“Il rendere giustizia è dedizione di sé a Dio. Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” (Rosario Angelo Livatino). È uno dei pensieri più rappresentativi del giovane magistrato barbaramente assassinato dalla mafia 25 anni fa, per difendere i nostri valori costituzionali più autentici e importanti. Punire il suo impegno per la giustizia, contro la criminalità organizzata, come affermò San Giovanni Paolo II, lo consegna al Cielo come un “martire della giustizia e indirettamente della fede”. I
Il giudice Rosario Livatino, Servo di Dio, ha pagato con la vita l’amore per la verità, il rispetto per l’etica professionale, il rifiuto della corruzione e la resistenza alle pressioni ambientali. Il ricordo suo e del grande lavoro svolto nella sua pur così breve vita, come riconosciuto da tutti, sono ancora oggi da esempio e sprone non solo per i magistrati e le forze dell’ordine, ma per tutti i cittadini onesti, i giovani in particolare. Un uomo semplice, con la sua vita di giudice rigoroso e schivo, il suo volto pulito dallo sguardo limpido. E così diventa per tutti e resterà per sempre il “giudice ragazzino” destinato a diventare suo malgrado un eroe. Se le mafie fanno parte antropologicamente e strutturalmente della storia d’Italia, anche la lotta alla mafia ormai è parte strutturale vitale della storia giudiziaria territoriale. Se oggi possiamo sognare un Belpaese nel quale proprio tutti, facendo il proprio dovere, combattano le mafie e nessuno debba essere privato della vita proprio per questo, lo dobbiamo a magistrati come il dott. Rosario Livatino. La cui causa di beatificazione, in fase diocesana, procede spedita. Il giorno di San Matteo Apostolo Evangelista, il 21 Settembre 1990, è una giornata calda ma non afosa, tipica della mite stagione siciliana. Sono le ore otto. Il giudice Rosario Livatino riordina alacremente i fascicoli processuali. Gesti preparatori quotidiani. Mancano appena due settimane al suo trentottesimo compleanno. Alle 8:30 percorre, come tutti i giorni, la Statale 640 per recarsi al lavoro al Tribunale di Agrigento. Sullo scorrimento veloce verso Caltanissetta viene raggiunto da un commando, affiancato da una moto e una Fiat Punto che lo bloccano. Dopo i primi colpi, Rosario ferito tenta di fuggire nella verde scarpata, ma uno dei killer lo raggiunge e lo uccide. Trucidato perché colpevole, da magistrato, di fare in Italia il suo dovere. Esattamente 21 anni dopo, la Chiesa di Agrigento apre il processo diocesano di beatificazione del magistrato. La data scelta dall’arcivescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro, accoglie l’istanza presentata dal postulatore, don Giuseppe Livatino. Del Tribunale fanno parte don Lillo Argento (Delegato Episcopale), don Mimmo Zambito (Promotore di Giustizia), padre Giuseppe Russo e don Vincenzo Lombino (Censori Teologi), don Franco Giordano e il professor Gaetano Augello (periti in re historica), Rosario Gambino in qualità di notaio attuario e don Luca Restivo come notaio aggiunto. Il postulatore è il sacerdote Giuseppe Livatino. I fascicoli saranno trasmessi alla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, a Roma, per la valutazione finale circa l’eroicità delle virtù del Servo di Dio. Spetterà al Prefetto della Congregazione vaticana, sulla base delle conclusioni tratte dalle commissioni teologica e scientifica, il compito di proporre al Papa la firma del decreto di venerabilità nell’attesa di essere proclamato “beato”. Per giungere a questa fase la Sacra Congregazione dovrà appurare che al candidato sia ascritto almeno un miracolo per intercessione: dovrà trattarsi di guarigione di un male incurabile, avvenuta in maniera definitiva e non spiegabile dal punto di vista medico. Nella seduta pubblica, celebrata nella chiesa San Domenico a Canicattì, la parrocchia di Rosario Livatino, tutti i componenti il Tribunale giurano di agire sempre e comunque per il bene della Chiesa e firmano i verbali di apertura ufficiale dinanzi all’arcivescovo. Nel periodo successivo avviene l’escussione dei testi indicati dal Postulatore e lo studio di tutti gli scritti editi e inediti del Servo di Dio: le due conferenze pubbliche, le agendine e le lettere. A testimoniare sulla santità del giudice Livatino sono soprattutto quanti hanno conosciuto direttamente Rosario e chi lo ha potuto apprezzare solo indirettamente e successivamente, come Elena Valdetara Canalò, “guarita” da un linfoma che l’avrebbe portata alla morte e per i medici incurabile. Tra i testimoni locali Luigi D’Angelo, colleghi magistrati, personale di cancelleria ed avvocati ma anche religiosi, laici e semplici cittadini, i tanti che hanno avuto modo di conoscere direttamente il magistrato ma soprattutto l’uomo Rosario Livatino che nasce a Canicattì il 3 Ottobre 1952 da papà Vincenzo, avvocato, e dalla mamma Rosalia Corbo. Rosario consegue la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 Luglio 1975, a 22 anni, col massimo dei voti e la lode, alla prima sessione utile. È solo l’inizio di una brillantissima carriera iniziata alla scuola elementare “De Amicis”, proseguita alla scuola media “Verga” e conclusa al Liceo Classico “Ugo Foscolo” di Canicattì sempre con voti e giudizi ottimi, compreso un lusinghiero dieci in matematica. Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova all’Ufficio del Registro di Agrigento dove resta dal 1° Dicembre 1977 al 17 Luglio 1978. Nel frattempo partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal 29 Settembre 1979 al 20 Agosto 1989, come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli Anni Novanta sarebbe scoppiata come la Tangentopoli Siciliana. È proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 Agosto 1989 al 21 Settembre 1990 Rosario Livatino presta servizio al Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. Dell’attività professionale di Rosario Livatino sono pieni gli archivi non solo del Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori. Molto rari sono gli interventi pubblici così come le immagini. Gli unici, fuori dalle aule giudiziarie, che costituiscono una sorta di testamento, sono rappresentati dalle conferenze: “Il ruolo del Giudice in una società che cambia” del 7 Aprile 1984 e “Fede e diritto” del 30 Aprile 1986. I documenti integrali sono consultabili nel libro “Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino” di Ida Abate. Rosario non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere. Rosario fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 Settembre 1990 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre, senza scorta, con la sua Ford Fiesta amaranto si recava in Tribunale. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti, tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo e con pene ridotte per i “collaboranti”. Ergastoli inflitti agli esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato, Gianmarco Avarello ed ai mandanti Antonio Gallea e Salvatore Parla. Tredici anni inflitti a Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, entrambi collaboratori di giustizia. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto come Rosario Livatino. Solo la terza vittima innocente e illustre di Canicattì. Prima di lui, il 25 Settembre 1988, stessa sorte toccò al Presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, Antonino Saetta, e al figlio Stefano, trucidati in un agguato mafioso sempre sulla SS 640, sul viadotto Giulfo, mentre improvvisamente, senza scorta e con la sua auto, Saetta faceva rientro a Palermo dove abitava e lavorava. Per questo duplice omicidio dopo quasi dieci anni furono individuati e condannati con un unico processo i presunti mandanti ed esecutori superstiti. Oltre agli articoli su giornali e riviste nonché ai servizi radiotelevisivi, sulla figura di Rosario Livatino sono stati pubblicati: “Il giudice ragazzino” di Nando Dalla Chiesa; “Il piccolo giudice. Profilo di Rosario Livatino” di Ida Abate; “Fiaba vera” di Angelo La Vecchia; “Rosario Livatino. Eloquenza della morte di un piccolo giudice” di Ida Abate; “Rosario Livatino. Martire della giustizia” di Maria Di Lorenzo; “Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino” di Isa Abate; il film “Il giudice ragazzino”, per la regia di Alessandro Di Robilant, nel 1993 è stato liberamente tratto dal saggio omonimo di Nando Dalla Chiesa; il film documentario “Luce verticale. Rosario Livatino. Il martirio” del regista Salvatore Presti, vincitore nell’Ottobre 2007 del premio nella sezione “Ritratti” alla decima edizione del “Religion Today Film Festival”; il cd musicale “Il mio piccolo Giudice” prodotto e arrangiato da Fausto Mesolella con le voci di Maria Luisa Corbo, Peppe Servillo, Salvatore Nocera e del professore Giuseppe Peritore, da un’idea, progetto e produzione esecutiva di Giuseppe Cartella; la fonostoria “Qualcosa si è spezzato” su testi di Rosario Livatino; “Non di pochi, ma di tanti. Riflessioni intorno alla Giustizia”, di Rosario Angelo Livatino: il libro contiene le due conferenze, la testimonianza profetica del giudice Paolo Borsellino del 1991 assieme a quella dei giudici Salvatore Cardinale e Giovanbattista Tona nonché di don Giuseppe Livatino, postulatore della causa di beatificazione ed una breve scheda delle associazioni Tecnopolis, Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino e della Fondazione Progetto Legalità onlus, in memoria di Paolo Borsellino e di tutte le altre vittime della mafia. Nell’Agenda di Livatino del 1978 si legge un’invocazione sulla sua professione di magistrato, datata 18 Luglio, che suona come consacrazione di una vita: “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”. Fede e diritto, come Livatino spiega in una conferenza tenuta a Canicattì nell’Aprile 1986 ad un gruppo culturale cristiano, “sono due realtà continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. Rifacendosi ad alcuni passi evangelici, Rosario Livatino osserva come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali”. Ancora su questo aspetto, Rosario Levantino dichiara: “Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere giusti, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”. Rispetto al ruolo del magistrato, nella stessa conferenza, Livatino afferma: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”. Il 9 Maggio 1993, Papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua visita pastorale in Sicilia, nel giorno della famosa invettiva contro la mafia nella Valle dei Templi (“Un giorno verrà il giudizio di Dio”), dopo aver incontrato ad Agrigento i genitori di Rosario Livatino, afferma degli uccisi dalla mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Nella messa di commiato, il suo vescovo lo descrive come “giovane impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’Eucaristia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”. È attestato il suo impegno affinché, nell’aula delle udienze in Tribunale, ci fosse un crocifisso. Ogni mattina, prima di entrare, prega nella vicina chiesa di San Giuseppe. Come giudice è tra i primi a sequestrare i beni mafiosi. Mite e inflessibile magistrato strappato indegnamente alla vita dalla stidda agrigentina, l’organizzazione mafiosa che contende a Cosa Nostra il controllo della provincia, Rosario Livatino è un “predestinato”. La sua formazione e la sua vita sono segnate dal solco della Libertà e della Giustizia. Quella vera di chi non solo non fa sconti ad alcuno quando l’amministra in nome del popolo (tra i primi pubblici ministeri a chiedere di interrogare in quegli anni un ministro) ma non si dimentica mai di essere, ancor prima che un magistrato, uomo tra gli uomini. Rosario Livatino, il giudice siciliano che muore in una scarpata cercando una disperata fuga a piedi per sfuggire ai killer che lo inseguivano senza pietà, conosce la sua missione di magistrato e di uomo e la manifesta senza timore fino in fondo. Il 7 Aprile 1984, al Rotary Club di Canicattì, Livatino che non ama apparizioni pubbliche e non frequenta i salotti tanto di moda in Sicilia dove, sotto lo stesso tetto, spesso si incontrano diavolo e acquasanta, lascia di stucco chi lo ascolta, proprio lì nella sua città natale. Quando si tratta di parlare della libertà e del modo in cui un servitore dello Stato deve declinarla di fronte alle sirene di partiti, sette o associazioni, Livatino dichiara: “Ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche. Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della auto collocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione”. La concezione “monastica” sul ruolo del giudice e dell’uomo, non sorprende in Livatino. Nella sua auto crivellata di proiettili fu trovata l’Agenda di lavoro. Nella prima pagina spicca la sigla StD, “sub tutela Dei”, a ricordo delle invocazioni con le quali, in età medievale, si chiedeva l’assistenza divina per adempiere i pubblici uffici. Il giorno dei funerali, il padre Vincenzo afferma: “Rosario non è un eroe, è un buon figlio, un buon siciliano”. Per quel buon figlio, quel buon siciliano, la cui vita professionale e umana il libro di Nando Dalla Chiesa percorre, il 21 Luglio 2011 la Chiesa avvia il processo diocesano di beatificazione. Rosario Livatino dona lezioni immortali di legalità che solcano l’anima. Chi non ricorda l’energico anatema con cui Papa Giovanni Paolo II si rivolge ai mafiosi nella Valle dei Templi di Agrigento? “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio”. Quelle immagini, quella frase, fanno il giro del mondo e saranno riconfermate da Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. All’epoca furono in molti a chiedersi il motivo di quello scatto. Non era la prima volta che il Papa parlava in Sicilia, ma mai era arrivato a tanto. Una testimonianza-rivelazione viene da don Luigi Ciotti, che dell’episodio parla nel suo libro “La speranza non è in vendita”. Quell’accorato monito, rivela don Ciotti, “scaturì dalla visita che il Papa, poche ore prima, fece ai genitori di Rosario Livatino, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1990 a soli 37 anni e per il quale, il 21 Settembre 2011, si è aperto il processo di beatificazione a Canicattì, suo paese natale”. Un incontro intimo che don Luigi Ciotti ripercorre con grande commozione. “Era la domenica del 9 Maggio 1993 e Giovanni Paolo II, già diretto alla Valle dei Templi, decise di fermare il corteo papale davanti ad una piccola abitazione. Una sosta di appena sette minuti, in cui Karol Wojtyla rimase a colloquio privato in casa di Rosalia e Vittorio Livatino. Sette lunghissimi minuti in cui Rosalia rimase quasi paralizzata dall’emozione, mentre Vittorio parlò con il Pontefice e gli volle mostrare il diario del figlio. Giovanni Paolo II lo aprì a caso e lesse quella pagina, e mentre leggeva, stringeva fra le mani quelle di mamma Rosalia. Non so – prosegue don Ciotti – quale pagina fosse ma posso dire che, quando mi trovai con i genitori di Livatino, anche a me fu consentito di leggere quel manoscritto che mi si aprì casualmente proprio sulle sue parole più conosciute: “Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Ecco – rivela don Ciotti – queste sono parole che sfidano l’uomo e non mi stupisco se hanno colpito profondamente Giovanni Paolo II, fino al punto da indurlo, nel corso della celebrazione eucaristica, ad abbandonare il testo scritto del suo discorso e a pronunciare quella frase a braccio, brandendo il pastorale che fu di Paolo VI”. Parole bellissime e terribili che oggi secondo don Ciotti possono essere lette in continuità con l’esortazione di Giovanni Paolo II alla classe politica della Campania (Capodimonte, 10 Novembre 1990). Sulla stessa linea il documento “Educare alla legalità”, redatto nel 1991 dalla Commissione Giustizia della CEI dove si legge: “Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale ed affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità”. Da qui il capitolo del libro che don Ciotti dedica alla “interferenza” della Chiesa nei fatti della mafia, con un’impressionante sequenza cronologica di date legate a quel 9 Maggio 1993. Il 15 Settembre dello stesso anno viene assassinato, nel giorno del suo compleanno, don Pino Puglisi. Appena 25 giorni prima Francesco Marino Mannoia, un collaboratore di giustizia, aveva dichiarato ai magistrati: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra ed intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano messaggi chiari ai sacerdoti: non interferite”. E il 19 Marzo 1994, nel giorno del suo onomastico, veniva ucciso dalla Camorra don Peppino Diana, parroco di Casal di Principe che invitava la gente “a risalire sui tetti e annunciare parole di vita”. Il 25 Marzo 1995 don Luigi Ciotti fonda “Libera”: associazioni, nomi e numeri contro le mafie. È del 3 Ottobre 2010 la visita pastorale di Benedetto XVI a Palermo, dove rinnova il grido nella Valle dei Templi definendo la mafia “strada di morte, incompatibile con il Vangelo”. Poi la “scomunica” ai mafiosi comminata da Papa Francesco. Al convegno “25 anni dopo. Rosario Livatino, diritto etica e fede”, il Presidente del Senato, Pietro Grasso, ricorda la figura del giudice Rosario Livatino, ucciso 25 anni fa per mano mafiosa. “Era una tiepida mattina del mite autunno siciliano, il 21 Settembre 1990, quando Livatino, riposti nella borsa i fascicoli processuali su cui aveva lavorato fino a tarda notte, si avvia verso il Tribunale di Agrigento a bordo della sua Ford Fiesta rosso amaranto. Sulla strada a scorrimento veloce lo attende un commando di quattro uomini del clan mafioso della “Stidda”, che subito apre il fuoco. Rosario, ferito ad una spalla, tenta di fuggire ma viene braccato e raggiunto in fondo alla scarpata, dove uno degli assassini continua a esplodergli contro colpi di pistola. Alla sua angosciosa domanda: “cosa vi ho fatto?”, la risposta è un colpo di grazia al viso. La notizia – ricorda Pietro Grasso – mi coglie alla Commissione Parlamentare Antimafia, dove lavoro come consulente. Torno così a Palermo, vado da Giovanni Falcone e insieme, addolorati e sgomenti, cerchiamo di comprendere le ragioni del barbaro omicidio. Il giorno dopo andiamo a rendere l’ultimo saluto alla salma di Rosario, meta di un incessante pellegrinaggio di amici, colleghi, parenti, e tanti cittadini. La bara è coperta di fiori rossi e gialli, sparsi sul tricolore e sulla toga; accanto, in piedi, sei magistrati in toga: tre a destra e tre a sinistra; dietro due corazzieri inviati dal Presidente della Repubblica. Una forte ondata di commozione pervade il Paese, che scopre la sua storia di uomo semplice e la sua vita di giudice rigoroso e schivo, il suo volto pulito, dallo sguardo limpido. Così diventa per tutti, e sarà per sempre, il “giudice ragazzino”. Ripercorrere brevemente l’atmosfera di quei giorni aiuta a comprendere cosa ha pagato Livatino e perché è stato destinato a diventare, suo malgrado, un eroe. Nel 1990 la mafia imperversa in tutta la Sicilia. Nell’agrigentino impazza lo scontro fra clan mafiosi che determina decine e decine di omicidi: solo a Palma di Montechiaro nel giro di cinque anni se ne contano quaranta. La ragione è l’emersione di nuove formazioni criminali, come la “Stidda“, la stella: schegge impazzite fuoriuscite da Cosa Nostra che inanellano attentati, vendette trasversali, regolamenti di conti, sotto l’occhio indifferente delle istituzioni locali. Canicattì, la città dove il giudice Livatino vive e torna ogni sera, senza scorta, diviene centro di importanti interessi mafiosi. La ricchezza è concentrata nelle mani di poche famiglie, mentre le banche sono gonfie dei miliardi dell’economia mafiosa che lui come sostituto procuratore e poi come giudice, persegue ogni giorno. Attorno ai giudici siciliani intanto si determina un clima incandescente, cui contribuiscono l’assassinio del Giudice Saetta nell’autunno dell’88, l’attentato contro Giovanni Falcone all’Addaura dell’estate dell’89, le polemiche sui pentiti e sui professionisti dell’antimafia e le delegittimazioni di un garantismo ambiguo”. Chi era Rosario Livatino? “La sua personalità è raccontata bene da un particolare delle indagini. Su una pagina della sua agenda e in altri suoi scritti si rinviene la sigla “S.T.D.”: le tre lettere furono un vero rompicapo da enigmisti e fu vano ogni tentativo di decriptazione da parte degli esperti. La spiegazione si rinvenne nella sua fede cattolica. Con quella sigla, “sub tutela Dei”, Rosario invoca l’assistenza divina nella sua quotidiana opera di giudice. Del resto, anche dai suoi scritti si trae chiaramente la sua altissima concezione della giustizia e dei doveri del giudice. L’indipendenza, principio cui impronta tutta la sua esistenza, l’intende in modo totalizzante: come fedeltà alla legge e alla propria coscienza; come impegno nella preparazione professionale e nella cura delle decisioni giudiziarie; ma anche come rigorosa condotta di vita, nella scelta delle amicizie, nell’indisponibilità ad affari, nella rinunzia a incarichi che possano anche solo appannare l’immagine di serietà, di equilibrio, di responsabilità e umanità del giudice. Memorabili le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nella sua visita pastorale in Sicilia, il 9 maggio 1993. Dopo avere incontrato i familiari di Rosario egli lancia il suo terribile anatema contro i mafiosi, intimando loro di convertirsi. E’ recente la bella notizia dell’avviamento del processo di beatificazione di Rosario Livatino, che Giovanni Paolo II definì “un martire della giustizia, e indirettamente della fede”: un giudice, un uomo che univa a una profonda fede la concezione laica del suo ruolo. Suonano sempre attuali le sue parole: “Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili. Il sacrificio non cercato di Livatino lo ha reso un punto di riferimento ideale per tutti coloro, magistrati e non, che credono nella giustizia. Davanti alla sua tomba, sempre sommersa di fiori, si trovano biglietti, messaggi, testimonianze soprattutto di giovani che hanno compreso il suo messaggio che suona rivoluzionario nella sua semplicità: “coltivare l’ideale della legalità, dell’eguaglianza dinanzi alla legge e, a costo della vita, fare fino in fondo, senza timori reverenziali e senza compromessi, il proprio dovere”. E il nostro dovere è mantenere viva la memoria di un uomo che ha incarnato, con l’esempio di una vita schiva dedicata alla giustizia, l’essenza dei valori democratici che uniscono questo Paese e in cui noi ci riconosciamo”. Livatino è certamente un grande esempio morale per i giovani e per l’Italia che ama la sua Costituzione della Repubblica oggi sotto assedio. Si può diventare santi facendo i giudici? Se la risposta è “sì”, certo riguarda il giovane Livatino, un uomo che sigla ogni documento con il misterioso Std, decifrato solo dopo la sua morte e il cui rigore morale contribuisce a preservarlo, non isolarlo. Uno che evita di iscriversi all’Anm e rifugge i riflettori, che si esprime solo in due conferenze, ma in quelle scrive una summa della figura del magistrato: “Il giudice non può e non deve essere un protagonista occulto dei cambiamenti sociali e politici. L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella credibilità che riesce a conquistarsi con le sue decisioni. L’indipendenza del giudice è anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta dentro e fuori delle mura del suo ufficio. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha”. Nella conferenza “Il ruolo del Giudice nella società che cambia”, tenuta da Rosario Livatino il 7 Aprile 1984 al Rotary Club di Canicattì, si legge: “L’argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su due temi, che possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la società che cambia e il magistrato. Da un lato viene considerata la società intesa come unione ordinata e regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e, quindi, per noi la società italiana), la quale è per sua stessa natura una entità in continua evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente e a volte insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel termine più comprensivo, viene definito come l’evoluzione perenne del costume. Dall’altro abbiamo la figura del magistrato: egli altro non è che un dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia, anch’egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch’egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge. In questa accezione – dichiara Rosario Livatino – il tema proposto potrebbe anche apparire una contraddizione in termini. Esso però trae le mosse da una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, che si è venuta sempre più affermando a partire dalla metà degli Anni ‘60 e che vuole, esaltando il potere di interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale ruolo ed il divenire della società. Partendo dalle premesse, cioè, che non sempre la legge è in sintonia coll’evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si sclerotizza, si è sostenuto che il magistrato può – pur rimanendo identica la lettera della norma – utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente. Una diversità di ruolo che non può non rifrangersi nel suo stesso protagonista: il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma legislativa comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde. Ecco, dunque, che i termini del tema propostoci non sono più in inconciliabile antitesi: le due realtà, società e magistrato, sono su un identico piano evolutivo e bene si comprende e si giustifica l’interrogativo sugli effetti che tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o negatività di questa esperienza che si è voluta vivere e, conseguentemente, sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al fine che si voleva originariamente conseguire. Il tema è di amplissimo respiro e di difficile risolubilità, soprattutto perché il fenomeno al quale implicitamente si riallaccia è tuttora in atto. Assolutamente pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare la disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa implica conoscenze, soprattutto sul piano della macro e microsociologia, che esulano del tutto dalla sua esperienza culturale. Poiché, però, il dibattito sul ridetto tema è ogni giorno riproposto dai mezzi di comunicazione di massa ed innumerevoli sono gli episodi reali che lo impongono all’attenzione della pubblica opinione, è facile presumere che ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé dei quesiti che gradirebbe poter rivolgere ad un addetto ai lavori. Questo il taglio che sembra ideale per questo incontro e quanto adesso brevemente sarà detto avrà il solo scopo di richiamare alla memoria quelle tematiche che più di altre hanno costituito motivo di pubbliche polemiche e di fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si vorranno porre. Le tematiche sulle quali ci intratterrerno sono le seguenti: i rapporti tra il magistrato ed il mondo dell’economia e del lavoro; i rapporti tra il magistrato e la sfera del “politico”; l’aspetto della c.d. “immagine esterna” del magistrato; il problema della responsabilità del magistrato”. Sui rapporti tra il magistrato ed il mondo dell’economia e del lavoro, Rosario Livatino rivela: “La situazione economica italiana dell’ultimo decennio ha risentito in maniera notevole delle due crisi dei prodotti petroliferi (1973/1974; 1979/80) e della persistenza dei fenomeni terroristici e di instabilità politica. Ad essi si è aggiunta nello scorcio del 1980 una calamità naturale, quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni meridionali del Paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato particolari problematiche socio-economiche, con gravi riflessi anche sul piano della repressione penale e dell’ordine pubblico. Il mercato del lavoro e l’economia monetaria sono stati settori nei quali le perturbazioni economiche hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il tasso di disoccupazione è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal 1973-74, giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di disoccupati (8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua a partire soprattutto dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle forze di lavoro). In questo quadro, indubbiamente difficile, si è inserito prepotente il dilemma fra la figura del giudice-garante degli interessi forti (per i quali vengono assunti a base i valori industriali dominanti) ed il giudice-garante degli interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro l’eccessiva concentrazione del potere economico). Dilemma che nasce dalla convinzione che la presenza giudiziaria possa esplicarsi in modo incisivo in contrasto colla congiuntura economica e al fine di sanarne in tutto o in parte gli effetti perversi. Nell’ansimare dell’apparato esecutivo alla ricerca di politiche economiche idonee a sciogliere quel nodo congiunturale ormai sospetto di cronicità, v’è stato chi ha ritenuto che il magistrato possa far buon uso del suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell’accezione che privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così consentendo alle stesse, svincolate da quei “lacci e lacciuoli”, come ebbe a definirli Guido Carli, di riprendere quella padronanza nel campo dell’iniziativa privata e quella sicurezza nel settore degli investimenti produttivi, che avevano consentito all’imprenditoria italiana di creare il c.d. “miracolo economico” degli Anni ‘50. Una linea, quindi, rivendicativa per il magistrato di un ruolo di protagonista occulto, indiretto della macroeconomia nazionale. Una tesi che relegherebbe il Montesquieu ed il suo principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa soffitta e che farebbe inorridire economisti classici come Ricardo o Keynes. Per contro, v’è stato chi, rigettando il ruolo di “canalizzatore” dei processi economici, ha caldeggiato quella presenza giudiziaria come elemento correttivo delle conseguenze nefaste che la congiuntura ha sui piccoli soggetti economici. È la tesi di chi ha voluto il magistrato come difensore delle categorie più povere e, come tali, più esposte ai capricci dell’inflazione e della stagflazione, proponendo l’aula giudiziaria come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole ed individuando il processo del lavoro come l’arena più allettante per tale tenzone. Per esemplificare quanto si dice, basterà citare il noto caso del pretore Paone, che, per ovviare ad una crisi di alloggi, ricorse al sequestro di immobili. Sul punto quello che si può osservare è: che entrambe le prospettazioni sono senz’altro da rifiutare in quanto il ruolo che vogliono prefigurare è tale che il magistrato, che dovrebbe assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che ancora oggi è il prototipo dell’interprete giudiziario nel comune sentire sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra Carta costituzionale affida al giudice ben diverso che essa implicitamente teorizza; che è peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che queste spinte innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto, nella magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna l’altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l’esito di una controversia individuale o collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma nelle simpatie del magistrato per questa o quella parte sociale. Vi sono stati e vi sono casi che, col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei mezzi di informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati quel timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la tendenza ad una generalizzazione indiscriminata e va soprattutto con calore affermato che la maggioranza degli interpreti del diritto nel nostro Paese piega ancora le proprie convinzioni alla legge e non questa a quelle. Troppo si è esagerato sulla giurisprudenza del lavoro, giudicata come decisamente di una sola parte del rapporto. Una recente ricerca effettuata per conto del Ministero di grazia e giustizia, a cura del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti di diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili affermazioni. L’indice di vittoria su cause decise con sentenza in primo grado nell’intero territorio italiano è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei giudizi di appello scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed al 43,1% quando appellante è il datore di lavoro. La ricerca dimostra, nel complesso, un atteggiamento della magistratura del lavoro, anche in sede di legittimità, tutt’altro che “squilibrato” o “destabilizzante”. Del resto, già una precedente ricerca, condotta nel 1976 dal prof. Mengoni presso l’Istituto giuridico dell’Università Cattolica di Milano, dimostrò l’infondatezza dell’immagine del giudice del lavoro come giudice di assalto velleitariamente affetto da protagonismo o comunque di giudice prevenuto nei confronti di una sola delle parti del conflitto industriale. D’altronde, va anche rammentato che, a giustificazione di talune decisioni, di taluni indirizzi “sorprendenti” o comunque tali da suscitare perplessità, stanno dei motivi alla cui ricorrenza è del tutto estraneo il magistrato, venendo essi in essere in un momento precedente a quello in cui egli è chiamato a svolgere la sua funzione. Ci si intende riferire: a) in primo luogo a leggi che di per sé sono chiaramente alteratrici di un equilibrio nella posizione delle controparti rispetto all’organo giudiziario: favore del lavoratore, tutela differenziata in sede processuale e spinte assistenzialistiche non sono invenzioni della giurisprudenza, ma precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano giuste od ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò che preme è il sottolineare che molto spesso si fa carico ai magistrati di “scelte di campo” alle quali egli si trova vincolato proprio per quell’ossequio alla legge che da lui si pretende; b) in secondo luogo alle difficoltà interpretative del linguaggio oscuro delle norme che il patrio legislatore oggi emana nella materia con notevole fecondità e, soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella regolamentazione dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo. La magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt’altro che chiare anziché una precisa volontà che sostenga il precetto. Fin quando tutto questo non sarà assicurato dal nostro legislatore e dalle parti sociali in sede di contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di Ragusa, con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei machete interpretativi tra loro dissimili o addirittura contraddittori”. Sui rapporti tra il magistrato e la sfera del “politico”, Rosario Livatino rileva: “È forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi. Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell’analisi del rinnovato rapporto tra il magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca. Tanto con riferimento all’atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all’opinione pubblica l’immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato. L’ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della giustizia, garantisce l’indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della magistratura nel suo complesso, descrivendola come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” (art. 104). Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che il costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici, sia nell’aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell’interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria. È alla luce di questi principi che deve essere valutata la compatibilità tra la funzione del giudicare e l’adesione a partiti politici, gruppi, associazioni. La trasformazione del partito politico da centro di diffusione ideologica a struttura associativa caratterizzata da sempre più rigidi vincoli burocratici e gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere, rende oggi assai più difficile di quanto non fosse all’epoca della Costituente ammettere la possibilità che un giudice possa conservarsi libero iscrivendosi ad un partito politico. Si dovrebbe ammettere che il giudice, nel momento in cui si iscrive, fosse non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito come tale, nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel momento in cui egli dovesse occuparsi di quei casi. Parrebbe che, sul piano umano, ciò sarebbe troppo pretendere. Che dire poi della possibilità per il giudice di entrare a far parte di sette od associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto riserbo sui nomi degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta filantropia, le proprie finalità e i propri obiettivi? Se sono già serie le ragioni di perplessità sull’adesione del giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell’opinione pubblica, i cui aderenti risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare. Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell’art. 212 T.U.L.P.S., che sancisce l’immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti. Ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche. Essenziale è però – avverte Rosario Livatino – che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione. Piace qui riportare il VII canone del codice di condotta adottato negli Stati Uniti per la disciplina professionale dell’ordine giudiziario e forense e che testualmente sancisce il dovere del giudice di “sottrarsi all’attività politica, inadatta al suo ruolo”, astenendosi in particolare dall’ “assumere mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra carica in una organizzazione politica”, nonché dal “tenere pubblicamente discorsi per un’organizzazione politica o per un suo esponente o dall’appoggiare un candidato ad una carica pubblica”. Una previsione deontologica fatta propria da una società storicamente, economicamente, tecnologicamente più progredita della nostra, che costituisce, per ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e che dà l’ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto: quello del magistrato che, ad un certo punto della propria carriera, si candida ad una elezione politica ed ottiene la carica. Si potrebbe osservare che su questo non v’è nulla da eccepire: egli è un cittadino come tutti gli altri ed in questo non farebbe che esercitare un suo diritto costituzionalmente garantito. L’ordinamento, peraltro, prevede che durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni giudiziarie. Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando tale mandato, per una causa od un’altra, viene a cessare: infatti, un parlamentare, anche quando si tenga rigorosamente nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono (non per cattiva volontà o desiderio di collusione, ma per necessità delle cose) dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie, dall’assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un’abitudine di disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo parlamentare) in contrasto con la libertà di giudizio e l’indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché, tranne casi eccezionali, l’abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la struttura. D’altronde, anche ammesso che il magistrato-parlamentare sappia riacquisire per intero la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l’opinione pubblica, incline al sospetto e tutt’altro che propensa a credere alla rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel partito, consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto rappresentano. Per inevitabile conseguenza, l’utente della giustizia di uguale militanza politica riterrà, poco importa se erroneamente, di avere valide aspettative ad una decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre chi lo contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l’eventuale sentenza sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi politici ed alla conseguente preordinata malafede del giudice, costretto a dare comunque partita vinta al suo commilitone e partitante. Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario. Nel trattare quanto appena detto, si è fatto un rapido accenno a quella che è l’importanza del modo col quale l’utente della giustizia guarda colui che gestisce tale servizio; ciò ci dà il destro per trattare”. Sull’aspetto della c.d. “immagine esterna” del magistrato, Rosario Livatino rimarca: “Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma. L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività. Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole. Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile. Bisogna riconoscere che, quando l’art. 18 della legge sulle guarentigie dice “che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere”, esprime un’esigenza reale. La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. “Un giudice”, dice il canone II del già richiamato codice professionale degli U.S.A. “deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario”. Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive. Qui è importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole. Un giudice siffatto è quello voluto dall’umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi può essere relazione alcuna fra l’immagine del magistrato e la società che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che siano i capricci di costume della seconda: il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”. Sul “problema della responsabilità del magistrato”, Rosario Livatino dichiara: “Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di chiusura l’interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni intervenute nel costume del nostro Paese siano tali da imporre una nuova struttura della responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle quali quest’ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti la sua funzione. Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare il suggerimento, quale argomento di discussione per chi ascolta, alla proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi nell’esercizio di attività giudiziaria per colpa grave. Sul punto si può osservare come contributo a tale discussione, che l’introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili. Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale (concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una prova; concedere o no la provvisoria esecuzione). Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni. E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo. Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all’esposto contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso. Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità è prevista solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che questa limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero insufficiente ad offrire un criterio d’orientamento obiettivo. Difficile trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la motivazione stereotipa; l’omessa convalida della perquisizione in flagranza; l’omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone. L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l’autorità del precedente, che è vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello italiano fatto d’interesse personale e l’art. 101 della Costituzione potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione. Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere politico. Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch’egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte. Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell’inizio dell’azione penale. Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi. Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto. Questo è – avverte Rosario Livatino – l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità. Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all’epoca dello Statuto Albertino. Nel concludere, desidererei formulare solo un’ultima considerazione. È certo che, tranne alcuni aspetti immutabili, il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non può farsi carico solo ai giudici: non si può cioè chiedere che essi traggano soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento. Tutto è più complesso in una società moderna in materia di definizione e difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti. Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente chiaro in termini di “cosa era giusto e cosa era ingiusto” e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione. In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica. Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza”. Nella conferenza “Fede e Diritto” tenuta il 30 Aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle suore vocazioniste, Rosario Livatino dichiara: “Contrapporre i concetti, le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito l’impressione, l’idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica assolutamente inconciliabile; l’una, espressione della corda più intima dell’animo umano, dello slancio emotivo più genuino e profondo, dell’adesione più totale ed incondizionata all’invisibile e, in fondo, all’irrazionale; l’altra invece frutto, il più squisito, della razionalità, della riflessione, della gelida ed impersonale elaborazione tecnica: l’idea quindi di due aspetti della vita umana del tutto autonomi e distinti fra loro e, come tali, destinati a manifestarsi e ad evolversi senza alcun contatto o reciproca interferenza: estranei l’uno all’altro. Un’idea che pare trovare, sempre ad un primissimo e superficialissimo esame, eco nel tenore letterale del 1° articolo del nuovo Concordato: “La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Così invece non è: quella che abbiamo definito come prima impressione è una errata impressione perché, alla prova dei fatti, queste due realtà sono continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile. L’assunto dell’incontro è proprio questo: divagare su argomenti che, alla fine, ci conducano a dimostrare l’esatto contrario di quel giudizio frettoloso e a scorgere quale significato possa celarsi dietro questo esito insospettato. D’altronde, può subito precisarsi qual è la corretta relazione intercorrente fra i due termini di questa nostra conversazione: e la precisazione la cogliamo plagiando la costituzione Gaudium et spes (N.76) del Concilio Vaticano II, là ove significativamente si afferma la necessità di fare una “chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa, in comunione con i loro pastori. La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico; è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendentale della persona umana”. Non quindi indifferenza, non quindi assoluta separazione, ma giusto rapporto: questa è la sintesi anticipata di ciò che vorremmo dire. E che così sia, che così debba essere, che mondo della fede e mondo del diritto debbano avere partecipata e fattiva attenzione l’uno dell’altro ci viene significato da due massime testimonianze: tale è infatti la lettura che possiamo dare delle parole di S.S. Paolo VI, quando, nei primi degli Anni ‘70 (1973), nel discorso tenuto ai partecipanti al Congresso internazionale di diritto canonico, promosso dall’Università Cattolica di Milano, ebbe fervidamente a porre l’accento sulla opportunità di una “teologia del diritto che non solo approfondisca, ma perfezioni lo sforzo già iniziato dal Concilio”, così vivificando, anche sub specie iuris, il sentire cum Ecclesia. Tale è il senso che ritroviamo, dieci anni dopo, in altre parole, quelle dell’attuale pontefice, S.S. Giovanni Paolo II, allorché, nel discorso all’Unione Giuristi Cattolici, tenuto nel 1982, ebbe a sottolineare la necessità di valorizzare ogni forza che miri consapevolmente “all’attuazione dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica”. Affrontiamo quindi questa breve ricerca assumendola sotto tre aspetti: la presenza del momento giuridico nella sfera fideistica e nell’organizzazione ecclesiastica; la presenza del momento fideistico nell’ordinamento giuridico; le prove del continuo, necessario confronto”. Il giudice Livatino ricorda i concetti e le forme giuridiche nei massimi documenti della cristianità: la Bibbia ed il Vangelo, l’Antico e il Nuovo Testamento. “Il più alto simbolo e il più alto segno giuridico è la dettatura dei Dieci Comandamenti, il Decalogo, nel quale il legislatore, il “facitore del diritto”, è Jahvè, Dio della giustizia e dell’amore; nell’Antico Testamento, infatti, il vero sovrano di Israele è Dio, unico legislatore e al contempo re, giudice, quasi comandante militare invisibile, soggetto Lui stesso alla propria legge e tenuto a farla osservare, attraverso soprattutto i Suoi profeti e i Suoi saggi, nel quadro di una istituzione fortemente teocratica. Ma al di là del Decalogo, primo e più insigne esempio di diritto divino, rimane impressionante la valutazione dei passi giuridici dell’Antico Testamento, valutazione che ha indotto molti dei suoi più attenti studiosi a paragonarlo ad un testo unico legislativo moderno o, più propriamente, ad una compilazione di tipo giustinianeo, nella quale tutte le norme hanno uguale efficacia, indipendentemente dalla data di rispettiva emanazione e ciò a dimostrazione della unità di ispirazione dei redattori dei vari libri, la cui stessa numerosità, nelle varie epoche storiche, richiama unità di ispirazione. Il diritto biblico si presenta come un sistema rigorosamente etico, tendente non solo, e forse addirittura non tanto, a realizzare un ordine, formale o sostanziale che sia, nella comunità politica terrena, bensì a consentire ed agevolare la perfezione morale dei singoli, considerati come membri della comunità, ma soprattutto come persone e come figli del Padre trascendente: il concetto, in altri termini, del diritto e, tutto considerato, dello stesso Stato, come strumenti della fondazione della civitas Dei e, in via immediata, della salvezza di ogni singolo uomo. Alla sommità di questo sistema si pone, come si è detto, Jahvè, re, legislatore, giudice. E proprio ciò spiega tra l’altro anche il fortissimo formalismo interpretativo, contro il quale o, per lo meno, contro gli eccessi del quale si dirigerà il pensiero del Cristo, espresso in particolare nel discorso sul sabato finalizzato all’uomo, invece del contrario. Infatti, se la legge è dettata da Dio, essa deve essere attuata nel modo più assoluto e rigoroso. Ma in questa preoccupazione si innesta la comprensibile deviazione umana, consistente nell’aggrapparsi disperatamente alla certezza dell’interpretazione formale, proprio per essere maggiormente sicuri nell’attuare la volontà di Jahvè. Nessuna interferenza ermeneutica, neanche la obiettiva considerazione di interessi, sia pur quelli dell’intera collettività politica organizzata nella istituzione; per cui può dirsi che non soltanto è bandita ogni interpretazione di tipo politico, ma anche che i giuristi di Israele erano sostanzialmente dei teologi. Circa l’aspetto formale, le disposizioni contenute nei libri dell’Antico Testamento hanno prevalentemente la veste di un comando o di un divieto imperativo, ovvero quella del comando ipotetico (“tu farai… tu non farai” nel primo caso; “se tu acquisti…chi colpisce” nel secondo caso). Le prime formule hanno di regola carattere religioso e addirittura spesso non prevedono la sanzione, perché l’autore della violazione sa di esporsi alla punizione divina e sa, inoltre, che molto probabilmente la sua colpa indurrà gli altri membri della comunità a troncare i rapporti con lui, a disperderlo forse dalla comunità stessa, il che importa, in una società nella quale l’unica protezione era la solidarietà del gruppo di appartenenza, la condizione di vita più miserabile e precaria. Lo stesso Decalogo, pur legge fondamentale di Israele – legge in senso stretto e giuridico, non già insieme di precetti meramente morali -, è privo di alcun tipo di sanzione. Ma accanto a queste vi sono le norme dotate di sanzione, fra i cui tipi si annovera: la pena di morte, eseguita per lo più mediante lapidazione ad opera del popolo fuori delle porte della città; l’espulsione dalla comunità; la pena corporale con bastonature e flagellazioni; sanzioni economiche varie il cui contenuto era per lo più destinato alla parte lesa, a realizzazione anche di un risarcimento danni. I reati puniti più gravemente, con la pena capitale, erano anzitutto quelli contro la divinità, come la bestemmia (atto di accusa rivolto poi contro il Cristo) ed ogni atto di ribellione alla divina volontà come la profanazione del sabato, l’idolatria, la stregoneria; seguono i reati contro la purezza dei costumi, la riduzione di un uomo in schiavitù, punita con la morte al pari dell’omicidio. Estremamente significativo il fatto che l’accusatore, pubblico o privato, così come il testimone d’accusa, fossero costretti ad essere fra i primi ad eseguire la pena, con una sorta di responsabilizzazione di altissimo valore morale. Immenso è il valore dei diritto biblico nel patrimonio della cultura umana e di quella giuridica in ispecie: ogni messaggio giuridico che non sia strettamente legato a costumi e necessità storicizzati ha nel diritto biblico l’impronta di segno premonitore. Senso del divino tradotto in norme di comportamento, fondamento della persona umana, esaltazione della solidarietà, grande sensibilità per la carità verso il prossimo specialmente se più debole, soppressione di ogni atteggiamento di violenza che non sia difensiva o punitiva, forte ambizione per la purezza dei costumi e per la salvezza della fede nel rapporto verticale con la divinità, sono tutti connotati non soltanto altamente caratterizzanti nei confronti dei popoli coevi, nel senso di una altissima civiltà morale, ma costituiscono le premesse ideologiche e spirituali dell’ancor più compiuto diritto evangelico. Ove anche si volesse premettere l’aspetto fideistico religioso di cui il diritto biblico è pregno, basterebbe, fra gli altri elementi, da solo, il senso fortissimo dell’uguaglianza giuridica e morale dei membri del popolo di Israele, anticipatore di circa tremila anni dei moderni riconosciuti e riscoperti valori giuridici, per fornire questo metro di grande avanzamento. È possibile, possiamo chiederci con meraviglia, che negli spiritualissimi libri evangelici possa trovarsi riferimento e addirittura ricorso dialettico a forme e concetti giuridici? Valgono per tutti questi tre messaggi: “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: prima che passi il cielo e la terra, non uno jota, non un apice passerà della legge finché tutto si compia”; “Chi dunque violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, ed insegnerà agli uomini a fare lo stesso sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi invece li avrà praticati ed insegnati sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché vi dico che se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”; “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”. Esaminiamoli brevemente uno per uno: nel primo, può cogliersi il segno dei passaggio dal diritto biblico al diritto evangelico e l’indicazione del fondamento della evoluzione futura del popolo di Dio, tesa a raggiungere la civitas Dei: necessità della giustizia, ma al contempo superamento della giustizia, perché essa, in sé sola, è insufficiente. Una affermazione terribilmente incomprensibile per i non cristiani, ai quali non sembra assolutamente vero che una perfetta giustizia non sia sufficiente per realizzare completamente l’umanità; nel secondo, rinveniamo il completamento e l’esplicazione del primo: la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali, miticamente formali, inseguiti nel diritto biblico e da ultimo anche degenerati con la prassi giudiziaria degli scribi e dei farisei; nel terzo, famosissimo, il Cristo legislatore pone il principio della dicotomia dei due piani: il giuridico e il fideistico; principio non nel senso della separazione dei due piani, ma nella articolazione strumentale tra il primo e il secondo o, quanto meno, nel coordinamento del primo rispetto al secondo, cioè al piano ultraterreno; ciò non importa che lo Stato o un singolo Stato assuma volto e natura etici e confessionali; non occorre cioè che Cesare sia un credente. È sufficiente che ogni singolo Stato rispetti, nella sua legislazione terrena, quelle esigenze della persona, dei gruppi, della comunità che sono indicate dalla loro stessa umanità di vita; ad esempio, la legge dello Stato non potrà consentire, senza intervenire con la norma indicativa e con la punizione adeguata, che una persona tolga la vita ad un’altra (qui si presenta sintomatico il campione concettuale della pratica abortiva); non potrà imporre la sterilizzazione umana; non dovrà esigere tributi vessatori unicamente per paralizzare l’esercizio di un tipo di libertà di associazione; e via dicendo. Date a Cesare significa date ciò che è giusto che Cesare chieda; ma Cesare ha, a sua volta, una regola naturale che deve osservare e – a dimostrazione macroscopica dei suoi limiti e per evitare che possano esservi dubbi su questo punto – non potrebbe ad esempio pretendere di sopprimere la vita delle persone coi capelli biondi perché sgradite al potere. Possiamo chiederci a questo punto, per chiudere su questa parte, quale rapporto possa configurarsi fra il diritto evangelico e quello biblico. Non pochi studiosi, nello sforzo di evidenziare i connotati giuridici dei diritto evangelico, sono spinti a ridurre e a censurare la portata dei precetti dei diritto biblico; è probabile però che la strada e la chiave di lettura siano quelle della percezione del perfezionamento. Ciò che si perfeziona non rinnega la fase precedente di sviluppo, anzi la considera come un piedistallo indefettibile della ulteriore fase evolutiva. In ultima analisi – rileva Rosario Livatino – può dirsi che nel diritto evangelico la norma giuridica tenda, più marcatamente ancora che nel diritto biblico, alla perfezione morale della persona, secondo il programma generale di salvezza che rappresenta il canovaccio della vita umana e della stessa condizione esistenziale dell’uomo. E forse l’esempio più importante, sintomatico ed incisivo della concezione morale-diritto nel diritto evangelico, è costituito dalla fortissima affermazione di Cristo sulla unità e sulla indissolubilità dei matrimonio. Si tratta di un tema che ha la capacità di evidenziare, forse più di ogni altro, il passaggio dal diritto biblico a quello evangelico e che al contempo ha rappresentato nei secoli la tessera concettuale più connotante della concezione cristiana della vita umana”. Il giudice Livatino affronta così il tema del diritto quale strumento organizzatore della vita della Chiesa: il Codice di diritto canonico. Perché, ci si può chiedere, sono necessarie norme giuridiche appartenenti ad un ordine autonomo, per disciplinare la vita della Chiesa? Non vi è contrasto tra sommi principi della carità necessariamente soggettiva ed oggettività di una norma di diritto? I precetti dell’amore e del perdono non bastano a regolamentare la vita di coloro che credono in Cristo? Il messaggio evangelico non si inaridisce se gettato nelle forme, per loro natura rigide, del diritto? È veramente conforme al mistero della Chiesa di Cristo la presenza di un ordinamento che poggia per antica tradizione sulla ragione naturale, oltre che sui precetti divini? In breve, il diritto canonico: perché? È noto come da questi interrogativi sia partita nel Sec. XVI la riforma protestante. Essa non si limitò all’aspra critica del commercio delle indulgenze, ma investì pure la presenza e necessità della legge canonica esterna, basata sulla ragione naturale oltre che sui precetti divini e che, perciò, appariva tanto contrastante con lo slancio di fede, del tutto interiore, da indurre Lutero a definire il Diritto canonico “opera di Satana” e i canonisti “cattivi cristiani”. Questa visione poggiava sulla convinzione che non potesse esistere norma giuridica di derivazione naturale o divina dal momento che non esisteva la possibilità stessa di una giustizia divina: vero diritto deve essere considerato, secondo Lutero, solo quello dello Stato, necessariamente coincidente con la forza e la violenza, poiché solo forza e violenza erano – a suo avviso – in grado di porre rimedio alla natura corrotta dal peccato. Esasperando il pensiero agostiniano, cioè, Lutero vide il diritto solo quale frutto della volontà di potenza, anche arbitraria, del legislatore, a prescindere da esigenze di razionalità intrinseca: l’antinomia tra carità e diritto non poteva allora non essere insuperabile. D’altro canto, un ordinamento come quello canonico, fondato su premesse di diritto divino oggettivo e di libera razionalità, non poteva non apparirgli altro che detestabile; quasi che esso volesse ingannare proditoriamente l’uomo circa la possibilità (da lui radicalmente negata) di raggiungere, anche con le proprie forze naturali, la libertà della grazia. Fu quella una contestazione del diritto canonico che si risolse, in definitiva, nella critica aspra a un modello di uomo, già celebrato dall’umanesimo di Erasmo da Rotterdam, come capace di trovare nella propria ragione naturale e nella propria libertà gli stimoli alla vita consociata: modello che la controriforma avrebbe continuato ad avere a punto di riferimento, così come tutto il pensiero cattolico posteriore, compreso quello moderno. Ma non si pensi che queste contestazioni siano solo un ricordo del passato: tutt’oggi vi sono frange dissenzienti in seno alla stessa società religiosa quanto alla necessità di un diritto canonico. Sia negli anni del Concilio che in quelli del dopo-Concilio, più di una corrente ecclesiale ha proposto un impianto di pensiero sostanzialmente negatore dell’opportunità, almeno, se non della legittimità, di un diritto canonico. Si va da una forma di ascetismo intellettuale, propria alla più parte dei cosiddetti cattolici del dissenso, che porta a contestare vari aspetti della vita individuale umana ed associata – e tra essi pure il fondamento razionale del diritto canonico – a concezioni spiritualistiche, che vorrebbero trasformare ogni annuncio religioso, e perciò anche il messaggio evangelico, in qualcosa di simile al rigore dei dervisci o alla negazione del mondo propria dei guru, opponendosi perciò a tutto ciò che attiene ad aspetti socialmente rilevanti, per giungere alfine – avverte profeticamente il giudice Livatino – sulla spiaggia estremistica dei così detti “cristiani rivoluzionari”, i quali interpretano l’insegnamento del Vangelo come una catapulta con la quale abbattere, per trasformarla profondamente, la società. In definitiva, il filo comune che lega la lotta contro il diritto canonico, oggi come ieri, è il ripudio della Chiesa come istituzione. Ed è precisamente qui il punto di incrocio delle critiche recenti con molti motivi di fondo della disperata teologia luterana. A queste posizioni la Chiesa come risponde? Vediamo anche qui una voce del passato e l’atteggiamento contemporaneo. Per il passato, quale conforto più autorevole di quello di S. Tommaso? L’Aquinate così insegna (v. in particolare il De regimine principum): l’uomo come singolo non può conseguire la propria perfezione; questa perfezione può essere infatti conseguita soltanto instaurando relazioni con altri uomini e una mutua cooperazione che renda possibile l’acquisizione di quei beni fisici e spirituali che l’uomo isolato non sarebbe mai capace di acquisire. La società è dunque lo stato naturale dell’uomo; come tale è voluta da Dio. Ma dovunque esistono forme associative, esiste anche una autorità di governo che ha come scopo il coordinamento delle attività dei singoli, svolte in vista del fine: il bene. L’ordinato svolgimento di queste attività e la loro unificazione esigono altresì un ordinamento legale e la presenza stabile di persone investite di autorità che ne impongano il rispetto. Soltanto organizzazioni sociali di una certa dimensione possono conseguire con sufficienza di mezzi il bene comune. Tipica è la città, che raccoglie nel suo seno le comunità inferiori (famiglie, villaggi, etc.). Questo concetto di città, come comunità che possiede tutti i mezzi necessari per il “bene vivere”, è applicato analogicamente dall’Aquinate alla Chiesa, la quale, a motivo di tali note distintive, appare dunque come società perfetta che ha in sé sia il fine che i mezzi necessari per raggiungerlo. Il che significa che l’equazione “Ecclesia-Bonum commune” ricalca, in termini di massima sublimazione, il parallelo che si instaura tra la peculiarità terrena di una realtà comunitaria, munita di quanto è indispensabile per conseguire gli obiettivi sommi cui è proiettata, e la compenetrazione tra l’azione ed i fini stessi che la nobilitano e la trascendono. Ma l’Aquinate – precisa Livatino – non si ferma qui; egli dà anche contezza della struttura verticistica della Chiesa spiegando che, poiché il fine della Chiesa è quello di procurare la salvezza spirituale dei sudditi per mezzo della trasmissione di origine divina e l’amministrazione dei sacramenti, la forma monarchica è necessitata dall’imperativo di conservare l’unità della Chiesa nella vera dottrina. La conservazione dell’unità comporta tanto l’esigenza di trasmettere incorrotto il deposito della fede quanto quella di predisporre i mezzi necessari per impedire la sua adulterazione. Questa è la funzione della gerarchia e quindi, a maggior ragione, del capo divinamente istituito di questa gerarchia, il Papa. La duplice funzione, positiva e negativa del Papa, comprende sia la funzione pastorale che quella magisteriale. Il Papa deve conservare dunque l’unità di fede e disciplina all’interno della Chiesa. In sintesi, nel pensiero di S. Tommaso l’ordinamento giuridico ecclesiale non costituisce fine in se stesso, ma è mezzo subordinato al fine primario della Chiesa: la gloria di Dio e la salus animarum. Ma la natura di mezzo dell’ordinamento canonico non toglie che, con tale, esso sia costitutivo ed ineliminabile per l’esistenza storica del Chiesa. Se, poi, il diritto è mezzo per l’esistenza storica della Chiesa, il Primato (il soglio di Pietro) e, in genere, la gerarchia ecclesiastica sono i luoghi in cui questo mezzo può essere usato legittimamente per l’organizzazione responsabile e lo sviluppo esaltante della comunità credente”. Il giudice Livatino affronta ora l’atteggiamento della Chiesa contemporanea. “Essa ha ribadito pure nel Concilio Ecumenico Vaticano II (costituzione Lumen Gentium, 8) la legittimità di una società giuridica al suo interno, costituita quale organizzazione visibile (Chiesa visibile) e retta da norme autonome da quelle dello Stato; società giuridica non meno importante di quella Chiesa invisibile che è data dal Corpo Mistico e che agli occhi dei luterani è l’unica vera Chiesa. Il diritto canonico viene proposto come diritto che realizza un’esigenza fondamentale dell’uomo, quella della giustizia, elevandola dal piano naturale a quello soprannaturale. Come l’uomo compiuto non può fare a meno del diritto, come non può fare a meno del pensiero, dell’arte, della poesia, della vita quotidiana, realtà tutte sussunte dalla Chiesa dal piano naturale a quello soprannaturale, così pure l’esigenza di una giustizia viene sussunta sul piano soprannaturale grazie ad un sistema di norme di origine e carattere soprannaturale, ma che, rimanendo pur sempre norme di diritto, per molte parti possono apparire analoghe al diritto umano e terreno. Appunto in questa linea si pone la costituzione apostolica Sacrae Disciplinae Leges, emanata per la promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici. Essa precisa che la nuova legge certamente non ha come scopo di sostituire la fede, la grazia ed i carismi, ma di assicurare ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nella attività stessa della Chiesa. E conclude che proprio perché la Chiesa è organizzata come una compagine sociale e visibile, ha bisogno di norme; anzitutto per rendere visibile la sua struttura gerarchica ed organica, inoltre per organizzare adeguatamente l’esercizio delle funzioni divinamente affidatele (specie quelle della Sacra Potestà e dei Sacramenti), nonché per regolare, secondo una giustizia basata sulla carità, le relazioni fra i fedeli ed infine perché le iniziative comuni, prese per una vita cristiana sempre più perfetta, vengano sostenute, rafforzate e promosse grazie alle norme canoniche. Su queste premesse, che bene sono emerse in due importanti congressi tenutisi sul nuovo Codex in Parma il 15 e 16 Aprile 1983 e, a livello ancora più alto, dal 19 al 26 Agosto 1984 presso l’Università di Saint Paul ad Ottawa, in Canada (si richiama particolarmente la relazione dell’insigne studioso della materia, il prof. Eugenio Correcco dell’Università di Friburgo), è stata curata l’emanazione della nuova codificazione. L’evento che ha fatto apparire necessaria una vera e propria codificazione, che superasse di gran lunga il progetto di S.S. Giovanni XXIII di un semplice aggiornamento, è stata la ristrutturazione costituzionale provocata dal Vaticano II, che ha spostato il centro di gravità, collocato unilateralmente nella Chiesa universale, verso la Chiesa particolare; come il Codex del 1917 venne elaborato a seguito dei voti formulati da quella fondamentale assise che fu il Concilio Vaticano I, così la celebrazione del Vaticano II, con tutto l’insieme delle nuove linee di pensiero e di azione rivolte dalla Chiesa al mondo contemporaneo, ha fornito lo stimolo per la revisione del vecchio Codex. In ordine al sistema giuridico adottato, la codificazione appunto, va detto che la Chiesa cattolica ha continuato a riporre fiducia in esso, considerandolo tuttora il modo migliore per disciplinare ogni settore giuridico a garanzia reale dell’attuazione di un disegno di riforma armonicamente coerente. Già questo impegno di metodo va sottolineato come estremamente positivo. È certamente un esempio di serietà e persino di coraggio – rileva Livatino – se lo si confronta con quell’eccesso di legislazione scoordinata che è purtroppo tipico dell’attività di molte assemblee legislative che hanno ormai abbandonato il principio di coerenza dell’ordinamento per soddisfare esigenze di mero equilibrio partitico, anche a costo di introdurre (come talvolta è avvenuto in Italia) leggi oscure, contraddittorie, accidentali e persino ad personam, nella convinzione rassegnata che sia ormai impossibile e forse inutile coordinare le leggi statali non solo in un codice, ma neppure in un testo unico. Si potrebbe obiettare che un piano organico di riforma può più facilmente essere perseguito in un ordinamento come quello canonico a struttura piramidale, confluente nell’autorità di una sola persona – il Pontefice – supremo e tendenzialmente unico legislatore per la Chiesa; è più difficile, invece, nei sistemi parlamentari dove il prezzo da pagare alla Democrazia è proprio il rischio di avere leggi poco coordinate. Ciò è vero: ma sarebbe inesatto ricavarne l’impressione che la legge canonica nuova sia stata data con un atto autoritario proveniente dall’alto, fuori da un confronto dialettico di idee e di possibili soluzioni. Lungi dall’essere frutto di una volontà imperscrutabile, il nuovo Codex appare, già dai suoi lavori preparatori, frutto di uno spirito squisitamente collegiale, pervaso dal desiderio di comprendere – prima di imporre dall’alto una nuova disciplina – esigenze o desideri legati a specifici popoli, desiderio che ha trovato ampia attuazione nella complessità del procedimento di legiferazione. Il testo del progetto (o schema), prima di diventare definitivo, è stato infatti spedito agli organismi più vari: dai dicasteri romani alle università cattoliche di tutto il mondo, alle conferenze episcopali dei vari Paesi, ai tribunali ecclesiastici, ad associazioni o ad esperti particolarmente qualificati. Le osservazioni che ne sono derivate, vagliate ed ordinate da un elaboratore elettronico, sono state sottoposte all’esame del competente coetus, riunito per l’occasione in una forma ristretta (coetus parvus) e limitato ai tecnici del diritto. Ne è nato uno “schema” definitivo sottoposto poi (anche per le necessarie connessioni teologiche e dogmatiche) all’adunanza plenaria dei cardinali che vi hanno portato varie modifiche. Soltanto a seguito del compimento di questo complesso iter (durato vent’anni a fronte dei soli dodici anni di preparazione del vecchio testo) il nuovo Codex è giunto definitivamente, come si suol dire, sul “sacro tavolo” del pontefice ed è stato promulgato il 25 Gennaio 1983. Dopo una vacatio legis – che si è voluta particolarmente lunga al fine di dare a tutti i fedeli la possibilità concreta di informarsi e di conoscere a fondo le nuove disposizioni – esso è entrato definitivamente in vigore il primo giorno di Avvento del 1983”. Sulla la presenza del momento fideistico nell’ordinamento giuridico, la fede nelle norme scritte, il giudice Livatino ricorda che “la nostra Costituzione riserva ben quattro articoli al problema del culto: Art. 7 – “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”; Art. 8 – “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”; Art. 19 – “Tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale od associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”; Art. 20 – “II carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. A proposito di questo ultimo articolo è facile rilevare come esso trovi la sua ispirazione nella volontà di impedire per l’avvenire provvedimenti legislativi persecutori contro gli enti ecclesiastici, come è avvenuto nel passato per le leggi eversive dell’asse ecclesiastico. Ritornando poi all’Art. 8, va osservato che esso costituisce un progresso rispetto allo Statuto Albertino per il quale le confessioni diverse dalla cattolica erano semplicemente “tollerate”. Tuttavia permane una differenza fra la confessione cattolica e le altre confessioni. Mentre nessun limite pone lo Stato all’organizzazione nel territorio italiano della Chiesa cattolica, all’infuori di quelli posti dalle leggi di attuazione dei Patti lateranensi, per le altre confessioni, invece, si esige espressamente che la loro organizzazione non contrasti coi principi dell’ordinamento giuridico del nostro Paese. In attesa che vengano stipulate le intese previste da tale norma, le leggi che disciplinano i rapporti con le confessioni non cattoliche sono la legge 24-6-1929 n. 1159 ed il R.D. 28-2-1930, n. 289 (rispettivamente legge e regolamento sui “culti ammessi”); tali testi legislativi però, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, non possono trovare applicazione per le parti che risultino ora in contrasto con i principi da essa posti: ad esempio non è più richiesta l’autorizzazione governativa per l’apertura di templi ed oratori per l’esercizio del culto e non si richiede neanche che le riunioni religiose di culti acattolici siano obbligatoriamente presiedute od autorizzate da un ministro del culto, la cui nomina sia stata approvata dal Ministero competente. La prima concreta attuazione all’Art. 8 della Costituzione, per quanto riguarda l’adozione di intese, si è avuta con la legge 11-8-1984 n. 449, che ha dettato le “Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese”. Per la verità, di provvedimenti adottati per legge sulla base di intese ve ne erano già stati nel nostro ordinamento: si tratta delle leggi n. 580/1961 e 669/1973, che estendevano ai ministri di culto delle varie confessioni le forme di assicurazione e di previdenza sociale previste per altri lavoratori. Si era trattato, peraltro, di accordi di portata assai limitata; l’intesa con la Tavola Valdese è invece un accordo globale che regola tutte le materie “comuni”, in esatto parallelo con il Concordato con la S. Sede. Ed il parallelismo è stato assoluto anche nei tempi: l’apertura delle trattative per l’intesa fu annunziata, infatti, al Parlamento dall’allora presidente del Consiglio on. Andreotti, alla fine dei 1976, contemporaneamente alla prima relazione sulle appena avviate trattative per la revisione del Concordato. E la firma dell’intesa ad opera del presidente del Consiglio Craxi e del moderatore della Tavola Valdese, Bouchard, è avvenuta il 21-2-1984, tre giorni dopo la sottoscrizione dell’accordo di revisione del Concordato. Nell’iter parlamentare si è invece rotta questa contemporaneità. Nell’Agosto 1984 la legge di approvazione dell’intesa è stata approvata in via definitiva, mentre quella di ratifica del Concordato era votata solo da uno dei due rami del Parlamento (ed è stata approvata definitivamente solo nel Marzo 1985). L’approvazione della legge n. 449 non esaurisce affatto la questione delle intese con le confessioni diverse da quella cattolica. Essa riguarda, infatti, un numero limitato di chiese e di cittadini non cattolici; per le altre confessioni, diverse da quella cattolica e non rientranti nel Patto di integrazione stipulato fra le chiese valdesi nel 1975, rimane, quindi, in vigore la legislazione sui “culti ammessi” del 1929-1930 di cui s’è detto. Trattative per la stipulazione di un’intesa sono in corso dal 1977 con l’Unione delle comunità israelitiche e sono state avanzate richieste da numerose altre confessioni. Ma il recepimento dei problemi connessi alla presenza fideistica nella vita del cittadino non si limitano a queste massime previsioni. Un numero elevatissimo di norme, sparse un po’ dovunque, si occupano della materia e tentarne l’elencazione sarebbe praticamente impossibile: nel TULPS si ritrovano norme circa la distribuzione di stampati, le questue, le cerimonie religiose e le processioni ecclesiastiche; nel T.U. della legge comunale e provinciale si ritrovano regole per le spese per gli edifici serventi al culto pubblico e per la salvaguardia degli interessi diocesani; nel T.U. delle leggi sul reclutamento dell’esercito vi sono norme apposite per il servizio alle armi di coloro che siano allievi di istituti cattolici in Italia o all’estero e che si trovino nelle missioni; del codice civile va rammentato l’art. 629, relativo alle “disposizioni in favore dell’anima”; del codice di procedura civile l’art. 514, che dichiara assolutamente impignorabili le cose sacre e quelle che servono all’esercizio del culto; del codice penale gli artt. 61 n. 9 e 10, che della qualità di ministro del culto fanno una circostanza aggravante comune del reato, sia dal punto di vista attivo che passivo; l’art. 327 ult. comma, che considera tale qualità come motivo di specifica incriminazione del delitto di eccitamento e vilipendio delle istituzioni, delle leggi e degli atti dell’autorità, commesso da P.U.; gli artt. 402-406 che contemplano i delitti contro la religione cattolica e i culti ammessi; del codice di procedura penale in particolare vanno segnalate le norme che concernono l’esame testimoniale: v. l’art. 356, 1° comma, che prevede che, nell’ipotesi debba essere assunto in qualità di teste un cardinale, tanto debba avvenire nel luogo da lui designato; v. l’articolo 352, che prevede l’impossibilità di obbligare i ministri della religione cattolica o di culto ammesso nello Stato a deporre “su ciò che fu loro confidato o è pervenuto a loro conoscenza per ragioni del proprio ministero”; particolarmente interessante in merito la sentenza della Sez. I della Corte di Cassazione del 17-12-1953, che ha stabilito come il ministro del culto cattolico abbia facoltà di astenersi dal deporre su ciò che gli viene confidato sotto il sigillo della confessione anche se il confidente lo abbia sciolto dal vincolo. Accanto alle norme scritte – osserva Livatino – riprova vitale della continua intersezione fra mondo del diritto e mondo della fede è l’esistenza di strutture amministrative specificatamente create per occuparsi dei loro rapporti. Com’è noto, con due RR.DD. del 1932 venne operato il passaggio dei servizi concernenti gli affari di culto dal Ministero della giustizia a quello dell’interno, devolvendo, per quanto riguarda l’amministrazione periferica, i poteri e le facoltà, già spettanti alle procure generali presso le corti d’appello, alle prefetture. Presso il Ministero dell’Interno sono costituite la Direzione generale degli affari di culto (che interviene, fra l’altro, nella disciplina giuridica e nel controllo sulla attività economica degli enti ecclesiastici) e la Direzione generale del fondo per il culto e del Fondo di religione e di beneficenza per la città di Roma, che amministra patrimoni legati alla materia ecclesiastica; le prefetture godono poi di competenze per l’esercizio della vigilanza su tutte le istituzioni di culto comprese nella circoscrizione territoriale, per il compimento delle istruttorie relative a tutti gli affari in materia di culto, per le autorizzazioni per gli acquisti a titolo oneroso o gratuito da parte degli enti ecclesiastici al di sopra di un certo valore, etc.”. Il giudice Rosario Livatino rimarca anche il concetto di fede come istanza vivificatrice dell’attività “laica” di applicazione delle norme. “Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Non soltanto perché la scelta dirime una problematica del passato (giudizio di colpevolezza, giudizio di inadempienza, etc.), ma anche perché molto spesso la scelta comporta una previsione degli effetti a venire (affidare un minore al padre o alla madre “separandi”). Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che somma così paurosamente grande di poteri gli affida – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione. Ed ancora una volta sarà la legge dell’amore, la forza vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente. Ricordiamo le parole del Cristo all’adultera: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”; con esse Egli ha additato la ragione profonda della difficoltà: il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta. Compito del magistrato non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine. Verità che ritroviamo nelle altre parole che Gesù ebbe a pronunziare quando, secondo Marco, a proposito dello spigolare in giorno di sabato, disse, rivolto ai farisei: “Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. È adesso il momento di dedicare l’attenzione a quelle che costituiscono le prove che quanto sin qui detto non rimane confinato in una sorta di previsione bella ma astratta, non confortata cioè dall’esperienza storica o più esattamente “di cronaca”. Non v’è alcun imbarazzo a proporre esempi del quotidiano confronto cui le due realtà, alle quali abbiamo dedicato questo incontro, sono sottoposte”. Il giudice Livatino ne propone quattro scottanti. “Il problema dell’insegnamento della religione nelle scuole. È di ieri la notizia dei provvedimenti del Consiglio dei ministri sull’argomento, ma tutti ricordiamo le roventi polemiche che hanno fatto seguito all’intesa fra il ministro della Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana per l’attuazione delle disposizioni del nuovo Concordato sul punto, polemiche centrate sia sulle procedure seguite dal ministro Falcucci per la definizione degli accordi, sia sul contenuto degli stessi. Aiutiamo il ricordo rammentando due voci di segno contrario: Carlo Cardia, sulla “Unità” del 14-1-1986, ha affermato che il fatto è da criticare, perché si è cercato di limitare la facoltatività della scelta – se avvalersi o meno dell’insegnamento religioso – al primo anno di ogni ciclo scolastico, prevedendo che negli anni successivi toccasse agli interessati chiedere di propria iniziativa la modifica della scelta iniziale; soltanto l’intervento dei comunisti e di altri gruppi laici – si sostiene nell’articolo – ha evitato che si pervenisse a tale risultato ed ha fatto sì che all’inizio di ogni anno scolastico tutti gli studenti ricevano il modulo, sulla base del quale essi potranno operare la loro libera scelta. È evidente che non si è trattato di una questione secondaria di moduli, bensì di evitare che si tornasse, sia pur parzialmente, al sistema dell’esonero che, col nuovo Concordato, era stato definitivamente superato e di dare, a tutti, gli stessi strumenti necessari per operare l’una o l’altra scelta, poste sullo stesso piano. Quindi una questione di principio: di libertà e di laicità. Il cardinale Ugo Poletti è intervenuto nel dibattito sostenendo su “L’Osservatore Romano” del 14-1-1986 che “nessuno può mettere in dubbio che l’intesa sia stata condotta nel più rigoroso rispetto della legalità. Per inciso si può rilevare che la Chiesa cattolica ha accolto con simpatia e senza alcuna riserva i particolari accordi stipulati da altre confessioni religiose con lo Stato. Indubbiamente l’intesa può piacere o non piacere in alcuni particolari: ognuno è libero di esprimere il suo parere. Tuttavia, quando viene messa in dubbio la legalità di un accordo, legittimamente autorizzato, che come oggetto principale sancisce per tutti i cittadini italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento – diritto che comprende sia la globalità del testo concordato, sia i suoi particolari – viene da chiedersi ragionevolmente: qual è la libertà costituzionale riconosciuta in Italia? Esiste forse una libertà di primo grado assoluto, incondizionata per i cittadini che rifiutano ogni forma di religione e quella specificatamente cattolica; e un’altra libertà, di secondo grado (condizionata non dalla Costituzione, ma dallo Stato laico), per i cittadini che intendono praticare o quanto meno confrontarsi con la religione cattolica?”. La dolorosa questione dell’eutanasia. Due recenti vicende giudiziarie hanno riproposto alla pubblica attenzione questo gravissimo problema che investe il diritto più importante per la fede e per il mondo giuridico: il diritto alla vita. Si tratta delle recenti sentenze della Corte di Cassazione nel procedimento penale a carico dei coniugi Oneda, imputati di omicidio volontario nei confronti della figlia, e della Corte d’Assise di Roma, che ha condannato a soli quattro anni di reclusione e rimesso in libertà provvisoria Luciano Papini, tratto a giudizio per l’omicidio del nipote, gravemente handicappato e vittima di indicibili sofferenze. Nel primo di tali procedimenti, originato dal rifiuto, per motivi religiosi, dei due imputati di far sottoporre la loro figlioletta a trasfusioni di sangue, rese indispensabili dalla gravissima forma di anemia dalla quale la bambina era affetta, il conflitto – come risulta all’evidenza – si era posto tra diritto alla vita e libertà religiosa. Nel secondo procedimento la innegabile mitezza della pena, inflitta dai giudici romani, è conseguita alla derubricazione della imputazione da omicidio volontario ad omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), ma è stata considerata da taluno un passo tangibile sulla strada di un futuro riconoscimento di liceità all’eutanasia. La posizione della morale cristiana sul punto è semplice e cristallina: essa si informa al principio dell’intangibilità, della sacralità e dell’inviolabilità della vita umana di cui solo Dio (che la dona) può disporre e, pertanto, considera l’eutanasia in contraddizione con il potere sulla vita e sulla morte dell’uomo, spettante solo a Dio. In questo senso si è espresso mons. Dionigi Tettamanzi, in un suo articolo su “L’Osservatore Romano” del 20-4-1985, sottolineando come sin dalla “dichiarazione sull’eutanasia” della Sacra Congregazione per la dottrina della fede del 5-5-1980, la grave illiceità morale dell’eutanasia è stata indicata come dottrina esplicita e certa della Chiesa, che, con il suo magistero, sia pontificio che episcopale, più volte si è espressa in questo senso. Ma non vogliamo limitarci alle opinioni di coloro che parlano “dal di dentro” della Chiesa: ecco come si esprime il prof. Corrado Manni, direttore dell’Istituto di anestesiologia e rianimazione dell’Università Cattolica del “Sacro Cuore” di Roma, sulle colonne de “L’Avvenire” del 6-3-1985: “La matrice ideologica dell’eutanasia, qualunque essa sia – individualismo, utilitarismo, pragmatismo, efficientismo -, non impedisce il timore di una escalation che dalla buona morte e dalla morte con dignità arrivi al suicidio per procura ed alla soppressione di ogni vita priva di valore. Nell’ambito della attività medica non c’è posto per intese le quali, sotto l’aspetto della pietà e di altre considerazioni umane, tentano di deviare l’arte medica dal suo naturale, nobile compito. Naturalmente l’attività medica deve rispondere alle esigenze degli ammalati; le sofferenze che frequentemente turbano coloro che arrivano alle fasi terminali della loro malattia vanno nettamente combattute, ma ciò non per favorire una morte serena, ma per rendere l’ammalato ancora partecipe alla vita”. Ed ecco il pensiero – certamente laico – del parlamentare repubblicano Guglielmo Castagnetti, che su “Il Giorno” del 2-4-1985, commentando la proposta di legge dell’on. Fortuna, avvertiva che essa “rischia di creare irragionevoli ed artificiose dispute fra laici e cattolici, che anacronistici schematismi tendono a collocare in trincee opposte e che invece su questo terreno non hanno ragione di dividersi. Anzi questo è proprio uno degli argomenti rispetto ai quali laici e cattolici possono esprimere valori, ansie e preoccupazioni comuni. Perché, se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana, quali che siano le forme e le connotazioni dolorose che può assumere, è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare od interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire che essa appartiene comunque alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire”. Le difficoltà giuridiche ed etiche legate alla c.d. fecondazione artificiale. Sono note anche qui le “raccomandazioni” che la competente commissione ha precisato nel rapporto presentato il 22-8-1981 al Consiglio d’Europa; in particolare – rileva Livatino – per l’inseminazione eterologa, il rapporto ha evidenziato le seguenti perplessità: la possibilità che tale decisione sia presa da una donna senza conoscere l’identità del donatore fa, della procreazione, un atto irresponsabile ed egoista, che modifica lo spirito della famiglia; toglie al donatore la responsabilità di prendersi cura della sua discendenza; il possibile disconoscimento della paternità ha gravi ripercussioni sul futuro, anche psichico, del figlio; si pone anche in dubbio il potere del medico e delle strutture pubbliche di scegliere colui che deve essere o non deve essere il padre del bambino e si auspica, anche, l’abbandono dell’inseminazione extramatrimoniale. Non v’è chi non veda come queste indicazioni esigano una verifica alla luce delle norme costituzionali e, per l’uomo di fede, un confronto con i propri principi etico-religiosi. Le profonde angosce legate all’obiezione di coscienza. Più che all’obiezione di coscienza c.d. militare (che peraltro ha avuto essa stessa, storicamente, origini religiose), intendiamo qui far cenno all’obiezione sanitaria contro le pratiche abortive. Il riferimento è all’art. 9 della legge 22-5-1978, n. 194, che recita al 1° comma: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza, quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione”. È evidente che ciò che dà all’obiezione di coscienza il diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento è il giusto riconoscimento di una (e questa è l’espressione testuale, del resto, adoperata dalla legge 772/1972 sulla obiezione militare) “concezione della vita basata su profondi convincimenti religiosi, morali o filosofici”. Può dirsi, senza tema di errore, che l’obiezione di coscienza rappresenta il riconoscimento del foro interno da parte dello Stato laico. Ed è noto che da sempre l’ordinamento della Chiesa cattolica riconosce le ragioni del “foro interno”; anzi è interessante notare come la più recente morale cattolica dia sempre maggiore rilievo alle ragioni di coscienza dei fedeli. Con riferimento, ad esempio, alla posizione nell’ambito della Chiesa, intesa anche come istituzione di chi, dopo aver contratto matrimonio religioso ed aver ottenuto sentenza di cessazione degli effetti civili, sia passato a nuove nozze (celebrate col solo rito civile), l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, riunita a Roma, nell’Autunno del 1980, ha ritenuto che “si può evitare lo scandalo”, concedere l’autorizzazione di ricevere la comunione, venendo incontro ad un motivato giudizio di coscienza a coloro che, pur non potendone fornire la prova giudiziaria, “sono giunti alla motivata convinzione di coscienza circa la nullità del loro primo matrimonio”. Il rapporto tra fede e diritto-giustizia come superamento di se stesso attraverso la carità. Il tema – rivela Livatino – ci porta quindi a dare pieno torto all’impressione iniziale. Diritto e fede o, se vogliamo, giustizia (intesa come “frutto” ultimo del diritto) e fede sono in continuo rapporto fra loro. Per concludere, non possiamo, come cattolici, non porci il problema della finalità di questo rapporto. I non-cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità. Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano. Basta pensare per tutte alla parabola della vigna che, fra gli altri significati, consente di evidenziarne uno modernissimo: il datore di lavoro, una volta assolto l’obbligo di giustizia di pagare ad ogni dipendente quanto gli spetta (oggi diremmo: in osservanza dei contratti collettivi), è ben libero di dare di più (e fino a questo punto arrivano anche i non cristiani), ma ha per giunta il dovere di farlo ove la valutazione della persona del dipendente, delle circostanze nelle quali egli ha lavorato, del prodotto del lavoro, delle proprie condizioni personali in rapporto al ricavo e via dicendo, stimolino la sua sensibilità e la sua coscienza verso questo ulteriore momento che, solo assai riduttivamente, potremo chiamare di giustizia sociale o di solidarietà umana. Su questo piano, per il cristiano, qualunque rapporto si risolve ed alla fine giustizia e carità combaciano, non soltanto nelle sfere ma anche nell’impulso virtuale e perfino nelle idealità. Come ha detto Piero Pajardi, presidente del Tribunale di Milano, “il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico”. Queste dotte conferenze si possono considerare il testamento spirituale del giudice Livatino. I temi da lui affrontati erano e rimangono di grande attualità nel dibattito in corso sui problemi della giustizia e sulle soluzioni che vengono proposte per eliminarne i difetti. L’analisi mette in luce la profonda competenza e ne evidenzia la coscienza di magistrato, lealmente e totalmente dedito alla sua missione. Questi documenti di Rosario Livatino valgono più di un trattato di Giurisprudenza. “Le sue parole meritano di essere meditate. Tanti bei precetti egli li poteva apertamente sostenere, perché – per usar le stesse parole che scrive il Manzoni a proposito del cardinale Federico Borromeo – “quelle cose erano dette da uno che poi le faceva”. E se quel che sostiene il giovane-grande giudice venisse realizzato, si risolverebbero tanti problemi e si eliminerebbero tanti mali della giustizia (Diego Lodato, Alta lezione di civiltà giuridica di Rosario Livatino, in Canicattì nuova, a. XXVIII n. 14-15, Canicattì, 16-30 Settembre 2001). Rosario Livatino è forse la più bella figura cristiana tra le vittime della mafia siciliana: alla messa domenicale andava con i genitori. Lo stesso parroco della chiesa di San Giuseppe ignorava chi fosse “quel giovane profondamente raccolto” che vedeva da anni. Pochi in città sapevano che era un giudice di prima linea e quasi nessuno che era un cristiano militante.
Più puntuale su Livatino come figura cristiana è la testimonianza del parroco Pietro Li Calzi. Decisiva è la documentazione che viene dagli appunti lasciati nelle agende. Splendida è l’attestazione delle due conferenze inedite e stampate dopo la morte. Il parroco lo descrive come “fulgido esempio di cristiano maturo” e racconta della sua frequenza anonima alla catechesi, lungo il 1988, per ricevere la cresima che non aveva avuto da ragazzo. Nelle agende dal 1984 al 1986 appaiono accenni drammatici a una crisi di coscienza, dovuta a minacce e condizionamenti: “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni” (19 Giugno 1984); “Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?” (31 Dicembre 1984). Fino a una soluzione di fede e di accettazione della prospettiva del martirio: “Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori” (27 Maggio 1986). Livatino muore per la libera decisione di portare avanti un’inchiesta di mafia sottraendosi a ogni condizionamento dall’ambiente mafioso in cui era costretto a muoversi e che radicalmente rifiuta.
Rosario Livatino sarà venerato come santo martire e dottore della Chiesa? È l’ultimo giorno della sua esistenza. E nella mente scorre tutta la sua vita, attraverso i volti e le voci di quanti lo hanno amato e conosciuto. A parte il clamore seguito all’assassinio, la giovane età del magistrato, la crudeltà della mafia e tutte le altre notizie che potevano generare la cosiddetta “audience”, il mondo della comunicazione lasciò ben presto la figura di Livatino agli storici della mafia. Scavando nell’esistenza di Rosario Livatino si scopre che la sua era una vita normale, il suo eroismo non aveva tratti che coincidevano con le categorie contemporanee dello spettacolo. E tuttavia attraverso quelle poche notizie date dai telegiornali e qualche anno dopo dal film “Il giudice ragazzino” di Alessandro Di Robilant (1993) tratto dall’omonimo libro di Nando Dalla Chiesa, trapela qualcosa di speciale. Un non detto da cui pulsavano, inspiegabilmente, lampi di una grandezza dell’anima non immediatamente decifrabile. Niente protagonismo né impegno politico. Solo indipendenza e terzietà assolute. Niente conformismo giudiziario che indebolisce l’autonomia di giudizio. Forte tensione etica. È il dott. Rosario Livatino. La sua Lezione scuote le coscienze.
© Nicola Facciolini
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