestione delle emergenze, come sempre accade in Italia”. Per molti versi, osserva il sociologo, “il processo di L’Aquila è stato un processo al modo in cui le autorità hanno comunicato il rischio, ed è innegabile che possano esserci stati errori e improvvisazioni a più livelli. Non potendo cambiare il passato, quello che si può fare da questo punto di vista è migliorare la capacità di comunicare il rischio di tutti coloro che hanno la responsabilità di questo tipo”. Questi sono i Capitoli del libro: “Scienza, rischi naturali, comunicazione del rischio e responsabilità penale. Il punto di vista del penalista”, di Gabriele Fornasari e Gaetano Insolera; “In scienza e coscienza”, di Andrea Cerase, Alessandro Amato e Fabrizio Galadini; “Il terremoto dell’Aquila da una prospettiva internazionale”, di Philip England; “La scienza mal compresa: esempi e riflessioni dal processo Grandi Rischi”, di Alessandro Amato e Fabrizio Galadini; “Il processo dell’Aquila: l’incertezza dello studio dei disastri e le responsabilità degli scienziati”, di Kazuki Koketsu e Satoko Oki; “Prevenzione o roulette russa: considerazioni su pericolosità, vulnerabilità e rischio sismico all’Aquila e dopo L’Aquila”, di Roberto Paolucci; “Rischio sismico e previsione dei terremoti nella vicenda del processo Grandi Rischi”, di Massimiliano Stucchi; “Il terremoto della comunicazione”, di Mario Morcellini; “Il terremoto dell’Aquila: lo scenario comunicativo”, di Giovanni Ciofalo; “Quale idea della comunicazione del rischio? Tra teoria, prassi e assunti impliciti”, di Andrea Cerase; “Media e traduzione delle conoscenze scientifiche prima del terremoto del 2009”, di Fabrizio Galadini e Alessandro Amato; “Quando la scienza trema: scienza, società, media, pseudoscienza e politica nel terremoto dell’Aquila”, di Giuseppe Tipaldo; “Restare o scappare? Neurobiologia delle decisioni in condizioni di incertezza”, di Stefano F. Cappa; “Terremoti: tra percezione e realtà”, di Massimo Crescimbene e Federica La Longa; “Un ex-ricercatore alla scoperta di una sentenza”, di di Giacomo Cavallo: “Scienza sismica e responsabilità penale: riflessioni sul rimprovero per colpa a margine del processo dell’Aquila”, di Cecilia Valbonesi; “Comunicazione (scientifica) e responsabilità penale: riflessioni sulla causalità psichica a margine della sentenza Grandi Rischi”, di Alessandra Galluccio; “I dissesti in Italia: difficoltà ed errori nella comprensione e nella comunicazione”, di Mario Tozzi; “Nuvole e orologi. L’incertezza della scienza e le certezze dei media”, di Pietro Greco; “Il paese dalla memoria corta”, di Marco Cattaneo. Segue la ricca Bibliografia. Nel lavoro, aggiornato alla sentenza d’Appello pubblicata il 10 Febbraio 2015, sono esaminate in modo dettagliato le questioni scientifiche e giuridiche trattate, evidenziando la preoccupante tendenza a scaricare su esperti e scienziati le responsabilità delle scelte in materia di mitigazione dei rischi naturali. Attualmente sono oltre 25 milioni gli Italiani che vivono in zone classificate come ad Alta Sismicità (zona 1 e zona 2) e poco meno di 3 milioni quelli che vivono in zone ad Altissima Sismicità (zona 1), senza contare i 6.3 milioni di persone potenzialmente esposte a tsunami nei soli 10 Comuni costieri italiani più popolati e gli oltre 2 milioni di persone esposte al rischio vulcanico (Vesuvio e Campi Flegrei) nel solo hinterland di Napoli. La “novità” dell’approccio proposto sta nell’esigenza, condivisa tra tutti gli autori del volume, di avviare un’analisi più articolata e dal carattere marcatamente interdisciplinare della Vicenda Aquilana, capace cioè di definire un campo di riflessioni in cui le conoscenze sismologiche, ingegneristiche, sociologiche, comunicative, psicologiche e del diritto possano in qualche misura integrarsi. L’idea di pubblicare un libro sul processo ai sette tra scienziati e tecnici della cosiddetta “Commissione Grandi Rischi” iniziò a precisarsi nell’Estate del 2014, a margine di una serie di incontri seminariali sulla vicenda del terremoto del 6 Aprile 2009 a L’Aquila, che mandò al Creatore 312 persone, ferendone seimila. Il sisma aquilano di Magnitudo Momento 6.3, infatti, oltre alle sue conseguenze più dirette, ha anche evidenziato delle serie criticità nel sistema della comunicazione della Scienza nei media e tra i cittadini, della difesa dai terremoti e nella gestione dei rischi naturali. Il dibattito attorno alla vicenda giudiziaria ha forse rischiato di spostare il baricentro della discussione da una doverosa analisi dei problemi emersi e dei rimedi possibili, alla ricerca di responsabilità individuali, senza peraltro avviare una seria riflessione sulle condizioni di esposizione al rischio sismico e vulcanico di una consistente parte della popolazione italiana. In altri Paesi, le catastrofi naturali sono trattate in modo decisamente diverso da quanto si sta vedendo nell’Italia del “Dopo L’Aquila”. Anche in Perù, a Lima, come rivela la trasmissione “Overland 16”, le esercitazioni di massa di protezione civile sono diventate pane quotidiano! In Giappone, al di là dei facili stereotipi sulla pretesa resilienza della popolazione ai terremoti, entro un quadro normativo che consente di attribuire con chiarezza compiti e responsabilità, Prevenzione Antisismica significa investire risorse ingenti nella ricerca di base e nello sviluppo delle tecnologie e dei sistemi organizzativi con una progettualità e dei risultati ben diversi da quelli visti a L’Aquila o dopo altri importanti terremoti italiani. In Giappone, dopo il catastrofico terremoto di Kobe del 1995, in cui una scossa di Magnitudo 7 causò la morte di oltre 5500 persone e danni per più di 100 miliardi di dollari, la città e le sue infrastrutture sono state ricostruite con tecniche innovative improntate alla sicurezza sismica. Quando nel 2013 la città di Kobe fu nuovamente colpita da un terremoto di magnitudo 6.3, pari a quello verificatosi nella Capitale d’Abruzzo, si è potuta rilevare l’utilità delle azioni volte alla mitigazione del rischio. Il sisma ha infatti provocato 22 feriti in una città popolata da oltre un milione e mezzo di abitanti, a fronte dei 312 morti e dei 6000 feriti di L’Aquila, su una popolazione venti volte inferiore e con un bilancio storico di tragedie sismiche millenarie ben superiore. L’analisi proposta nel volume “Terremoti, comunicazione, diritto. Riflessioni sul processo alla Commissione Grandi Rischi”, è riconducibile in prima istanza alle tre tematiche principali riassunte nel titolo: la Scienza dei terremoti, la Comunicazione e il Diritto. Gli autori, in piena libertà e autonomia, condividendo le perplessità nei confronti della sentenza di primo grado, hanno dato corpo a una serie di osservazioni a tutto campo a partire dalle loro conoscenze scientifiche, tecniche e professionali, ben consapevoli delle importanti implicazioni etiche e senza tuttavia accampare alcuna pretesa di stabilire “verità” assolute. Ciò che emerge da quest’analisi ampia e variegata è l’impossibilità di circoscrivere le responsabilità alle mancate azioni o alle decisioni prese durante una singola riunione. Piuttosto, queste andrebbero collocate in un più ampio intervallo temporale e in altri contesti, nelle settimane, negli anni e nei decenni precedenti al sisma del 6 Aprile 2009. Il volume evidenzia inoltre la necessità di un approccio “sistemico” ai rischi naturali che, superando decisamente la logica dell’adempimento burocratico, consenta di prendere decisioni più efficaci e consapevoli dei possibili effetti a catena che esse possono innescare, col risultato di amplificare il rischio anziché ridurlo. Le catastrofi hanno spesso un’incubazione molto lunga e più di un responsabile. Per queste ragioni non è possibile cogliere la complessità della vicenda giudiziaria conseguente al terremoto di L’Aquila se non si mettono da parte gli eccessi di semplificazione, i pregiudizi e la frettolosa ricerca di colpevoli. Il volume si rivolge a chiunque abbia a cuore i problemi connessi alla gestione dei Rischi Naturali e le conoscenze necessarie per evitare che in futuro questi possano convertirsi in disastri. La condanna in primo grado dei sette esperti che parteciparono alla riunione della Grandi Rischi e l’assoluzione in appello per sei di loro, evidenziano un problema che non riguarda solo la solidità dell’impianto accusatorio, ma anche il delicato rapporto tra Scienza e Giurisprudenza, tra attese dei cittadini esposti ai rischi e istituzioni chiamate a gestirli, tra percezione del rischio e azioni per ridurlo, tra operatori dei media e comunicazione istituzionale. La possibilità di interpretazioni divergenti delle norme e dei doveri degli attori coinvolti nella valutazione, gestione e comunicazione dei rischi mostra un insieme di conseguenze di sistema, potenzialmente negative per la sicurezza dei cittadini, che non hanno tardato a manifestarsi. Le analisi presentate evidenziano l’impossibilità che singole discipline si facciano carico da sole della complessità dei temi trattati, sottolineando la necessità di un approccio integrato e multidisciplinare. I contributi di sismologi, ingegneri, sociologi, giuristi, psicologi e giornalisti scientifici delineano accuratamente le criticità emergenti nei due processi, tratteggiando una prospettiva critica rispetto alle sentenze e propositiva rispetto al futuro. Un lavoro pubblicato di recente sulla rivista “Natural Hazards and Earth System Sciences” da un team di ricercatori statunitensi e italiani, a firma di Jeremy Thomas, Fabrizio Masci e Jeffrey Love, pone fondati dubbi sulla validità di uno studio di due ricercatori cinesi relativo ad una presunta previsione del terremoto del 20 Maggio 2012 in Emilia. Lo studio di Thomas et al. è parte di un processo di riesame dei precursori dei terremoti che sono stati e continuano a essere riportati nella letteratura scientifica con l’obiettivo di poterli un giorno utilizzare ma la presunta previsione del sisma del 20 Maggio 2012 nella valle del Po, merita speciali considerazioni. In un articolo pubblicato nel 2013 sulla rivista Natural Hazards and Earth System Sciences, due ricercatori cinesi, G. Guangmeng and Y. Jie, affermarono di aver predetto il terremoto italiano. La previsione era stata fatta osservando immagini da satellite che mostrano la formazione di nubi lineari lungo il versante orientale degli Appennini. Secondo Guangmeng e Jie, formazioni nuvolose lineari e stazionarie, possibili precursori del terremoto del 20 Maggio 2012, si erano formate lungo gli Appennini nei giorni 22 e 23 Aprile 2012. Questa osservazione aveva convinto i due ricercatori a formulare una previsione di un sisma di Magnitudo 6 che si sarebbe verificato da qualche parte in Italia entro un mese. La previsione sarebbe stata comunicata a due loro colleghi. Come prova a supporto della loro “profezia”, Guangmeng e Jie fecero notare che la formazione da loro riportata era pressoché orientata in direzione NW-SE, come le principali faglie attive presenti nell’Italia centrale. Circa un mese dopo, il 20 Maggio 2012, un terremoto di magnitudo 6 si verificò nella valle del Po. Il processo di riesame ha come scopo primario verificare se realmente esista un legame tra l’attività sismica e le anomalie che sono identificate, in maniera retrospettiva, prima di forti terremoti, sia nel campo magnetico terrestre sia in parametri ionosferici. Il riesame dei precursori dei terremoti, con la pubblicazione negli ultimi quattro anni di circa venti articoli su importanti riviste internazionali, ha evidenziato che in molti studi le anomalie magnetiche e ionosferiche sono state messe in relazione con l’attività sismica senza analizzare a fondo altre possibili cause. Si è dimostrato che queste anomalie sono in realtà strettamente correlate con l’attività geomagnetica indotta dall’interazione Terra-Sole, oppure sono artefatti legati alla metodologia adottata nell’analisi dei dati. All’interno del processo di riesame dei precursori dei terremoti, si è anche analizzata la nube lineare stazionaria ritenuta da Guangmeng and Jie precursore del terremoto emiliano del 20 Maggio 2012. Si è dimostrato che la sua formazione è in realtà un normale fenomeno atmosferico che non ha alcuna relazione con l’attività sismica. Chiaramente, se formazioni nuvolose fossero correlate con l’attività sismica, questo sarebbe un importante sviluppo per la Scienza della previsione dei terremoti. Tuttavia, come si può riscontrare in altre pubblicazioni, i precedenti esempi di formazioni di nubi come precursori sono poco chiari, aneddotici e soprattutto privi di prove scientificamente valide. Per verificare se nubi lineari si formino effettivamente sopra l’Italia prima del verificarsi di un terremoto, Thomas et al. hanno analizzato le stesse immagini satellitari nell’infrarosso utilizzate da Guangmeng e Jie, disponibili presso la società meteo SAT24. Esaminando quattro anni d’immagini orarie (2010-2013) gli Autori hanno messo in evidenza che formazioni di nubi lineari stazionarie sono spesso presenti lungo gli Appennini, indipendentemente da ogni rilevante attività sismica. La nube lineare identificata da Guangmeng e Jie il 22 Aprile 2012 come possibile precursore del terremoto del 20 Maggio, è solo una di queste nubi. Nell’articolo Thomas et al. riportano una selezione di 24 immagini di nubi lineari, mentre nel materiale supplementare dell’articolo sono anche disponibili alcuni filmati che mostrano la formazione di queste nubi e la loro evoluzione nelle ore successive. Thomas et al. hanno poi investigato la possibile correlazione tra la formazione di queste nubi lineari con i 14 terremoti di Magnitudo superiore a 5 che si sono verificati nei quattro anni analizzati nell’Area Mediterranea compresa tra l’intervallo di Latitudine 35-48° Nord e Longitudine 6-20° Est. È stato eseguito un test per verificare la significatività statistica tra la presenza delle nubi lineari e i terremoti. Il test ha evidenziato che il presunto legame tra la formazione di nubi lineari, come quella di Guagmeng e Jie, e il verificarsi di terremoti è privo di correlazione statistica. Contrariamente a quanto affermato da Guangmeng e Jie, a pagina 91 del loro articolo, c’è una semplice spiegazione meteorologica per la formazione delle nubi lineari lungo l’Appennino. Questo tipo di nubi sono classificate in meteorologia come Nubi Orografiche. Le nubi orografiche si formano sui fianchi delle montagne, nel nostro caso la catena appenninica, a causa del sollevamento e del successivo raffreddamento di masse d’aria che hanno un contenuto di umidità sufficiente affinché si abbia la formazione di nubi. Nel caso degli Appennini, quando la circolazione è prevalentemente da Sud-Ovest, tali nubi sono confinate sul versante Nord-Est della catena montuosa e rimangono stazionarie per diverse ore poiché sono protette dalla catena stessa, dai venti presenti in quota. Tutte le formazioni nuvolose analizzate da Thomas et al., inclusa quella riportata da Guangmeng e Jie, sono chiaramente nubi orografiche. Essendo le principali faglie attive pressoché orientate con gli Appennini, queste nubi lineari sono solo apparentemente in linea con le faglie stesse. Pertanto, contrariamente a quanto affermato da Guangmeng e Jie, il disporsi delle nubi in direzione delle faglie non è prova del loro legame con l’attività sismica. Un’ulteriore osservazione che può essere fatta alla previsione di Guangmeng e Jie, è che la formazione lineare del 22 Aprile 2012 si è sviluppata parallela a tutto l’Appennino centro-meridionale, una regione tettonica caratterizzata da un’estensione in direzione NE-SW e faglie normali, mentre il terremoto del 20 Maggio 2012, che essi affermano di aver predetto, si è verificato nella Pianura Padana, una regione tettonica caratterizzata da una compressione Nord-Sud che produce faglie inverse in direzione Est-Ovest. Guangmeng e Jie non spiegano come una nube lineare presente nell’Appennino centro-meridionale possa essere correlata a un terremoto avvenuto in un’altra zona d’Italia, che oltretutto presenta caratteristiche tettoniche diverse. Quindi, pur volendo considerare la previsione di Guangmeng e Jie un “successo” casuale, è evidente che essa non ha nessuna base scientifica per esserlo. Al contrario, vi sono forti evidenze scientifiche che ne smentiscono la validità. Il fatto che il terremoto del 20 Maggio 2012 nella valle del Po sia stato preceduto un mese prima dalla formazione di nubi lineari, è chiaramente solo una casualità, nella quale Guangmeng e Jie hanno voluto riscontrare un inesistente legame naturale tra due fenomeni geofisici differenti. Se dati geofisici sono analizzati in maniera retrospettiva è facile trovare presunte anomalie nelle ore, nei giorni, o nei mesi prima di un terremoto, ma ciò non significa che queste debbano essere necessariamente correlate, in senso causale, con il seguente terremoto se non si dimostra in maniera esaustiva il legame ipotizzato tra i due eventi. La Storia sismica italiana docet. La Primavera-Estate del 1781 fu un periodo particolarmente difficile per le popolazioni dell’Italia centro-orientale. Nell’arco di soli quattro mesi, tra il 4 Aprile e il 17 Luglio ben tre terremoti molto significativi si verificarono in Romagna e nelle Marche settentrionali. L’intera area interessata apparteneva a diverse regioni dello Stato pontificio ed è negli archivi degli uffici periferici e centrali dell’Amministrazione papale che si conserva la parte più consistente dei documenti coevi necessari per ricostruire gli effetti di questi terremoti. Gli eventi furono localizzati alle due estremità di un tratto di catena appenninica che si estende per circa 130 Km in linea d’aria tra il Forlivese a Nord e l’area di Cagli-Fabriano a Sud. Il più forte e disastroso di questi terremoti, uno dei massimi eventi sismici dell’Italia centrale (magnitudo Mw 6.4 e Intensità pari al grado 10 della Scala macrosismica Mercalli-Cancani-Sieberg), ebbe luogo la mattina di Domenica 3 Giugno 1781. I suoi maggiori effetti interessarono l’area appenninica che si trova al confine attuale tra Marche settentrionali, Umbria e Toscana, e in particolare l’area compresa tra Cagli e Piobbico, nell’entroterra appenninico della odierna Provincia di Pesaro-Urbino. All’epoca era un’area caratterizzata da una fitta rete di insediamenti rurali di modeste dimensioni e di poderi isolati facenti capo a chiese parrocchiali e pievanili. Qui si ebbero gravissime ed estese distruzioni (“buona parte delle parrocchiali, e un’infinità di case coloniche sono del tutto rovinate”). La coincidenza del terremoto con l’importante festa liturgica della Domenica di Pentecoste, contribuì ad accentuare il numero delle vittime. La mortalità, infatti, fu abbastanza elevata principalmente a causa del crollo di numerose chiese rurali. Come osserva un cronista contemporaneo: “il massimo però degli effetti tragici di questo sì orribile castigo si è rovesciato nella campagna attorno alla città predetta (Cagli, NdA) con essere diroccate interamente da settecento case rurali, compresovi quasi tutte le chiese tutte de’ curati, dicesi tutte perite, ed estinte, al tempo in cui li poveri curati celebravano al loro popolo la Santa Messa, e contasi la mortalità di campagna a novecento e più persone con li curati che sopra, ed in seguito restò sotto sassi gran quantità di bestiame” (Pichi, 1781). Le perdite umane in realtà sembrano essere state più contenute. Gli studi più accreditati, basati su documenti riepilogativi coevi per lo più conservati nell’Archivio di Stato di Pesaro, sembrano suggerire da un minimo di 260 a un massimo di poco più di 300 morti. Numeri elevatissimi per un’area rurale, soprattutto considerando le dimensioni relativamente piccole della maggior parte degli insediamenti colpiti. Un testimone di eccezione per il terremoto del 3 Giugno 1781 fu il Vescovo di Cagli, Ludovico Agostino Bertozzi, che dopo essere fortunosamente scampato al crollo della cupola della cattedrale di Cagli, in cui si trovava al momento della scossa, scrisse una relazione delle sue esperienze per il Cardinal Antonelli, Protettore della città di Cagli (Bertozzi, 1781). Da questa lettera è possibile ricostruire la cronologia delle scosse avvenute quel 3 Giugno. Dopo una prima e lieve, forse avvertita nella notte tra il 2 e il 3 Giugno (“sostengono certuni d’aver sentita una piccola concussione”), due scosse fortissime si verificarono la mattina del giorno 3, alle 11 e alle 11:15 italiane (secondo l’uso orario “all’italiana” in vigore all’epoca), corrispondenti alle 7 e alle 7:15 circa, ora locale, cioè le 6 e le 6:15 GMT. La prima, che potrebbe essere stata la più violenta, causò il crollo della cupola del Duomo di Cagli, in cui rimasero uccisi molti dei fedeli che gremivano la cattedrale per la messa mattutina: “rimanendo vittima, e sepolti tutti quelli, che ivi in buon numero in quella festiva giornata si trovavano radunati ad ascoltare la Santa Messa. Quelli che trovavansi nelle case sentendo che il continuo tremare non cessava, si risolvettero di uscirne ed ottima fu la loro ispirazione, poiché sette minuti dopo in circa sopravvenne un’altra scossa di terremoto così fiera, e veemente, che fuori di poche, tutte quante rimasero le abitazioni in tutto, o in parte abbattute” (Succinto ragguaglio, 1781). Effetti di estrema gravità si ebbero in particolare a Piobbico (PU) “rovinato affatto ” e in alcune località rurali nell’area del Monte Nerone e del monte di Montiego (Ca’ Magagno, Ravignana, Rocca Leonella, Pieve di Accinelli e Naro). Tra le molte epigrafi commemorative del terremoto è da segnalare quella che nella chiesetta rurale di San Donato dei Pecorari (Piobbico) ricorda come l’edificio “il 3 giugno 1781 crollò a terrà quasi completamente per il terremoto trovandovi morte e sepoltura l’eccellentissimo parroco Domenico Crini, che vi stava celebrando la messa, insieme a 48 parrocchiani”. Tra le località di dimensioni relativamente maggiori, Cagli e Apecchio furono le più gravemente colpite. Una fonte archivistica dell’epoca riporta che “nella terra d’Apecchio tutte le sue fabbriche, Chiese, Palazzo apostolico, forni, molini e case rurali del territorio sono affatto atterrate, e vi sono periti molti di quegli abitanti senza sapersene finora il numero”. A Cagli i danni furono enormi, gran parte degli edifici pubblici e privati subirono crolli o rimasero gravemente lesionati. Gravi ma meno diffuse distruzioni si ebbero a Sant’Angelo in Vado, dove il crollo della volta di una chiesa uccise 6 persone e “tutte le fabbriche e le case hanno patito e non poche sono in pericolo”; a Mercatello sul Metauro, dove “non vi è casa che non abbia sofferto discapiti considerabili, ed alcune le più eminenti qualche diroccamento, onde niuno s’azzarda di entrarvi”; e a Urbania dove “cadde alle prime scosse il coro delle Monache di Santa Chiara. Ogni Chiesa, ed ogni casa ha sofferto qualche considerabile danno, ma diroccate, e cadute non sono che nella maggior parte le mura castellane”. L’area di danneggiamento moderato, molto estesa, raggiunse ad ovest Città di Castello, dove ci furono danni diffusi ma complessivamente non gravi (“patirono delle case, caddero dei camini, e ventaglie dei tetti, e qualche piancito di casa”), e Sansepolcro, a nord Urbino (“poche sono quelle case, che non ne abbiano sentito quamche notabile nocumento”), Fossombrone (“sono rimaste alquanto danneggiate alcune chiese e case di questa città”) e Fano, a est Pergola, a sud Gubbio, Cingoli, Arcevia e Fabriano. Danni ancora più lievi si ebbero a Senigallia, Pesaro e Arezzo. Gli scienziati dispongono di relativamente pochi dati sull’estensione dell’area di risentimento. Questa comprese comunque buona parte della Toscana, da Firenze, dove il terremoto fu avvertito in modo leggero, all’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, una quarantina di chilometri a sud di Siena, e in Romagna almeno fino a Ravenna, dove il 3 Giugno “alle 11 circa si sentirono due leggiere scosse”. Per quanto riguarda la sequenza sismica, dopo le due forti scosse della mattina nel corso della stessa giornata del 3 Giugno furono avvertite altre sette-otto repliche, più leggere e di minor durata rispetto alle prime due. La notte tra il 3 e il 4 Giugno “sino alla mattina del giorno seguente, sempre continuò a tremare la terra”. Il 7 Giugno fu avvertita una forte replica che causò qualche danno ulteriore (“una terribile scossa fece cadere altre macerie”). Scosse “non tanto gagliarde” sono segnalate durante tutto il mese di Luglio e, meno frequentemente, in Agosto e fino a Novembre (Monachesi, 1987). Le forti scosse della mattinata del 3 Giugno causarono anche effetti sull’ambiente naturale. Come ricorda anche Mario Baratta (1901), nella zona del Monte Nerone, in particolare, si verificò una varietà di fenomeni idrogeologici come “fenditure nel suolo, straordinaria perturbazione nel regime delle sorgenti, varii franamenti, fenomeni acustici”. Dal monte Jego si staccarono grossi massi. L’evento del 3 Giugno fu il più violento, ma non l’unico forte terremoto che in quello scorcio di Primavera-Estate dell’Anno Domini 1781 colpì il settore orientale dell’Appennino settentrionale. Il 4 Aprile e poi di nuovo il 17 Luglio dello stesso anno due forti scosse interessarono la Romagna, causando gravi ed estesi danni tra Faentino e Forlivese. Le aree colpite dai terremoti del 4 Aprile (Mw 5.9) e del 17 Luglio (Mw 5.6) risultano in buona parte sovrapposte, mentre quella colpita dal terremoto del 3 Giugno è decisamente spostata più a Sud-Est. E, tuttavia, i tre eventi furono sufficientemente ravvicinati nel tempo e nello spazio da poter ragionevolmente pensare che abbiano generato una situazione di allarme crescente e prolungato in una vasta area dell’Italia centrale a cavallo dell’Appennino, compresi diversi centri dove le scosse causarono solo lievi danni o furono solo ripetutamente avvertite in città come Firenze, Arezzo, Pesaro, Rimini e Ravenna. L’occorrenza di forti scosse ravvicinate non solo nel tempo ma anche nello spazio geografico, è una caratteristica che sembra ricorrere con una certa frequenza nella storia sismica italiana. Nell’Appennino settentrionale, incluso il settore di catena colpito dagli eventi del 1781, è molto significativa la serie di forti terremoti avvenuti nella prima metà del XX Secolo nell’arco di soli cinque anni, tra il 1916 e il 1920, con una curiosa “migrazione” degli epicentri da Sud-Est a Nord-Ovest. Nel 1916 una lunga e complessa sequenza sismica colpì la costa adriatica tra Pesaro e Rimini, con due eventi principali (17 Maggio, Mw 6.0; e 16 Agosto, Mw 6.1, entrambi con Intensità 8 MCS); il 26 Aprile 1917 toccò all’alta Valtiberina, nella zona di Monterchi (AR) e Citerna (PG), con Mw 5.9 (I. 9-10 MCS); il 10 Novembre 1918 furono gravemente danneggiati Santa Sofia (FC) e altri centri dell’Appennino forlivese (Mw 5.9, I. 9 MCS); poco più di 7 mesi dopo, il 29 Giugno 1919, fu la volta del Mugello con Mw 6.3 (I. 10 MCS) e gravi distruzioni tra Vicchio e Borgo San Lorenzo (FI); il 7 Settembre 1920 si verificò il più forte terremoto finora registrato nell’Appennino settentrionale (Mw 6.5, I. 10 MCS), il cui epicentro fu in Garfagnana e Lunigiana, dove ci furono vaste distruzioni e centinaia di vittime. Con queste le parole Leopoldo Pilla descrive il terremoto del 14 Agosto 1846 che colpì la Toscana occidentale. “Ecco che la sala comincia da prima a vibrare; alla vibrazione succede un agitazione violenta in direzione orizzontale con un rumore vorticoso orribile. Accorro ad una delle finestre che mette nel giardino di una prossima casa, e quivi fui testimonio di uno de’ spettacoli più terribili, che possono occorrere allo sguardo dell’uomo. Le case dintorno erano agitate in una maniera spaventevole; gli alberi del giardino co’ loro movimenti annunziavano la violenta agitazione dell’atmosfera; questi movimenti associati a quelli della sala in cui io ero mi produssero una vertigine, la quale mi obbligò ad aggrapparmi alla finestra. L’agitazione seguiva evidentemente in direzione orizzontale di va e vieni, ma con violenza estrema. In tale terribile situazione cominciano a cadermi addosso calcinacci dalla sala; le grida che si sollevavano dalle case vicine aumentavano l’orrore del flagello. Fu un istante che io credei la città nabissare. Allora sospinto da un impulso istintivo ascendo sulla finestra per saltare nel sottoposto giardino. Ma un residuo di riflessione mi ritenne. Il suolo a poco a poco ritornò nella sua primiera tranquillità”. Pilla era titolare della cattedra di geologia all’Università di Pisa e quel giorno si trovava nelle sale del Museo di Storia Naturale, dove ancora oggi ha sede il Dipartimento di Scienze della Terra. Il racconto è contenuto in un opuscolo dato alle stampe cinque giorni dopo il terremoto che ha la peculiarità di interessare un’area prossima alla costa tirrenica Toscana. Certo conosciuta per non essere fra le più sismiche in Italia. Il terremoto dell’Agosto 1846, infatti, fu un evento distruttivo che colpì un’area caratterizzata da una sismicità “moderata”, di livello medio-basso, decisamente meno intensa e frequente di quella che caratterizza il tratto di catena appenninica che si estende dalla Lunigiana-Garfagnana alla Val Tiberina, passando per il Mugello, solo per rimanere in Toscana. A tutt’oggi la magnitudo stimata sulla base degli effetti del terremoto (Mw 5.9) rimane la magnitudo più elevata di tutta la costa tirrenica, dalla Toscana fino alla Campania. Molte informazioni su questo terremoto derivano dalle estese descrizioni sui suoi effetti e sulle interpretazioni geologiche scritte degli studiosi dell’Università di Pisa che percorsero in lungo e in largo il territorio colpito dall’evento e riportarono le loro osservazioni in diversi libri monografici. La scossa principale avvenne il 14 Agosto 1846 alle 12:53 e fu seguita da un’altra forte alle ore 22 dello stesso giorno. Fu colpita l’area collinare al confine tra le attuali province di Pisa e di Livorno, compresa tra le valli dei fiumi Arno, a Nord, e Cecina a Sud. I centri maggiormente danneggiati furono quelli situati nella valle del torrente Fine e sulle colline che si estendono a Sud di Pontedera e della valle dell’Arno, ad Est della città di Livorno. Danni molto gravi interessarono anche alcuni paesi collocati più a Sud, nella valle del fiume Cecina. Gli studiosi di sismologia storica che hanno studiato questo terremoto (Albini et al. 1991; Guidoboni et al. 2007) ne hanno ricostruito lo scenario degli effetti sul territorio partendo dal recupero e da un’analisi critica e approfondita della ricca documentazione prodotta all’epoca dell’evento: fonti storiche di vario tipo, come cronache giornalistiche, documenti amministrativi di archivio, perizie tecniche di danni, relazioni scientifiche, fonti memorialistiche e storiografiche. A queste si aggiungono le relazioni degli studiosi che si recarono sul posto per rilevare personalmente gli effetti nelle località danneggiate, tra cui spiccano per importanza quelle di Leopoldo Pilla e di Paolo Savi, che forniscono un contributo prezioso e rilevante alla conoscenza degli effetti sull’edilizia e sull’ambiente della zona. L’area colpita all’epoca apparteneva al Granducato di Toscana, governato da Leopoldo II di Lorena (1824-1859). L’economia della zona era essenzialmente agricola, con una diffusa presenza di case rurali su fondi agricoli. Il terremoto si verificò in un periodo di crisi economica, poiché l’annata del 1846 fu caratterizzata da scarsi raccolti. I ceti meno abbienti furono i più colpiti non solo per la sfavorevole congiuntura in corso, ma anche perché un’elevata percentuale di crolli riguardò proprio le case coloniche e i villaggi della campagna, costruiti prevalentemente con materiali scadenti e secondo sistemi edilizi non adeguati a resistere a scosse sismiche (Guidoboni et al., 2007). Il paese più gravemente colpito fu Orciano Pisano, nella Val di Fine, dove l’Intensità della scossa raggiunse il grado 10 della scala macrosismica Mercalli-Cancani-Sieberg. Il terremoto, preceduto e seguito da forti rumori sotterranei, causò il crollo totale o parziale di gran parte degli edifici dell’abitato. Le case dei contadini nella campagna circostante si sgretolarono. Solo alcune abitazioni signorili non crollarono e riportarono “soltanto” lesioni e fenditure nelle murature. Secondo Baratta (1901) complessivamente andò distrutto circa l’88 percento del patrimonio edilizio del paese. Danni gravissimi e molti crolli avvennero anche a Crespina, Lorenzana e in alcune località degli attuali comuni di Fauglia (Luciana, Pagliana) e di Casciana Terme (Vivaia). Tutti paesi che, come Orciano, oggi si trovano in provincia di Pisa. Anche in questi centri l’entità dei danni fu aggravata dallo stato di fatiscenza delle case contadine. La scossa distrusse anche gran parte dell’abitato di Guardistallo, paese situato una ventina di chilometri a Sud di Orciano, nella valle del fiume Cecina. La parte alta del castello fu ridotta ad un cumulo di macerie (Guidoboni et al., 2007). In una ventina di altre località, fra cui Montescudaio, Casale Marittimo, Casciana Alta e Fauglia, ci furono gravi danni, per lo più crolli parziali e dissesti strutturali estesi a gran parte del patrimonio edilizio. In particolare, a Montescudaio il terremoto causò il crollo dell’antico castello e degli edifici adiacenti, nella parte alta del paese. Fra i centri del Livornese maggiormente colpiti ci furono alcune frazioni dell’attuale Comune di Collesalvetti (Castell’Anselmo, Parrana San Martino, Nugola, Torretta Vecchia) e del Comune di Rosignano Marittimo (Castelnuovo della Misericordia). In numerosi centri della Toscana occidentale, fra cui Pisa e Livorno, ci furono danni meno gravi, ma comunque estesi. A Livorno molte case rimasero lesionate, in particolare nella parte più vecchia della città; furono danneggiati i campanili del duomo e della chiesa della Misericordia. Danni interessarono anche alcune ville sui fianchi del Monte Nero, soprastante la città. Enorme fu il panico tra la popolazione che trascorse la notte all’aperto dormendo nelle pubbliche piazze o sulle barche, oppure accampata sotto tende e ripari di fortuna eretti nelle campagne e colline circostanti. Per quanto riguarda Pisa, Leopoldo Pilla (1846) attesta una durata della scossa principale tra i 20 e i 30 secondi: i danni in città furono diffusi, anche se prevalentemente leggeri. Molti edifici riportarono fenditure, lesioni e sconnessioni varie. Crollò l’arcata centrale della chiesa di San Michele in Borgo e un’arcata della chiesa di San Francesco ai Ferri. Danni lievi si ebbero anche nel duomo e nel battistero. Il terremoto causò danni ingenti anche a Volterra, località posta su un colle che domina tutta l’alta Val di Cecina. Nelle sue memorie Leopoldo II di Lorena scrisse che il podestà gli aveva comunicato che a Volterra erano state danneggiate le carceri, con la caduta della volta di una camerata di detenuti, otto dei quali rimasero feriti. Le torri annesse al palazzo dei Priori e del Pretorio furono gravemente danneggiate. È attestata una vittima a causa della caduta di una pietra dal palazzo dei Priori. Danni moderati interessarono Fucecchio, San Miniato e Santa Croce sull’Arno, paesi del Valdarno inferiore situati al confine tra le attuali province di Firenze e di Pisa, ad oltre 30 Km dall’area dei massimi effetti verso Nord-Est. Danni più leggeri si ebbero in Versilia (Pietrasanta) fino a Massa e Lucca. Verso Sud l’intensità del terremoto decrebbe più rapidamente: a Cecina, situata una ventina di chilometri a Sud di Orciano, ci furono danni per lo più leggeri; a Donoratico, a meno di 40 Km dall’area epicentrale, addirittura la scossa fu solo avvertita. La principale fu percepita più o meno sensibilmente in una vasta area dell’Italia centro-settentrionale. Numerose repliche di minore intensità furono sentite per circa 4 mesi, fino alla metà di Dicembre 1846. Oltre a quella avvertita alle 22 dello stesso giorno e la più forte alle ore 15 del giorno successivo, un’altra importante replica avvenne il 27 Agosto, alle ore 9:50. Secondo le fonti ufficiali vi furono complessivamente 60 morti, di cui 18 a Orciano Pisano, su 761 abitanti. Il numero dei feriti fu di circa 400, di cui 170 a Orciano. Nel solo ospedale di Pisa furono ricoverati 150 feriti provenienti dai paesi vicini. I molti trattati pubblicati subito dopo il terremoto descrivono dettagliatamente anche gli effetti sul terreno prodotti dall’evento, estesi a molte località come la magnitudo stimata lascia immaginare. Quelli più comunemente osservati furono fenditure nel terreno, movimenti franosi e smottamenti, nonché cambiamenti nel regime delle acque sotterranee, con formazione di nuove sorgenti minerali e variazioni di colore delle acque termali. Sulla costa livornese e nel porto di Livorno fu segnalato anche un lieve effetto che oggi potrebbe far pensare ad un maremoto: citando fonti coeve, viene riportato come il mare salì velocemente e l’acqua coprì le banchine del porto (Tinti e Maramai, 1996). Non si hanno però elementi per confermare che si tratti per certo di un maremoto. Il fenomeno più interessante, che molti hanno imparato a conoscere dopo il terremoto dell’Emilia del 2012, è sicuramente quello della liquefazione tellurica, descritto da Pilla (1846) in questi termini: “Ne’ lati della strada che conduce a Lorenzana sono alcuni campi coltivi, in mezzo a’ quali si osservavano in più siti alcune strisce rilevate di terreno di un bel colore azzurrognolo, che facea contrasto col colore grigio smorto de’ campi. In quelle strisce si vedeano aperte numerose e piccole cavità in forma d’imbutini regolari, di un diametro variabile fra un pollice ed un piede. Alcuni di questi imbuti versavano a modo di pollìni (piccole polle, NdA) dell’acqua mista con sabbia azzurra. L’acqua che versavano era fredda, potabile, ed in qualche sito leggermente ferruginosa”. Il fenomeno si verificò nella località oggi conosciuta come Acciaiolo, nel Comune di Fauglia, in provincia di Pisa, e fu così curioso e nuovo per Pilla che lo rappresentò con una figura originale. Recentemente una tesi di laurea inedita svolta all’Università di Pisa ha rianalizzato gli effetti del terremoto, tra cui la liquefazione, e ha valutato l’effetto di risonanza che potrebbe aver interessato la collina su cui sorge Orciano (Bendinelli, 2012). Dal punto di vista geologico-strutturale e sismologico gli scienziati rilevano che il terremoto del 1846 sembra essere ben spiegato dalle conoscenze di carattere generale che si hanno dell’area, per quanto non si siano avute evidenze di fagliazione superficiale che potrebbero supportare l’interpretazione. A partire dal Tortoniano Superiore, grosso modo gli ultimi 8 milioni di anni, l’area è caratterizzata da una tettonica distensiva che dal Tirreno si estende fino all’Appennino Settentrionale e che forma una serie di depressioni orientate Nord-Sud, parallele tra loro, corrispo
denti alle attuali Val di Fine, Valdera, Valdelsa, secondo quella che dai vecchi Autori veniva definita una struttura a “horst” e “graben”. Ma più precisamente viene interpretata oggi come una gradinata di faglie normali immergenti verso il Tirreno, all’interno delle quali faglie antitetiche fanno collassare e ruotare blocchi minori. Le evidenze sulla probabile struttura sismogenetica responsabile di questo terremoto sono riassunte nel Database delle Sorgenti Sismogenetiche Individuali italiane (DISS). Quello che resta ancora completamente da spiegare è la magnitudo elevata (Mw 5.9). Infatti, per quanto si tratti di una valutazione basata sulla distribuzione e l’entità degli effetti macrosismici stimati secondo la scala di intensità MCS, tale valore appare attendibile e costituisce il massimo evento di un’area interessata da elevato flusso di calore dal sottosuolo (all’interno, per quanto ai bordi, dell’area geotermica di Larderello) dove non ci si aspetterebbe la presenza di strutture così estese da poter produrre una magnitudo così elevata. Quello attorno alla metà del XIX Secolo è un periodo in cui il mondo accademico e scientifico era in grande fermento e sviluppo. Nell’Ottobre del 1839 fu organizzata a Pisa la Prima Riunione degli Scienziati Italiani, ben 22 anni prima della proclamazione del Regno d’Italia. In qualche modo gli scienziati avevano già abbattuto le frontiere e si erano proclamati appartenenti ad uno Stato che ancora non esisteva. Come oggi per gli Stati Uniti d’Europa insieme alla Russia, che sono già una concretà realtà scientifica e tecnologica. Tra i protagonisti di quella riunione, vi fu Paolo Savi, ordinario di Zoologia e forse primo geologo dell’Ateneo pisano, che presentò relazioni sulla geologia dei Monti Pisani e sui combustibili fossili in Toscana. Il tema dei combustibili fossili era di primaria importanza per il Granduca: servivano fonti di energia (progetti concreti e non chiacchiere a zero!) per lo sviluppo della Toscana e si guardava ai depositi di lignite di Montebamboli, in provincia di Grosseto, come possibile area di estrazione. Nel 1842 fu chiamato a Pisa da Napoli Leopoldo Pilla e gli venne affidata la prima vera cattedra di geologia, mentre Savi mantenne le discipline biologiche (Corsi, 2001). Tra i due iniziò un vivace dibattito scientifico sulla qualità ed estensione del giacimento di ligniti, che poi si estese ad altri argomenti, compreso il terremoto di Orciano. Pilla si trovava all’Università quando si verificò il terremoto avviene. Ripresosi dallo spavento, come scrisse, scese per strada: “escii dal Museo, e trovai le strade della città ingombre di gente, la quale nel volto portava dipinto tutto il terrore che avea dentro provato. Era da per tutto quel silenzio, di cui parla Tacito, che si vede espresso nel popolo quando è agitato da un forte pensiero comune. Dopo essermi assicurato della salvezza delle persone più care, il mio primo pensiero corse al Campanile del Duomo. Trassi subito a vedere che cosa ne fosse. Quale fu la mia sorpresa nel vederlo ritto e stabile come innanzi!”(Pilla, 1846). Il suo libretto, “Poche parole sul tremuoto che ha desolato i paesi della costa toscana”, scritto immediatamente dopo l’evento, ebbe un grosso successo commerciale con oltre mille copie vendute in pochi giorni e Pilla fu per questo accusato dai colleghi di aver lucrato sulla disgrazia (Corsi, 2001). Ma anche la descrizione del terremoto e la sua interpretazione furono oggetto di accuse. Di Savi in particolare. Pilla non si era mai mosso da Pisa e attribuì il terremoto ad un vulcano posto in Italia del Sud, facendo presagire che un vulcano stesse sorgendo nell’area del terremoto. Gli effetti distruttivi del terremoto non indicherebbero l’epicentro ma sarebbero dovuti a fenomeni di propagazione. Savi, che conosceva meglio le zone, a seguito di una ricognizione sul posto scrisse una sua lunga memoria (Savi, 1846) in cui riconobbe l’origine tettonica del terremoto e individuò l’epicentro nella Val di Fine (i termini scientifici sono quelli che usiamo oggi, ma che al tempo non esistevano). Pilla a sua volta compì una lunga ricerca sul terreno lasciando un trattato (Pilla, 1846) che descrive minuziosamente, località per località, gli effetti e i danni del terremoto. La diatriba tra i due luminari ebbe però il merito di produrre quelli che oggi possiamo considerare i più antichi esempi di analisi moderna di un evento sismico. Leopoldo Pilla morì due anni dopo alla guida del battaglione di studenti dell’Università di Pisa nella Battaglia di Curtatone nella Prima Guerra di Indipendenza. Il Granduca di Toscana Leopoldo II si adoperò subito dopo il sisma per organizzare il soccorso alle popolazioni colpite. La settimana successiva si recò in visita nei paesi devastati e appena 15 giorni dopo l’evento emanò un decreto che regolava i provvedimenti da attuare, secondo due linee guida: attuare un pronto intervento ed evitare il rischio che scoppiassero tumulti popolari dovuti al panico. Altrove bisognava “fare gli Italiani”, azzerando tutto! Utilizzando la struttura amministrativa esistente, senza creare nuovi organismi, venne avviato un rapido censimento dei danni che dopo soli tre mesi consentì di stimare l’ammontare dei costi per la riparazione degli edifici nei 15 comuni maggiormente colpiti. Alla fine di Ottobre dello stesso anno iniziò la ricostruzione e la popolazione cominciò ad abbandonare le baracche. Gli aiuti furono distribuiti anche in base alle condizioni economiche. Si tenne in considerazione se una famiglia fosse stata in grado di provvedere da sola a ricostruire o riparare la propria abitazione, oppure se poteva contribuire in parte o infine se non era assolutamente in grado a contribuire economicamente. Secondo quanto ricorda Della Pina (2004) fu un esempio di Buongoverno, decisamente moderno, scientifico e responsabile considerata l’epoca storica. Il terremoto del 14 Agosto 1846 venne estesamente ricordato nelle memorie del Granduca Leopoldo II di Lorena, che visitò personalmente i paesi più colpiti. Il Granduca, una volta abbandonata la Toscana in seguito alla frettolosa e cruenta Unità d’Italia, nelle sue memorie raccontò quanto fosse stato un regnante illuminato. Anche il terremoto fu un’occasione per mostrarsi un buon amministratore e lo consegnò alla Storia nei suoi diari. Curioso è l’aneddoto riportato in un libro che approfondisce l’analisi sulle memorie di Leopoldo II. Secondo Aurelio Pellegrini in “Le certezze del Granduca. Leopoldo II e le sue troppe memorie” (Pellegrini, 2009) confrontando i taccuini originali scritti dal Granduca e la versione pubblicata, si notano differenze talvolta importanti su come vengono raccontati alcuni avvenimenti importanti. Per quanto riguarda il sisma, i taccuini scritti sul momento rappresentano una situazione più caotica di quella poi tramandata, in cui qualcuno prova ad approfittarne. Si narra che a Montescudaio la chiesa danneggiata, ma non distrutta, venne individuata come ricovero per la popolazione. Ma improvvisamente la chiesa non esisteva più: l’Abate Quirino Bussotti la fece abbattere per farsene costruire una nuova e più bella. Il Granduca non riportò questo fatto nelle sue memorie, ma si ricorderà dell’abate di Montescudaio, tanto che sarà l’ultima chiesa a essere ricostruita, ben 10 anni dopo il terremoto. A 170 anni dal terremoto del 1846 si potrebbe pensare che ne resti ben poco, tranne i documenti d’archivio e qualche vecchio libro. In realtà basta guardarsi in giro con un po’ di attenzione per accorgersi che non è così. Sono parecchie le lapidi commemorative erette dall’iniziativa di comunità, gruppi professionali e singoli cittadini per ricordare la ricostruzione di edifici pubblici, case e chiese o per lasciare una traccia tangibile della propria riconoscenza per lo scampato pericolo. Il sito Lapicidata propone una piccola antologia di queste iscrizioni. Ma non sono solo le pietre a conservare il ricordo del terremoto del 1846. Ci sono anche i “rituali sismici collettivi” praticati annualmente da diverse comunità (Castelli, 2011). Quello delle manifestazioni sociali di terremoti celebrate un po’ dappertutto in Italia, spesso da secoli e senza interruzioni grazie alla pietà popolare cristiana, è un fenomeno che tende a restare pressoché ignorato al di fuori dei luoghi che ne sono teatro. Eppure il valore antropologico, culturale, sociale e politico di queste manifestazioni è vastissimo, non solo dal punto di vista storico e spirituale ma anche perché ex voto, processioni e feste patronali sono elementi preziosi per la ricostruzione della Storia sismica dell’Italia. Al momento si sono potute individuare almeno cinque località (Casciana Terme, Fucecchio, Ponsacco, Ripafratta e Siena) dove ancora oggi, ogni 14 Agosto, alle ore 13 locali, si celebrano sante messe, processioni e pellegrinaggi per conservare la Memoria della “grazia” ricevuta da Dio per lo scampato pericolo in occasione del terremoto del 1846 e per trasmetterla alle future generazioni. In diverse occasioni si è riscontrato che terremoti e attività vulcanica sono associati a variazioni, o segnali, magnetici, elettrici ed elettromagnetici (segnali EM, tanto cari all’ingegnere Geordi La Forge sulla nave interstellare Enterprise, nella serie televisiva di fantascienza “Star Trek The Next Generation”, interpretato dall’attore LeVar Burton) di origine naturale. Su questo argomento è disponibile una vastissima letteratura e in diversi testi di Geofisica si trovano capitoli che trattano di sismo-magnetismo e/o vulcano-magnetismo, termini usati per classificare le discipline che studiano questi aspetti. Negli ultimi decenni osservazioni effettuate in molte aree del mondo hanno permesso di raccogliere una grande quantità di segnali che mostrano variazioni EM associabili a eventi tettonici e vulcanici. Molti ricercatori si sono impegnati a trovare meccanismi teorici per mettere in relazione questi segnali EM con gli eventi naturali (e non) che li genererebbero. Sono passati più di 400 anni da quando William Gilbert pubblicò il suo “De Magnete, Magneticisque Corporibus, et de Magno Magnete Tellure” (Sul magnete, i corpi magnetici e sul grande magnete Terra) nel quale si osserva che il magnetismo della Terra era una proprietà planetaria permanente e che proviene dal suo interno. Pochi decenni più tardi Henry Gellibrand mostrò che il campo magnetico terrestre mostra anche una lenta variazione temporale, detta in seguito “variazione secolare”. Oggi le nostre conoscenze sul magnetismo in generale e sul magnetismo terrestre in particolare, sono notevolmente accresciute ma, come spesso accade, più si conosce e più problemi si aprono. Il campo magnetico terrestre è generato nel profondo interno della Terra, nel nucleo fluido che, oltre ad essere soggetto alla variazione secolare, è anche soggetto a moltissime altre variazioni temporali che sono connesse all’ambiente nel quale siamo immersi. Un pianeta permeato da segnali EM, per la maggior parte originanti dall’interazione tra Sole e Terra, ma anche nell’atmosfera (dai fulmini) o comunque nello spazio circumterrestre (Bianchi e Meloni, 2007). Un ambito molto ricco di segnali EM al quale, da circa un secolo o poco più, abbiamo aggiunto anche quelli di origine artificiale: TV, radio, internet, linee di alta tensione, energia nucleare. Segnali facilmente identificabili e interpretabili da civiltà aliene extraterrestri. Quindi, un’indagine sui fenomeni sismo-magnetici non può essere correttamente effettuata prima di aver isolato l’eventuale contributo tettonico dal segnale EM che vogliamo studiare, per dirla alla Geordi La Forge. Solo una volta separato il segnale di nostro interesse dal fondo EM, è possibile provare a cercare una relazione fra i due fenomeni. È utile anche precisare che le variazioni EM riportate in letteratura ricadono in una vasta gamma di frequenza (da DC a VHF) e gli effetti osservati sono legati all’intensità del fenomeno. Per i terremoti, ad esempio, dalla Magnitudo e dalla Distanza tra la sorgente del segnale e le apparecchiature di monitoraggio EM. I fenomeni riportati sono più evidenti se le Magnitudo sono elevate e se l’osservazione EM viene effettuata in vicinanza dell’area epicentrale. Nella letteratura scientifica internazionale si trovano molti esempi di relazioni fra segnali EM e terremoti. Uno dei primi riguarda il terremoto dell’Alaska di Magnitudo 9.2 del 27 Marzo 1964. È stato il più grande a colpire gli Stati Uniti d’America in epoca moderna e uno dei più potenti finora registrati sulla Terra. Nello stesso anno Moore in un articolo riporta la presenza di perturbazioni del campo magnetico nella banda (ULF; ≤ 10 Hertz) a Kodiak, in Alaska, circa 1-2 ore prima del sisma. A questo lavoro ne seguono molti altri che riportano la presenza di segnali ULF anomali registrati da magnetometri in occasione di altri terremoti (Fraser-Smith et al., 1990; Molchanov et al., 1992; Hayakawa et al., 2000; Simpson and Taflove, 2005, Bleier et al 2009), prodotti da diversi gruppi di ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati in riviste scientifiche “peer review” ben note. Prove ragionevoli sull’esistenza di fluttuazioni del campo EM naturale, associabili a grandi terremoti? Alcuni dei lavori in oggetto sono stati contestati da altri ricercatori, nel pieno spirito del normale dibattito scientifico (Campbell, 2009, Thomas et al., 2012). Tralasciando per ora l’ipotesi, comunque molto interessante, secondo cui le misurazioni indicherebbero che segnali magnetici ULF potrebbero anche essere usate come “precursori” di un evento sismico catastrofico, è del tutto fisicamente naturale che questi segnali possano, in determinate circostanze, emergere dall’interno della Terra proprio in associazione a eventi sismici significativi. Un esempio interessante è proposto in Bleier et al. (2009) nel riportare, prima del terremoto di Alumn Rock in California del 30 Ottobre 2007, di Magnitudo 5.4, il tasso di impulsi magnetici registrato dalla loro strumentazione posta in una stazione di misura collocata a 2 Km dall’epicentro. Tasso che è cresciuto ed è rimasto pressocchè invariato al nuovo livello per circa 2 settimane, per decrescere ai livelli precedenti solo dopo l’evento. Ma come vengono generati questi impulse EM “profetici”? Se si osservano fenomeni a bassa frequenza (ULF) le spiegazioni più supportate per la variazione del campo magnetico locale, che generalmente non supera pochi nanoTesla nel campo magnetico, chiamano in causa gli effetti piezomagnetico e/o elettrocinetico, che possono avere luogo nei volumi di roccia dove avviene la fase di preparazione dell’evento tettonico. Un po’ come sfregare acciaini magnetici, la nuova pietra focaia, per far deflagare la carica elettrica (www.sopravvivenzatotale.com/prodotti-di-sopravvivenza/) nelle scintille. Ma sono stati suggeriti anche altri meccanismi. Tra questi, possibili rapporti fra stress e conducibilità elettrica delle rocce e la conseguente ridistribuzione delle correnti telluriche, o processi di separazione di cariche elettriche e conseguente generazione di campo elettrico, fenomeni magneto-idrodinamici, effetti di magnetizzazione e smagnetizzazione termica, e altro ancora. In buona sostanza, almeno finora, spiegazioni variegate e ragionevoli ma non completamente soddisfacenti sui meccanismi fisici collegati ai fenomeni osservati. Quindi è del tutto inutile prendersela con i giornalisti scientifici. Per descrivere gli impulsi magnetici unipolari, Freund (2008; 2009) ha proposto un modello nel quale le rocce vengono assimilate a semiconduttori e il meccanismo si baserebbe su un accoppiamento di “drift” e diffusione nel semiconduttore associabile alla generazione di campi magnetici in relazione alle correnti elettriche che fluiscono all’interno delle rocce. Tuttavia nel caso di campioni nei quali vi sia saturazione di fluidi, secondo altri autori (Dahlgren et al., 2014) non appare possibile un significativo accumulo di carica elettrica in risposta al lento accumulo di stress che precede i terremoti. Nell’insieme una materia quindi ancora difficile da trattare e sulla quale un’interpretazione univoca sembra ancora impossibile da raggiungere nella comunità scientifica mondiale. Negli ultimi decenni l’Ingv, in collaborazione con l’Università di L’Aquila, ha avviato attività di osservazione dei segnali elettromagnetici in Italia nell’ambito di diversi programmi di ricerca in geomagnetismo. In alcuni casi i dati rilevati sono anche stati usati nella ricerca di possibili fenomeni tettonico-magnetici. L’esempio più rilevante è il terremoto di L’Aquila, il 6 Aprile 2009 alle ore 01:32 UTC, di Magnitudo 6.3. L’epicentro della scossa principale era a soli 6 Km dall’Osservatorio Geomagnetico di L’Aquila, che forniva dati EM in varie bande di frequenza (da DC a ULF). Questi dati sono stati utilizzati per indagare su possibili relazioni con il terremoto. Per l’indagine sono stati utilizzati anche i dati di una seconda stazione di osservazione EM situata a Duronia, circa 100 Km a Sud-Est di L’Aquila. L’analisi dei dati magnetometrici nella banda ULF in operazione a L’Aquila, ha permesso di raggiungere le seguenti conclusioni (Villante et al., 2010 e Di Lorenzo et al., 2011): non si è rilevato alcun aumento nel rumore di fondo precedentemente al terremoto in tutta la gamma ULF, effetto trovato in studi analoghi nel caso di terremoti avvenuti a Loma Prieta, Spitak, Guam e Alum Rock; nessun aumento di attività nel campo 10-50 mHz a partire poche ore prima del sisma, caso invece riscontrato a Loma Prieta e Spitak; nessuna variazione del “parametro di polarizzazione” R2 = PZ/PH prima del terremoto (PZ e PH sono le potenze integrate della componente verticale Z e della componente Nord/Sud magnetica H) in un intervallo di frequenza 10-100 mHz, caso questo riscontrato a Guam e Bovec. Confrontando i dati dei magnetometri ottenuti dalle stazioni di L’Aquila e Duronia, e analizzandone la differenza, si è osservato un effetto cosismico, avvenuto contemporaneamente o immediamente dopo il sisma, molto debole di 100-200 picoTesla, percepibile probabilmente perché l’evento ha avuto luogo di notte e quindi il rumore artificiale era molto basso. Effetto attribuibile a un fenomeno di origine sismica. Il decadimento della differenza nel campo magnetico, nel transitorio cosismico, mostra una costante di tempo di 50-100 secondi, tipico di un’origine elettrocinetica del fenomeno. Quindi, nell’unica occasione utilizzabile per studi sulle variazioni EM in Italia, in anni nei quali sono disponibili osservazioni magnetiche di dettaglio negli eventi sismici, la fenomenologia osservata non consente di affermare di aver rilevato inequivocabilmente una relazione tra questo evento sismico aquilano e segnali elettromagnetici, a parte un evento EM cosismico molto debole in ampiezza. La Scienza non può al momento pensare di poter considerare i segnali EM come utilizzabili nella previsione dei terremoti, per l’incertezza che ancora esiste in questo campo e comunque per l’incompletezza di informazioni che queste variazioni da sole potrebbero fornire. Rimane tuttavia la necessità di approfondire, al livello di ricerca scientifica, questo campo di indagine. È quindi consigliabile e utile per l’innovazione della conoscenza, procedere con le misure EM e con questi studi, includendo, quando possibile, queste misure nel novero dei parametri da tenere sotto controllo in ambito tettonico. Ben altra storia naturale raccontano i Vulcani di Fango che sono edifici troncoconici formatisi in seguito all’emissione di materiale argilloso in superficie. Essi sono generalmente collocati in aree in cui predomina una tettonica compressiva. La sovrappressione dei fluidi interstiziali in depositi profondi, generalmente acque salate fossili, idrati e metano, rendono i sedimenti semiliquidi e li spingono verso la superficie attraverso fratture nella crosta. Il fenomeno è abbastanza diffuso in Italia, ma le manifestazioni più spettacolari si trovano in Emilia Romagna e in Sicilia. I vulcani di fango sono strutture geologiche formatesi in seguito all’emissione di materiale argilloso sulla superficie terrestre. Essi rientrano nella categoria dei processi sedimentari che prevedono la periodica estrusione in superficie di una miscela di idrocarburi liquidi e gassosi, acqua e fango, originatisi in profondità. L’elemento principale, attraverso il quale avviene la fuoriuscita del maggior volume di sedimento, è il condotto di emissione centrale, che talora può presentare delle diramazioni laterali secondarie. Il materiale emesso dai vulcani di fango prende generalmente il nome di “mud volcano breccia”, composta da un’abbondante matrice argillosa mista ad una miscela di frammenti di roccia di varia natura e dimensioni. Una volta in superficie il materiale emesso dal condotto di alimentazione ha la tendenza a fluire seguendo la morfologia del terreno, formando delle vere e proprie colate assimilabili a quelle prodotte dai vulcani ignei, con strutture a corde molto regolari simili ai campi di lava “pahoehoe” e compiendo gran parte del loro percorso incanalate entro argini creati dal fango stesso che rapprende ai bordi. La morfologia dei vulcani di fango è strettamente legata alle caratteristiche della mud breccia emessa. La progressiva sovrapposizione delle colate dà luogo alla costruzione di un edificio vulcanico di forma conica, che presenta le pareti laterali tanto più acclivi quanto aumenta la sua viscosità. Nel caso sia presente una mud breccia particolarmente ricca in acqua, l’edificio vulcanico tende ad assumere una forma poco inclinata, dove le colate provano a diffondersi su aree più ampie e distanti dalla bocca di emissione principale. L’espressione in superficie del condotto di emissione è generalmente rappresentata da una struttura a caldera. Tale depressione si forma in seguito a eventi di emissione parossistica oppure per sprofondamento dovuto alla progressiva rimozione di materiale. La fuoriuscita di fluidi in un vulcano di fango non è mai localizzata esclusivamente in corrispondenza del condotto principale, ma è distribuita più o meno irregolarmente in aree anche distanti dalla sommità. Sovente i fianchi dell’edificio sono caratterizzati dalla presenza di coni minori, denominati grifoni, dai quali si ha l’emissione di fango, acqua e gas. I grifoni sono strutture la cui attività è estremamente variabile poiché sono elementi secondari nel sistema maggiore del vulcano di fango. Talvolta l’attività di emissione principale non ha luogo da un condotto ben definito. In questo caso la fuoriuscita di sedimenti, acqua e gas avviene attraverso differenti tipologie di strutture. L’elemento principale è sicuramente rappresentato dai grifoni, che sono responsabili per l’emissione del maggior volume di fango. Le “mud pools” sono depressioni dove avviene la fuoriuscita di fango estremamente liquido che possono raggiungere una elevazione dal livello del terreno di pochi centimetri. Le “salse” sono crateri secondari al cui interno si trova acqua altamente salina, solitamente quasi priva di frazione solida in sospensione. Le scale a cui avviene l’attività dei vulcani di fango sono molteplici, con coni eruttivi di pochi centimetri di altezza sino a edifici vulcanici alti diverse decine di metri e che occupano superfici a scala chilometrica. Per meglio comprendere la natura e l’evoluzione dei vulcani di fango può rivelarsi utile esaminarne alcune caratteristiche, quale la distribuzione a scala globale e i vari meccanismi responsabili per la loro formazione. La maggior parte è collocata in zone caratterizzate da una tettonica di tipo compressivo, laddove due placche tettoniche si scontrano. Tuttavia, si possono trovare esempi di vulcanismo di fango anche in bacini con elevati tassi di sedimentazione, come ad esempio grandi delta fluviali. Uno dei requisiti fondamentali per lo sviluppo dei vulcani di fango è la presenza in profondità di un livello sorgente per i sedimenti in risalita. Tale livello è generalmente formato da spesse successioni di sedimento fine poco consolidato, o comunque relativamente fluido, che presenta una densità minore rispetto alle rocce sovrastanti. Tali successioni si depositano in condizioni di rapida ed abbondante sedimentazione che non consente la completa espulsione dei fluidi interstiziali originari. Il forte carico litostatico, generato dal materiale depositatovi sopra, dà luogo ad un incremento nella pressione tale da generare la migrazione dei fluidi. Le condizioni geologiche descritte sono fondamentali per la formazione dei vulcani di fango. Il vulcanismo di fango, inoltre, è strettamente legato alla sovrappressione dei fluidi interstiziali nei sedimenti profondi. Sono molteplici i meccanismi attraverso i quali si genera un incremento di pressione tale da portare allo sviluppo di un vulcano di fango. Le spinte tettoniche, soprattutto quelle compressive, tendono a ridurre il volume interno dei pori. La pressione può essere incrementata anche dalla deidratazione della componente argillosa, come per esempio la trasformazione della Montmorillonite in Illite. Un aspetto rilevante per le dinamiche dei fluidi in movimento è la formazione di idrocarburi. La loro genesi contribuisce ad aumentare la pressione interstiziale all’interno dei sedimenti e di conseguenza favorisce la loro mobilizzazione. Gli idrocarburi gassosi migrando dalla zona di produzione verso la superficie sono sottoposti ad una separazione in funzione della massa molecolare. Il metano, essendo dotato di una massa molto minore rispetto agli altri idrocarburi, raggiunge la superficie più velocemente rispetto ai più pesanti.
Benché i fattori che rappresentano il motore della risalita siano in linea generale presenti contemporaneamente in una zona soggetta alla formazione di vulcani di fango, è la presenza di strutture anticlinaliche che favorisce la migrazione dei fluidi e la formazione di un serbatoio. Spesso in questi casi si osserva la presenza di fratturazioni e faglie che costituiscono vie preferenziali per la migrazione e la fuoriuscita dei fluidi in superficie. In letteratura la genesi del bacino del Mediterraneo centrale è da inquadrare nel contesto collisionale tra le placche Africana, con la associata Placca Adria ed Europea. Le masse continentali si scontrano, originando l’Orogene Appenninico-Maghrebide, una catena che forma la Dorsale Appenninica e che prosegue lungo le coste nord-africane del Maghreb. In Italia i vulcani di fango sono numerosi. Se ne trovano di spettacolari in Sicilia e in Emilia, e poi ancora altri casi minori nel Lazio e in Abruzzo. In Sicilia, le aree con i vulcani di fango sono localizzate all’interno del cuneo di accrezione Neogene-Quaternario che si è formato in seguito alla collisione tra le placche. Oltre alle Macalube di Aragona, vicino Agrigento, le manifestazioni maggiormente conosciute si osservano a Terrapelata, alla periferia di Caltanissetta, e nel basso versante sud-occidentale dell’Etna, nei territori di Belpasso e Paternò. I vulcani di fango dell’Appennino Settentrionale punteggiano il margine Emiliano-Romagnolo della Pianura Padana, generalmente considerato sede di deformazione compressiva attiva. Le strutture più famose sono le Salse di Nirano e di Montegibbio, vicino Modena, e le Salse di Torre e Rivalta, a sud di Parma. Nelle Macalube di Aragona le manifestazioni si concentrano principalmente sulla collina denominata “Vulcanelli”, un rilievo caratterizzato da un’ampia spianata sommitale dove i grifoni raggiungono dimensioni che raramente superano il metro di altezza. Talvolta la fuoriuscita del gas misto ad acqua e fango avviene attraverso “mud pools” e salse dal diametro compreso tra uno e quattro metri. Le Macalube di Aragona sono frequentemente interessate da eventi parossistici, caratterizzati da violente esplosioni di gas e fango, localmente chiamati “ribaltamenti”. Le particolarità di tali attività hanno dato origine al termine stesso “macalube” che deriva dall’arabo “maqlub”, ribaltamento. I volumi di fango espulsi durante questi eventi possono raggiungere anche decine di migliaia metri cubi. Dal 1996, anno di istituzione della Riserva Naturale Integrata, si sono susseguiti ben sei eventi parossistici significativi. L’ultimo evento purtroppo drammatico per la morte di due bambini, si è verificato il 27 Settembre 2014, mentre quello precedente risale al 5 Maggio 2012. Durante l’attività parossistica, masse di materiale argilloso, miste a gas ed acqua, vengono scagliate a qualche decina di metri di altezza, con conseguente scomparsa delle strutture preesistenti e variazione nella morfologia della collina. Tali eventi sono in genere preceduti da una serie di segnali quali la progressiva diminuzione del degassamento, l’inarcamento della superficie della collina e la formazione di crepe.
Il gas più abbondante è il metano con concentrazioni che arrivano fino al 97 percento in volume. Azoto, Ossigeno ed Anidride Carbonica sono presenti in concentrazioni variabili come componenti secondari. Considerando che i gradienti geotermici locali sono stati calcolati in circa 20-22° Celsius/Km, il serbatoio dei fluidi emessi ad Aragona può essere ragionevolmente localizzato a profondità comprese tra i 3000 e i 6000 metri. Le Macalube di Terrapelata si trovano a circa 5 chilometri ad Est del centro abitato di Caltanissetta, 150 metri a sud del Villaggio Santa Barbara. Qui le manifestazioni sono caratterizzate prevalentemente da emissioni di metano in concentrazioni superiori al 95 percento e contenuti di CO2 inferiori al 2 percento. Le emissioni di acqua e fango, in quest’area sono generalmente molto basse. La mattina dell’11 Agosto 2008 si è verificata una serie di dissesti geologici che hanno provocato l’apertura di solchi nel terreno, larghi fino a un metro, con il conseguente danneggiamento di alcuni edifici. Danni accentuati in seguito ad un parossismo avvenuto nel pomeriggio dello stesso giorno. I vulcani di fango di Paternò e Belpasso vengono localmente denominati Salinelle. Gli edifici si trovano in tre diverse località: Salinelle dei Cappuccini, del Fiume e di San Biagio. Tutti e tre i vulcani di fango sono caratterizzati dall’emissione di acqua fredda, fangosa e salata, con gas e idrocarburi liquidi. L’attività eruttiva è rappresentata da fasi di intensa vivacità che possono avere durata di diversi mesi, intervallate da più lunghi periodi di quiete o debole emissione. Le Salinelle dei Cappuccini si trovano alla periferia occidentale dell’abitato di Paternò, in prossimità dello stadio. Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 l’area è stata interessata da una copiosa risalita di acque fangose, mentre nell’Aprile 2013 si è assistito all’apertura di nuove piccole salse in punti molto distanti dal punto centrale di emissione.
Le Salinelle del Fiume sono ubicate in prossimità del Fiume Simeto. Negli ultimi anni l’attività eruttiva è stata scarsa con emissione di acqua fangosa da una o due salse. Le Salinelle di San Biagio sono ubicate nel territorio del Comune di Belpasso. Si presentano come un unico grande edificio conico a scudo, sul quale si ergono numerosi grifoni di piccole dimensioni. Nei primi mesi del 2007 sono state registrate modeste emissioni di fango molto denso che hanno dato luogo a numerose colate. Nei tre siti gli scienziati evidenziano una prevalenza di CO2 di origine vulcanica, connessa alla vicinanza dell’Etna, seguita da metano, Elio e altri gas minori, in quantità variabili nel tempo. Talvolta acque ipersaline prive della frazione argillosa depositano notevoli quantità di ossidi di ferro dal tipico colore rosso bruno, probabilmente dovuti all’abbondanza di pirite nelle rocce magmatiche attraversate dai fluidi durante la loro risalita. L’area caratterizzata dai vulcani di fango denominata “Salse di Nirano” è localizzata nella provincia di Modena, nel tratto pedemontano nei pressi di Fiorano Modenese. La zona interessata dalle emissioni di fluidi ha una superficie di circa 75mila metri quadri e rappresenta una delle più vaste aree dove sono presenti vulcani di fango in Italia. I vulcani di fango si sviluppano sul fondo di una struttura depressa con diametro massimo di circa 500 metri, che richiama morfologicamente una caldera da collasso simile a quelle presenti nei vulcani ignei. Il fondo pianeggiante della caldera ospita quattro gruppi di vulcani di fango, il più grande dei quali raggiunge un’altezza di circa 3 metri, oltre a numerose venute secondarie che comprendono pools, salse e grifoni. La profondità stimata per il serbatoio dei fluidi si trova a 4,5-5 Km. Le zone interessate dalle emissioni spontanee che costituiscono i campi di vulcani di fango di Torre e di Rivalta si trovano nell’area pedeappenninica compresa tra il Torrente Parma e il Torrente Enza, in una zona più interna rispetto alle Salse di Nirano. Entrambi i siti sono di dimensioni modeste se comparati con le Salse di Nirano, e non presentano vulcani con altezza superiore ai 50 centimetri. A Torre, i vulcani di fango si dividono un due gruppi principali situati su un pendio stabilizzato da colture. Il più esteso, con una superficie di circa 7500 metri quadri, presenta diverse morfologie legate all’emissione dei fluidi. Si osservano due vulcani, uno è il maggiore fra quelli presenti in tutta l’area, dai quali avviene una modesta emissione di acqua, con un moderato contenuto di materiale fine in sospensione, associata a un’abbondante degassazione. Nelle zone limitrofe sono presenti alcune pools, la più grande delle quali ha un diametro di circa 3 metri, da cui si ha l’emissione costante di gas. Contestualmente all’emissione di gas e acqua, dai vulcani di fango si osserva la fuoriuscita di composti oleosi. Il secondo gruppo di vulcani di fango è di dimensioni più modeste e include due vulcani principali e un punto localizzato dal quale vi è l’emissione di gas associato a modesti quantitativi di fango. I vulcani di fango di Rivalta si sviluppano a Nord-Ovest rispetto al sito di Torre, in un’area pianeggiante che interrompe un versante piuttosto acclive. Le emissioni, localizzate principalmente in un’area limitata e di entità modesta rispetto a quelle di Nirano e Torre, generano tre vulcani di piccole dimensioni, in media circa 20 cm di altezza. La fuoriuscita di fango denso è associata all’emissione di olio in proporzioni maggiori che nelle altre strutture e ad un punto di emissione di gas generalmente continuo e abbondante. Nei sistemi di Torre e Rivalta i serbatoi sono stati stimati ad una profondità di 5,8 – 6,3 Km. Degna di nota è la pressoché ormai estinta Salsa di Montegibbio, detta anche Salsa di Sassuolo, il cui apparato conico, ancora riconoscibile, raggiunge un’altezza intorno ai 10 metri. La Salsa di Montegibbio è stata luogo di ripetute eruzioni. Sarebbe da ascrivere a questa salsa l’eruzione violenta del 91 a.C., alla quale si sarebbero succedute altre minori eruzioni nel 1592, 1594, 1599, 1601, 1608, 1628, 1684, 1689, 1711, 1781, 1784, 1786, 1787 e 1789. Considerevole fu l’eruzione del 1835, tanto che le cronache registrano una colonna di fumo alta circa 50 metri che si sprigionò dalla salsa con combustioni al suo interno e lancio di sassi e fanghiglia. Tale eruzione innescò anche un terremoto che fu avvertito localmente. Un’ultima eruzione sarebbe avvenuta nel 1873. I vulcani di fango rappresentano un fenomeno poco noto al grande pubblico ma estremamente diffuso su scala globale, presente generalmente in contesti tettonici compressivi. In Sicilia, i vulcani di fango più attivi sono quelli di Aragona, Terrapelata e Paternò-Belpasso. I vulcani di fango prossimi all’Etna non hanno mai presentato eventi parossistici, ma solo incremento nella loro attività. I primi due sono caratterizzati invece da periodiche attività parossistiche, talvolta pericolose. In Emilia Romagna, i vulcani di fango si distribuiscono lungo il margine Emiliano Romagnolo della Pianura Padana. L’unica struttura ad aver generato eventi parossistici in passato è stata la Salsa di Montegibbio. Per mettere in sicurezza le aree descritte e prevenire gravi tragedie come quello del 27 Settembre 2014 ad Aragona, sembra ragionevole e opportuno realizzare reti di monitoraggio permanente che permettano di individuare i segni precursori di eventi parossistici. Il 15 Giugno 2015 si è svolto, presso la Sede Centrale dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Roma, l’incontro bilaterale Ingv-Usgs (United States Geological Survey). Il terzo di una serie di meeting che i due istituti organizzano da due anni per consolidare il rapporto di collaborazione scientifica esistente, già formalizzato con il Memorandum of Understanding (MoU), siglato nel 1988, finalizzando lo sviluppo di specifiche attività congiunte in diversi campi della ricerca nei quali entrambi gli Istituti operano attivamente. Era prevista una sessione dedicata a ciascuno dei tre settori di ricerca dell’Ingv: il Vulcanologico (Volcanic Processes and Hazards), il Sismologico (Seismological Processes and Hazards ) e l’Ambientale (Environmental Research and Processes). A queste si aggiungono due sessioni specifiche, una dedicata alle osservazioni satellitari (Earth Observation Data) e l’altra alla divulgazione e formazione scientifica (Scientific Outreach and Educational Activities). In questa direzione si muovono le attività delle Strutture Vulcani, Terremoti e Ambiente dell’Ingv, rispettivamente sotto la direzione di Paolo Papale, Claudio Chiarabba e Fabio Florido, in sinergia nei diversi campi di competenza con i colleghi americani dell’Usgs, Charles Mandeville e Michael Blampied. Ad aprire i lavori, il Presidente Stefano Gresta, il Capo dell’Ufficio dei Programmi Internazionali per l’Usgs, Ingrid Verstraeten, e il dirigente referente per le infrastrutture satellitari dell’Ingv, Fabrizia Buongiorno. Il “Geological Society of London President’s Award” del 2015 è stato riconosciuto a Samantha Engwell, attualmente ricercatrice presso l’Ingv, nell’ambito del Progetto NEMOH, acronimo di “Numerical, Experimental and stochastic Modelling of vOlcanic processes and Hazard”. È il prestigioso riconoscimento, istituito nel 1980 dalla più antica Società geologica del mondo, per i giovani ricercatori che hanno dimostrato di aver dato un contributo alle scienze geologiche. Il contributo apportato da Samantha Engwell nell’ambito delle scienze geologiche e riconosciuto dal “Geological Society of London”, è incentrato sulle ricerche svolte nello sviluppo di modelli numerici per la comprensione sia dei processi fisici durante le eruzioni vulcaniche esplosive sia dei depositi vulcanici. La ricercatrice, esperta nella modellizzazione di eruzioni vulcaniche e nello studio dell’impatto delle ceneri vulcaniche sull’ambiente, si dedica a tali studi da più di sette anni. Il Progetto NEMOH è un “training network” nell’ambito delle “Azioni Marie Curie” del Settimo Programma Quadro della Commissione Europea, coordinato da Paolo Papale, attuale Direttore della Struttura Vulcani dell’INGV e formato da 13 Partner Europei (9 Full Partners e 4 Associated Partners). Il Progetto, iniziato a Gennaio 2012 per una durata di 4 anni, prevede la formazione di 18 giovani ricercatori (ESRs – Early Stage Researchers) di provenienza internazionale. NEMOH mira a formare la futura generazione di vulcanologi in Europa. Tomaso Esposti Ongaro e Mattia de’ Michieli Vitturi sono invece i due ricercatori della sezione di Pisa dell’Ingv, che hanno ricevuto a Praga, nel corso della XXVI Assemblea dell’Unione Internazionale di Geodesia e Geofisica (IUGG), la “Wager Medal 2015”, prestigioso riconoscimento assegnato dall’International Association of Volcanology and Chemistry of the Earth’s Interior (IAVCEI ). La Wager Medal viene assegnata ogni due o più anni a giovani ricercatori che, soprattutto negli otto anni antecedenti la premiazione, si sono distinti per il proprio contributo in ambito vulcanologico. Altri 3 illustri scienziati italiani si sono fregiati, in passato, di questa medaglia: Franco Barberi (nella prima edizione del 1974), Giovanni Macedonio (1998) e Antonio Costa (nell’edizione 2013). Tommaso Esposti Ongaro e Mattia de’ Michieli Vitturi, entrambi ricercatori in Fisica e Matematica del Vulcanismo, si occupano di modellistica fisico-matematica dei processi vulcanici e in particolare della dinamica dei flussi multifase gas-particelle, utilizzando i metodi della fluidodinamica computazionale e del calcolo ad alte prestazioni. Hanno sviluppato, nell’ambito di progetti di ricerca nazionali e internazionali, un modello numerico per la simulazione 3D e transiente del processo di dispersione atmosferica durante eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo (getti vulcanici e correnti di densità piroclastiche) utilizzato anche per la valutazione della pericolosità di vulcani attivi (Vesuvio, Campi Flegrei e Stromboli) e la stima dell’impatto dei flussi piroclastici sulle strutture urbane. Conferito sempre a un team di ricercatori dell’Ingv il “J-STARS Prize Paper Award” per il Miglior Articolo 2015. A consegnarlo è la “IEEE Geoscience and Remote Sensing Society”, nel corso del congresso IGARSS 2015 che si è tenuto a Milano. Un altro notevole contributo giunge dal gruppo di ricerca dell’Ingv che, attraverso l’analisi del campo di spostamento causato in superficie dal terremoto del 21 Giugno 2013 tra Lunigiana e Garfagnana, ha fornito nuove informazioni per una migliore comprensione della sismotettonica dell’area e per lo studio dei terremoti localizzati nella medesima zona o in aree “di svincolo” dell’Appennino settentrionale. Con questa motivazione la Commissione internazionale di esperti ha assegnato, sulla base dei 500 e più articoli pubblicati nel 2014 dalla rivista J-STARS (Journal of Selected Topics in Applied Earth Observations and Remote Sensing), il Premio J-STARS Prize Paper Award 2015 al team di ricercatori dell’Ingv: Salvatore Stramondo, Paola Vannoli, Valentina Cannelli, Marco Polcari, Daniele Melini, Sergey Samsonov, Marco Moro, Christian Bignami e Michele Saroli, per la pubblicazione dell’articolo: “X- and C-Band SAR Surface Displacement for the 2013 Lunigiana Earthquake (Northern Italy): A Breached Relay Ramp?”. Lo studio, rivela Salvatore Stramondo, “analizza e discute il campo di spostamento causato in superficie dal terremoto che si è verificato tra la Lunigiana e la Garfagnana il 21 Giugno 2013 con magnitudo momento (Mw) 5.3. L’evento sismico, localizzato nell’Appennino settentrionale a una profondità di circa 5 Km, è stato risentito in una zona molto ampia in tutta l’Italia settentrionale, con lievi danni nella zona epicentrale. In passato l’area è stata colpita da diversi eventi sismici con magnitudo variabile da Mw 4.8 a 6.5. Quest’ultimo caso è rappresentato dal terremoto del 7 Settembre 1920 che ha provocato ingenti danni nell’area interessata dal sisma”. Due sono i principali elementi di interesse del lavoro. Un set di immagini satellitari acquisite dallo speciale sensore del Radar ad Apertura Sintetica, elaborate con una particolare tecnica nota come Interferometria Differenziale SAR (DInSAR – Differential Interferometry Synthetic Aperture Radar) in grado di elaborare gli spostamenti prodotti dal terremoto sulla superficie terrestre, e un approccio multisensore-multifrequenza, utilizzando dati SAR acquisiti da due differenti missioni satellitari: COSMO-SkyMed, che dispone di un SAR con lunghezza d’onda pari a circa 3 cm, e Radarsat-2 con lunghezza d’onda di 5,6 cm circa. “Sulla base del campo di spostamento ottenuto – osserva Stramondo – è risultato che la sorgente sismogenetica, responsabile del terremoto del 21 Giugno 2013, è stata una faglia localizzata tra i due ben noti bacini estensionali della Lunigiana (a Nord-Ovest) e della Garfagnana (a Sud-Est), sede di terremoti storici distruttivi. Questa faglia, con la sua peculiare localizzazione e i suoi parametri geometrico-cinematici, ha fornito preziose informazioni su una zona di trasferimento, capace di accomodare lo spostamento tra strutture sismogenetiche adiacenti, creando una rampa di collegamento tra le due strutture estensionali principali dell’area”. Grazie alle apparecchiature dell’esperimento Borexino ospitate nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn, è stato possibile individuare per la prima volta con certezza dei neutrini generati all’interno del mantello terrestre. La scoperta ha permesso una migliore stima del calore interno prodotto dai decadimenti radioattivi che avvengono nelle viscere della Terra. La scoperta, descritta nell’articolo “Spectroscopy of geoneutrinos from 2056 days of Borexino data” a prima firma di Matteo Agostini pubblicato su “Physical Review D” il 7 Agosto 2015, conferma le attuali teorie sulla genesi del calore interno della Terra. L’energia termica generata all’interno del “nostro” mondo ha un impatto di primaria importanza sull’evoluzione del pianeta e della vita. È infatti grazie ad essa che avvengono i moti convettivi del mantello fluido e, quindi, il movimento delle placche tettoniche, i terremoti e l’attività vulcanica. Eventi, questi, unitamente agli effetti delle maree lunari e solari, a cui si è soliti dare una valenza negativa, ma che in realtà hanno contribuito in maniera essenziale alla possibilità dello sviluppo della vita sulla Terra e che ancora oggi concorrono a mantenerne l’equilibrio. Sulla base del complesso dei dati raccolti, i ricercatori hanno stabilito che i neutrini generati all’interno della Terra, i geoneutrini, più propriamente noti come “anti-neutrini elettronici”, derivano dal decadimento dell’Uranio-238 e del Torio-232 presenti nel mantello, e che la componente radiogenica dell’energia nucleare (si rassegnino gli ambientalisti ecologisti, la denuclearizzazione della Terra è decisamente una politica suicida!) che riscalda il pianeta dall’interno, stimata complessivamente intorno ai 47 Terawatt, è di circa 33 TeraWatt, un valore decisamente superiore a quello indicato da stime precedenti, e sufficiente ad alimentare da solo i moti convettivi nel mantello. I primi geoneutrini erano stati rilevati nel 2010 sempre dalla collaborazione Borexino, e successivamente da ricercatori della collaborazione giapponese KamLAND (Kamioka Liquid-scintillator Antineutrino Detector) nel 2011. Tuttavia, in entrambi i casi il numero di neutrini rilevati non era sufficiente per stabilire se provenissero dai decadimenti radioattivi che avvengono nel mantello o nella crosta. I geoneutrini attraversano indisturbati migliaia di chilometri di roccia, viscosa e solida, per arrivare fino alle strutture di Borexino e in particolare ai 300 fotomoltiplicatori che rivestono una delle due sfere da cui è formato. Il rivelatore, immerso in 2400 tonnellate di acqua ultrapura, è infatti composto da una sfera più esterna, di acciaio, che contiene 1000 tonnellate di un idrocarburo, il famoso pseudocumene, al cui interno si trova una seconda sfera, di nylon, con 300 tonnellate di liquido scintillatore. Grazie a questa sofisticata struttura, nel corso dei 2056 giorni di osservazione, sono stati registrati 77 eventi, 53 dei quali sono stati scartati perché presentavano caratteristiche “sbagliate” e con tutta probabilità generati dai reattori nucleari attualmente in funzione. Non Italia. Ma altrove. I 24 neutrini rimanenti avevano però caratteristiche tali da poterli attribuire con certezza quasi assoluta alla classe dei geoneutrini generati nel mantello. Di fatto, è la prima volta che in questo tipo di esperimenti si supera abbondantemente la soglia probabilistica che fa considerare un risultato scientificamente certo, che nel gergo scientifico è indicato come 5 Sigma. In questo caso è stata raggiunta con Borexino la soglia di 5,9 Sigma. Frutti della Ricerca subnucleare made in Italy.
© Nicola Facciolini
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