Quando sono arrivata a Parigi con la rabbia che la Francia fosse migliore dell’Italia la prima cosa che trovavo ridicola erano i codici. Ogni portone si apre solo digitando un codice di quattro o cinque cifre che viene periodicamente cambiato, e generalmente dopo quel portone ce n’è un altro, protetto anche quello dal suo codice, e se tu vuoi aprire a un amico giù in strada non puoi farlo, non c’è il comando, gli devi dire il codice per forza. “E’ più sicuro” rispondevano, e io pensavo a mia madre che mi diceva che quando era piccola lei, in paese, tutti lasciavano la porta aperta e la gente entrava e usciva come gli pareva e piaceva. Perché tutti erano poveri e il bisogno di sicurezza è venuto dopo, con il benessere, e il bisogno di sicurezza è direttamente proporzionale alla ricchezza che ti metti in testa di dover proteggere. Poi son passati i giorni, le settimane, e questa faccenda del codice mi ha solo costretto a girare sempre col cellulare carico, nel caso in cui, e fino a domenica scorsa non ci ho pensato più.
E’ passata una settimana dagli attentati di Parigi. Il sabato è stato un giorno plumbeo in cui la città ha rinculato nelle case, paralizzata come dopo un calcio nello stomaco, annullando gli impegni, le cene, rimandando a casa le bancarelle già allestite per il weekend. Ma domenica, domenica la città si è svegliata con una giornata dai colori impossibili e affacciandosi alla finestra avevi l’impressione che tutto fosse stato un brutto sogno.Tutto era come sempre: brasserie piene, gente che passeggia con la baguette in mano, con le buste della spesa, c’è il sole, non fa freddo. Con gli amici si cammina insieme nell’aria dolce e senza neanche accorgercene, come falene attratte dalla luce, risalendo dalla Rive Gauche verso il centro, lungo quella diagonale fra rue de Charonne e République, ci si ritrova al tratto di Boulevard Voltaire del Bataclan, dove l’illusione si scontra con le transenne e il presidio, le candele, i fiori. “Volevano annientarci ma non hanno fatto altro che unirci”, “Meme pas peur”, “Paris je t’aime”, in tutte le lingue. In piedi nel silenzio funebre inghiottiamo una lacrima per Valeria e tutti gli altri e ci giriamo.
Les enfants de la Patrie sono tutti al bar.
E’ superficiale, occidentale, stupido. Ma è questo il rito di socialità di una città fredda, con case troppo piccole e tutti quei codici a proteggere i portoni. Per non sentirsi soli, per guardarsi negli occhi, per concedersi una tregua. Ci sediamo anche noi ai tavolini troppo stretti di una brasserie, gomito a gomito con gli altri, per sedare con una birra la vergognosa vertigine di averla scampata, perché se tutto questo succedeva una settimana prima al Petit Cambodge c’eravamo noi e niente birra, niente aria dolce. Niente paura.
Finché una ragazza non entra in terrasse. Correndo. Finché una ragazza non entra in terrasse correndo e dicendo concitata che ci sono spari a République, “Entrez!” e un’onda di gente si rovescia tutta verso l’entrata del locale, in un silenzio sconcertato di terrore solido, glaciale. Boccali cadono a terra, fra fiumi di birra e vetri infranti si sdraiano senza un fiato quaranta, cinquanta persone. Nessuno questiona, obietta, esita. Le teste al riparo ma un occhio all’esterno, tavolini afferrati e tirati su di sé come coperte per ripararsi in attesa che passi qualcosa che non si sa cos’è, in attesa del colpo di fucile. Non succede niente. Mi alzo. Tutti si alzano. I vestiti bagnati, scomposti, gli sguardi persi nel vuoto e un silenzio diffidente, la gente mette il naso fuori dal locale ed è paura. Fa impressione l’atmosfera di stallo e quel passaparola, qu’est-cequ’ilsepasse, che innesca la fuga del branco che fiuta il predatore. Si comincia a correre tutti, di colpo, per le vie strette fra i boulevards principali e d’improvviso intuisco senza avere il tempo di pensarci cosa ci sia di stupido nei codici dei portoni. Siamo come i tori di Pamplona o i tonni bloccati da un percorso obbligato verso la mattanza, se nessuno apre siamo fottuti perché il tempo di fermarsi e scrivere 9587A, ammesso che tu capisca bene i numeri che ti gridano dalle finestre, non ce l’hai. Siamo prigionieri all’esterno, perché ci hanno convinti che era più sicuro così. Poi abbiamo guadagnato un portone di casa, siamo entrati e da allora qualcuno di noi non ha ancora smesso di tremare perché anche se l’allarme era falso, la paura no.
C’era un’altra cosa che mi stupiva, da italiana, di Parigi. Quando piove da noi se ci troviamo in mezzo alla strada scappiamo sotto una tettoia, uno spigolo, un tendone e aspettiamo che spiova. Qui piove spesso, in momenti imprevedibili, e la gente ha sempre l’ombrello in borsa pure quando c’è il sole. La gente tira fuori l’ombrello, lo apre, e continua la sua vita. Dopo una settimana i parigini si sono abituati alle pattuglie della gendarmerie che fanno la ronde coi mitra anche nei quartieri tranquilli, alle perquisizioni per entrare nei luoghi pubblici, continua ad affollare i ristoranti e le brasserie. Tira fuori l’ombrello e continua implacabilmente a celebrare il mito di Parigi, il rito dell’aperò. “Paris debout”, “Parigi è in piedi”, è la parola d’ordine.
Ma oltre ai cittadini ci sono i governi, che hanno tutt’altra reazione, dai bombardamenti su Daech ad alleanze tanto prevedibili quanto discutibili, e non ho analisi geopolitiche valide nemmeno per il mio arrondissement. Penso solo, per non pensare a cose peggiori, all’inutilità dei codici che difendono i beni dentro casa ma mettono a rischio la gente quando il concetto di “sicurezza” muta, quando le circostanze sconvolgono il paradigma. E mi chiedo se abbiamo davvero già esaurito lo spettro delle possibilità, se non ci sia modo di uscire dallo schema, se non ci sia davvero un modo migliore a cui ancora non abbiamo pensato, per risolvere tutti i nostri problemi.
Daniela Mitta-Dire
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