“I piccoli segnali scoperti da Harps non potrebbero mai essere distinti dal semplice rumore con la maggior parte degli spettrografi attualmente disponibili”(Michel Mayor). La protagonista assoluta dei cieli è la C/2013US10 Catalina, meno brillante di quanto sperato e comunque una bellissima cometa al limite della visibilità. Ormai lontana dal perielio, si avvicina alla Terra. La minima distanza dal nostro pianeta è calcolata per il 17 Gennaio 2016, quando passerà a 108 milioni di Km, due gradi abbondanti da M101. La cometa Catalina si alza decisamente nel cielo boreale e se finora è stata seguita solo da appassionati del buon mattino, d’ora in avanti la platea di ammiratori crescerà. La sua corsa di Gennaio è iniziata sfiorando Arturo, la stella più luminosa dell’emisfero boreale, il primo giorno dell’anno nuovo AD 2016, a meno di un grado dalla gigante rossa. Poi la Catalina sarà circumpolare. Circa 70 gradi più in su, alla fine di Gennaio la osserveremo vicina alla Polare. La migliore altezza sarà sempre raggiunta al termine della notte astronomica. Il 25 Gennaio all’alba la cometa conquista la galassia NGC4529. Cosa ci riserva l’Anno Domini 2016? Non solo la vittoria della Santa Russia contro tutti i signori della guerra (warlords), in nome dell’Altissimo. Nel segno di Gravity, la prima sonda terrestre per Buchi Neri. Nulla a che spartire con l’antiscientifica pellicola cinematografica americana del 2013. Ottenere immagini ingrandite di Stelle Nere è la missione principale per lo strumento Gravity, appena installato sul Very Large Telescope dell’Eso. Durante le prime osservazioni, il sensore Gravity ha combinato con successo la luce di tutti e quattro i Telescopi Ausiliari del Paranal. L’equipe di astronomi e ingegneri europei, con a capo l’Istituto Max Planck per la Fisica Extraterrestre di Garching, che ha progettato e costruito Gravity, è elettrizzata dalla sua resa quantica. Durante le verifiche preliminari, lo strumento ha già raggiunto una serie di primati importanti. È il più potente organo sensitivo finora installato sull’Interferometro del VLT. Gravity combina la luce dei Telescopi del Paranal per formare un Osservatorio virtuale di circa 200 metri di diametro, usando una tecnica nota come Interferometria. Ciò consente agli astronomi di rivelare dettagli degli oggetti astronomici molto più minuti di quanto non sia possibile con un singolo telescopio. Dall’Estate 2015, il team internazionale di astronomi e ingegneri, con la guida di Frank Eisenhauer, ha lavorato per installare Gravity in una galleria adattata appositamente sotto al Very Large Telescope. I tunnel del VLTI e la sala in cui si combina il fascio fotonico sono state sottoposte recentemente a pesanti lavori di ristrutturazione per accogliere Gravity e poter ospitare altri strumenti futuri. È la prima fase del percorso di verifica di Gravity nel Very Large Telescope Interferometer. Una pietra miliare cruciale è stata raggiunta in questa “prime frange”, ossia la prima riuscita combinazione di fotoni dai vari telescopi in modo che i raggi interferiscano per formare le frange di interferenza registrate. “Durante la prima luce e per la prima volta nella storia dell’interferometria ottica a larga base – rivela Frank Eisenhauer – Gravity ha potuto effettuare esposizioni di parecchi minuti, almeno un centinaio di volte più lunghe di quanto fosse finora possibile. Gravity permetterà di osservare con un interferometro oggetti molto più deboli e spingerà la sensibilità e l’accuratezza della risoluzione angolare in Astronomia a nuovi limiti, molto al di là di quanto sia possibile oggi”. Durante la prima osservazione il team ha studiato attentamente le stelle giovani e brillanti che formano l’ammasso del Trapezio, nel cuore della zona di formazione stellare di Orione. Già da questi primi dati di test, Gravity ha fatto una piccola scoperta: una delle componenti dell’ammasso è una stella doppia, Theta1 Orionis F. Le osservazioni sono state effettuate utilizzando la stella vicina più brillante Theta1 Orionis C come riferimento. Ma è solo l’inizio! La chiave di questo successo è la stabilizzazione del Telescopio Virtuale per un tempo sufficientemente lungo, usando la luce di una stella di riferimento, in modo da poter realizzare un’esposizione profonda di un secondo oggetto, molto più debole. Gli astronomi dell’Eso sono anche riusciti a stabilizzare i fotoni dei quattro Telescopi Ausiliari del Paranal simultaneamente, un’impresa mai riuscita prima. Gravity può misurare la posizione degli oggetti astronomici su scale minutissime e può anche realizzare immagini e spettri per mezzo dell’interferometria. Il sensore mira a verificare le posizioni degli oggetti su scale dell’ordine di dieci microsecondi d’arco ed eseguire l’imaging con risoluzione di quattro millisecondi d’arco. Se vi fossero degli edifici alieni sulla Luna, Gravity sarebbe in grado di osservarli direttamente dal Cile. Questa capacità risolutiva così elevata ha molte diverse applicazioni, ma l’obiettivo principale delle future osservazioni sarà di studiare l’ambiente che circonda i Buchi Neri, probabile sede di impianti energetici extraterrestri. In particolare, Gravity esplorerà cosa accade nel campo gravitazionale estremo vicino all’Orizzonte degli Eventi del Buco Nero supermassiccio al centro della Via Lattea, di 4 milioni di masse solari, il motore della nostra Galassia. Il che spiega la scelta del nome dello strumento, nulla a che vedere con il film di Alfonso Cuaròn. Una zona esplorata dall’equipaggio della nave Enterprise in Star Trek e nella pellicola Interstellar, dove i movimenti nello spaziotempo, quasi raffigurabili gustando il classico dolce italiano “Diplomatico” a sfoglie, sono dominati sia dalla Relatività Generale di Einstein sia dalla Fisica Quantistica. Il sensore Gravity dell’Eso scoprirà i dettagli dell’accrescimento di massa e dei getti, processi che si verificano sia intorno alle stelle neonate sia nelle regioni che circondano i Buchi Neri supermassicci al centro di altre galassie. Gravity potrà anche studiare in dettaglio il moto delle stelle binarie, gli esopianeti e i dischi stellari giovani, oltre a rendere finalmente in immagini reali la superficie delle altre stelle. Finora il sensore è stato testato con i quattro Telescopi Ausiliari da 1,8 metri di diametro sul Paranal. Le prime osservazioni che useranno Gravity con i quattro strumenti principali da 8,2 metri del VLT, sono previste per la fine del 2016. Il Consorzio Gravity è guidato dall’Istituto Max Planck per la Fisica Extraterrestre di Garching in Germania. Gli altri Istituti partner sono: LESIA, Observatoire de Paris, PSL Research University, CNRS, Sorbonne Universités, UPMC Univ. Paris 06, Univ. Paris Diderot, Sorbonne Paris Cité, Meudon, Francia; Max Planck Institute for Astronomy, Heidelberg, Germania; Physikalisches Institut, University of Cologne, Cologne, Germania; IPAG, Université Grenoble Alpes/CNRS, Grenoble, Francia; Centro Multidisciplinar de Astrofísica, CENTRA (SIM), Lisbon and Oporto, Portogallo; Eso, Garching, Germania. Secondo Nature e Science il 2016 sarà l’anno della Materia Oscura, delle onde gravitazionali, dell’esplorazione di Marte e Giove, dopo l’insediamento del direttore Fabiola Gianotti al Cern di Ginevra. Le particelle sfuggenti di Materia Oscura, la materia-energia invisibile e misteriosa che occupa circa il 24% dell’Universo, potrebbero essere generate dalle nuove potenti collisioni del Large Hadron Collider. A caccia di Materia Oscura ci sono anche il rivelatore Alpha Magnetic Spectrometer, in funzione sulla Stazione Spaziale Internazionale, e la sonda cinese Dark Matter Particle Explorer. La Fisica è sempre ai primi posti nelle attese da Nobel per il 2016. Sia Nature sia Science indicano la possibilità di poter osservare le onde gravitazionali, ossia le vibrazioni dello spaziotempo provocate da eventi drammatici, come l’esplosione di Supernovae, collisioni di stelle di neutroni e buchi neri, e Big Bang, come previsto da Einstein. Sì, altre Creazioni! L’Europa dello spazio aspetta la Primavera con il lancio della missione ExoMars insieme alla Russia, destinata nel 2016 a dimostrare la sua capacità di far atterrare un rover sul Pianeta Rosso e, nel 2018, a perforare il suolo marziano fino alla profondità di due metri. Sempre in tema di spazio, molto ci si attende dalla missione Juno (www.nasa.gov/mission_pages/juno/main/index.html) della Nasa. Lanciata nel 2011, il suo arrivo nel sistema di Giove è previsto per il 4 Luglio del 2016. Tra alcuni mesi inizierà la costruzione del più grande Telescopio al mondo, l’E-ELT di 39 metri di diametro, naturalmente nella banda ottica e infrarossa con “vista” italiana made in Eso. Concluse le opere di urbanizzazione, inizia la fase realizzativa del Telescopio vero e proprio che dovrebbe aprire il suo grande occhio nel 2024 per la prima luce. Al via anche la costruzione del Cherenkov Array Telescope. L’osservatorio sarà costituito da una batteria di telescopi destinati a studiare le sorgenti celesti di radiazione gamma e, una volta realizzato, sarà il più potente e sensibile di sempre. Il CTA sarà composto da 100 telescopi nell’emisfero Sud e da 20 telescopi nell’emisfero Nord. L’European Southern Observatory è la principale organizzazione intergovernativa di Astronomia in Europa e l’Osservatorio astronomico più produttivo al mondo. L’Eso offre agli astronomi strutture di ricerca d’avanguardia. La missione principale dell’Eso, come recita la Convenzione del 1962, è di fornire strutture di ricerca ad astronomi e astrofisici, permettendo loro di svolgere Scienza di primo piano nelle migliori condizioni. Il contributo finanziario degli attuali 16 Stati partecipanti è di circa 131 milioni di euro all’anno. L’Eso si avvale di circa 730 dipendenti. Con la costruzione e la gestione di una serie di telescopi astronomici terrestri tra i più potenti al mondo, che consentono importanti scoperte scientifiche, l’Eso offre numerose possibilità di applicazioni e trasferimenti tecnologici, oltre che opportunità di stipulare contratti per realizzare strumenti di alta tecnologia. È una sensazionale vetrina per l’industria europea. I quartieri generali, che comprendono il centro scientifico, tecnico e amministativo dell’organizzazione, si trovano a Garching, vicino Monaco di Baviera, in Germania. L’Eso gestisce in Cile, oltre al Centro di Santiago, tre siti per osservazioni astronomiche unici al mondo: La Silla, Paranal e Chajnantor. L’Eso dimostra quanto possibili siano gli Stati Uniti di Europa politici insieme alla Russia, visto il livello di cooperazione internazionale, praticamente unico insieme al Cern, finora raggiunto all’interno dell’Eso dove ogni cosa viene realizzata da chi la sa fare meglio, indipendentemente dal Paese o dall’istituzione di provenienza. Questo spirito di eccellenza è un esempio per tutta l’Europa unita in Pace tra Pari. Entusiasti sono il Direttore Generale dell’Eso, Tim de Zeeuw, e il Responsabile di Progetto dell’European Extremely Large Telescope, Roberto Tamai. “L’Italia è uno Stato Membro dell’Eso da 34 anni – osserva Tim de Zeeuw – e l’industria italiana ha dato enormi contributi all’organizzazione: le coperture del VLT sono state costruite in Italia. La comunità astronomica italiana, molto attiva, è anche in prima linea nello sfruttamento delle strutture osservative dell’Eso per svolgere ricerche scientifiche di eccellenza e all’avanguardia”. Il VLT Survey Telescope è stato progettato e costruito in Italia. Ingegneri e astronomi italiani sono coinvolti nella progettazione e costruzione dell’E-ELT. Anche il Responsabile di Progetto, Roberto Tamai, è italiano. L’E-ELT sorgerà sul Cerro Armazones, a soli 20 Km dal Paranal che è l’Osservatorio Eso più famoso, a 130 chilometri a Sud di Antofagasta, nel cuore del Deserto cileno di Atacama. A un’altezza di 2635 metri sul livello del mare, il Paranal è uno dei migliori luoghi sulla Terra per condurre osservazioni scientifiche dell’Universo. Con i quattro UT (Unit Telescope) da 8,2 metri di diametro e i quattro Telescopi Ausiliari (AT) del Very Large Telescope, lo strumento ottico più avanzato al mondo, dedicato alla ricerca astronomica, e con i telescopi per “survey” VISTA e VST, il Paranal è l’Osservatorio astronomico da terra più produttivo al mondo. L’Eso è oggi sostenuto da 16 Paesi: Austria, Belgio, Brasile, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia e Svizzera, oltre al Paese che ospita l’Eso, il Cile. Molti altri Stati, come la Russia, hanno espresso interesse a diventarne membri, contribuendo al potenziamento delle strutture scientifiche e tecnologiche civili. L’Eso ha un ruolo di punta nel promuovere e organizzare la cooperazione nella ricerca astronomica. Alcuni astronomi, grazie all’Atacama Large Millimiter/submillimiter Array (Alma) hanno trovato l’indicazione finora più chiara che pianeti di massa molto maggiore di quella di Giove si siano formati recentemente nei dischi di gas e polvere che circondano quattro stelle giovani. Le misure del gas intorno agli astri hanno fornito indizi aggiuntivi sulle proprietà di questi esomondi. Si trovano praticamente pianeti alieni intorno a quasi tutte le stelle dell’Universo, ma gli astronomi ancora non capiscono come e in quali condizioni essi si formino. Ecco perchè studiano i dischi di gas e polvere in rotazione intorno alle stelle giovani, ossia le polveri da cui si formano i pianeti. Essi però sono piccoli e lontani dalla Terra. Serve tutta la potenza delle 66 antenne di Alma per rivelare i loro segreti. Una classe particolare di dischi, detti di transizione, mostra una sorprendente assenza di polvere nel centro, nella regione più vicina all’astro. Sono state proposte due motivazioni per spiegare queste misteriose lacune. La prima è che i forti venti stellari e le intense radiazioni avrebbero spazzato via o distrutto il materiale nei dintorni. Questo processo, che spazza via polvere e gas dall’interno verso l’esterno, è noto come fotoevaporazione. Alcuni giovani pianeti massicci, in ultima analisi, durante il processo di formazione potrebbero aver eliminato la materia nella loro orbita intorno alla stella. Pianeti di questo tipo sono molto difficili da osservare direttamente e studi precedenti a lunghezze d’onda millimetriche non sono riusciti ad avere una buona visione sulle zone interne, dove si formano i pianeti, in cui le diverse spiegazioni potevano essere messe alla prova. Altri studi non sono riusciti a misurare la quantità di gas in questi dischi. La sensibilità e la capacità risolutiva senza paragoni e precedenti di Alma, hanno permesso ora a un’equipe di astronomi, guidata da Nienke van der Marel dell’Osservatorio di Leiden nei Paesi Bassi, di mappare la distribuzione del gas e della polvere in quattro di questi dischi di transizione, meglio di quanto sia stato finora possibile. Le quattro sorgenti osservate sono SR 21, HD 135344B nota anche come SAO206462, DoAr 44 e Oph IRS 48. A sua volta ciò ha permesso per la prima volta di scegliere tra le due possibilità di spiegazione delle lacune. Le nuove immagini mostrano notevoli quantità di gas all’interno di queste lacune nella polvere. Il gas presente nei dischi di transizione è soprattutto Idrogeno che viene tracciato per mezzo di osservazioni della molecola di monossido di Carbonio (CO). Sorprendentemente, però, anche il gas mostra una lacuna, fino a tre volte più piccola di quella della polvere. Evento possibile solo nello scenario in cui pianeti massicci appena formati abbiano spazzato via il gas durante la loro orbita, intrappolando le particelle di polvere fino a una distanza maggiore. L’equipe è composta da N. van der Marel (Leiden University, Leiden, Paesi Bassi; Institute for Astronomy, University of Hawaii, Honolulu, USA), E.F. van Dishoeck (Leiden University, Leiden, Paesi Bassi; Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Garching, Germania), S. Bruderer (Max-Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Garching, Germania), S.M. Andrews (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, Massachusetts, USA), K.M. Pontoppidan (Space Telescope Science Institute, Baltimore, Maryland, USA), G.J. Herczeg (Peking University, Beijing, Cina), T. van Kempen (Leiden University, Leiden, Paesi Bassi) e A. Miotello (Leiden University, Leiden, Paesi Bassi). “Osservazioni precedenti avevano già dato un indizio della presenza di gas all’interno delle lacune di polvere – rivela Nienke van der Marel nell’articolo “Resolved gas cavities in transitional disks inferred from CO isotopologs with ALMA”, di N. van der Marel et al., pubblicato dalla rivista Astronomy & Astrophysics – ma poichè Alma riesce a produrre una immagine del materiale all’interno del disco, nel dettaglio più fine di quanto fosse possibile finora, possiamo scartare lo scenario alternativo. Questi divari profondi indicano chiaramente la presenza di pianeti, di massa parecchie volte quella di Giove, che scavano gli anfratti mentre si muovono all’interno del disco”. È importante sottolineare che queste osservazioni sono state condotte usando solo un decimo del potere risolutivo di Alma, poichè sono state eseguite mentre metà della schiera di antenne era ancora in costruzione sulla piana di Chajnantor nel nord del Cile. Servono ora nuovi studi per determinare se anche altri dischi di transizione puntano verso lo scenario dei pianeti, anche se le osservazioni di Alma hanno fornito, nel frattempo, nuove preziose informazioni sul complesso processo di formazione dei pianeti. “Tutti i dischi di transizione finora studiati che mostrano grandi cavità nella polvere hanno anche cavità nel gas. Con Alma possiamo scoprire dove e quando nascono i pianeti giganti in questi dischi e confrontare i risultati con i modelli di formazione planetaria – osserva Ewine van Dishoeck dell’Osservatorio di Leiden e del Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics di Garching – la detezione diretta di un pianeta è appena alla portata degli strumenti attuali, mentre la nuova generazione di telescopi in costruzione, come l’E-ELT, sarà in grado di spingersi molto più in là. Alma sta indicandoci dove andare a guardare”. Altri esempi comprendono i dischi di transizione di HD 142527 e J1604-2130. Chiazze scure cancellano quasi completamente le stelle da un pezzetto di cielo in un’immagine catturata dalla camera Wide Field Imager installata sul telescopio da 2,2 metri dell’MPG/ESO all’Osservatorio Eso di La Silla in Cile. Le zone nere come l’inchiostro fanno parte di un’enorme nebulosa oscura nota come il Sacco di Carbone, uno degli oggetti di questo tipo più facilmente visibili a occhio nudo. Tra milioni di anni, alcuni brandelli della nebulosa si accenderanno, non proprio come l’omonimo combustibile fossile inquinante bandito per sempre (entro il 2050) dalla faccia della Terra alla conferenza sul clima di Parigi (Cop21) nel Dicembre 2015, grazie al bagliore di molte giovani stelle. Immagini stupende come quelle pubblicate dall’Eso sul Calendario 2016 e sul volume “Treasures of the Southern Sky” di Robert Gendler, Lars Lindberg Christensen e David Malin (Springer). La nebulosa Sacco di Carbone si trova a circa 600 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Croce del Sud. Questo enorme oggetto cupo si staglia chiaramente contro la fascia stellata della Via Lattea e per questo motivo la nebulosa è ben nota agli abitanti dell’emisfero meridionale fin dai primordi dell’Umanità. L’esploratore spagnolo Vicente Yáñez Pinzón riportò per primo in Europa nell’Anno Domini 1499 la notizia dell’esistenza della nebulosa Sacco di Carbone, che successivamente prese il soprannome di Nebulosa Oscura di Magellano. Un evidente gioco di parole sul suo aspetto scuro rispetto alle due Nubi di Magellano che sono in realtà piccole galassie satelliti della Via Lattea. Le due galassie luminose sono chiaramente visibili nel cielo australe e furono rese note agli europei durante l’esplorazione di Ferdinando Magellano nel XVI Secolo. La Sacco di Carbone però non è una galassia. Come le altre nebulose oscure è una nube di polvere interstellare così fitta da impedire alla maggior parte della luce stellare di fondo di raggiungerci. Molte delle particelle di polvere delle nebulose oscure sono ricoperte da strati ghiacciati di Acqua, Azoto, monossido di Carbonio e altre semplici molecole organiche. I grani che ne risultano impediscono alla luce di attraversare la nube cosmica. Per capire quanto sia veramente scura la Sacco di Carbone, l’astronomo finlandese Kalevi Mattila pubblicò, intorno al 1970, uno stima della sua luminosità: appena il 10 percento della zona di Via Lattea che la circonda. Un po’ di luce del fondo riesce comunque a passare attraverso la nebulosa, come si osserva nella recente immagine Eso e in altre osservazioni effettuate con i moderni telescopi. La poca luce che riesce a passare non arriva inalterata. I fotoni che vediamo nell’immagine appaiono più rossi di quanto sarebbero normalmente. Ciò accade perchè la polvere nelle nebulose oscure assorbe e diffonde la luce blu delle stelle più di quanto faccia con la loro luce rossa, colorando di tinte chermisi le stelle. Tra milioni di anni i giorni oscuri della nebulosa Sacco di Carbone finiranno. Le nebulose interstellari dense come la Sacco di Carbone, luogo ideale di “confino” per tutti i politicanti guerrafondai della Terra responsabili di crimini terroristici di guerra contro l’Umanità (6,5 milioni di morti dal 1990; compresi i 700 bambini profughi dalla Siria, come Aylan, affogati nell’Egeo nel 2015), contengono molta polvere e gas, il carburante per nuove stelle e civiltà. Quando i vari pezzi di materiale disperso nella nebulosa Sacco di Carbone si saranno uniti a causa della reciproca attrazione gravitazionale, le stelle si accenderanno e i pezzetti di carbone della nebulosa bruceranno, come se fossero sfiorati dalla fiamma della Giustizia celeste! Un’altra equipe internazionale di astronomi, grazie al Very Large Telescope, ha scoperto la stella doppia più calda e più massiccia in cui le due componenti sono così vicine da toccarsi letteralmente. I due astri formano il sistema estremo VFTS352. Sono destinati con buona probabilità a una fine drammatica, durante la quale le due stelle possono fondersi per creare un’unica stella gigante oppure formare un buco nero binario. Il sistema stellare doppio VFTS352 si trova a circa 160mila anni luce dalla Terra, nella Nebulosa Tarantola. Il nome indica che è stata osservato durante la “VLT FLAMES Tarantula Survey” che sfrutta gli strumenti FLAMES e GIRAFFE installati sul VLT per studiare più di 900 stelle nella regione 30 Doradus della Grande Nube di Magellano (LMC). La survey ha già prodotto molti risultati importanti e entusiasmanti tra cui la stella con il periodo di rotazione più corto e una molto massiccia in fuga solitaria. Sta anche contribuendo a trovare le risposte a molte delle domande fondamentali su come le stelle massicce sono influenzate dalla rotazione, dall’essere in un sistema binario e dalla dinamica degli ammassi stellari densi. Questa regione eccezionale è l’incubatrice stellare più attiva nell’Universo locale e nuove osservazioni del VLT hanno rivelato che questa coppia di giovani stelle è tra le più strane ed estreme di sempre. Lo studio ha usato anche le misure di magnitudine di VFTS352 effettuate per un periodo di dodici anni nell’ambito della survey OGLE. La VFTS352 è formata da due stelle molto calde, brillanti e massicce che ruotano l’una intorno all’altra in poco più di un giorno. I centri gravitazionali delle stelle sono separati da appena 12 milioni di chilometri. Entrambe le componenti sono classificate come stelle di tipo O, tipicamente tra 15 e 80 volte più massicce del Sole e fino a un milione di volte più luminose. Sono così calde che emettono una brillante luce bianco-azzurra e hanno temperature superficiali di oltre 30mila gradi Celsius. Le stelle sono così vicine che le loro superfici si sovrappongono formando un ponte tra loro. VFTS352 non è solo la più massiccia stella nota in questa piccola classe di “binarie a contatto”, con una massa totale di circa 57 volte quella del Sole, ma contiene anche le componenti più calde, con una temperatura superficiale maggiore di 40mila gradi. Stelle estreme come le due componenti di VFTS352 giocano un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie e si pensa che siano i maggiori produttori di elementi come l’Ossigeno. Queste stelle doppie sono anche legate a comportamenti esotici come quello mostrati dalle “stelle vampiro”, in cui una compagna più piccola succhia materia dalla superficie del vicino più grande. Nel caso di VFTS352, in realtà, le due stelle del sistema sono quasi identiche. La materia perciò non viene trasferita dall’una all’altro astro, ma viene condivisa. Sono astri in comunione cosmica! Le regioni intorno alle stelle sono note come “lobi di Roche”. In una binaria a contatto come VFTS352 entrambe le stelle riempiono il proprio lobo di Roche. Si stima che le stelle che compongono VFTS352 condividano circa il 30 percento della loro materia. Sistemi di questo tipo sono molto rari, perchè questa fase nella vita delle stelle è breve, e ciò rende difficile coglierle in flagrante comunione. Poichè le stelle sono così vicine, gli astronomi pensano che le forze mareali intense portino a un mescolamento maggiore della materia nell’interno astrale. “Il caso di VFTS352 è il migliore finora trovato di una binaria calda e massiccia che mostri questo mescolamento interno – spiega Leonardo A. Almeida dell’Università di São Paulo in Brasile, primo autore dello studio presentato nell’articolo “Discovery of the massive overcontact binary VFTS 352: Evidence for enhanced internal mixing”, di L. Almeida et al., sull’Astrophysical Journal – questa è una scoperta affascinante e importante”. L’equipe è composta da L.A. Almeida (Johns Hopkins University, Baltimore, Maryland, USA; Instituto de Astronomia, Geofísica e Ciências Atmosféricas, Universidade de São Paulo, Brasile), H. Sana (STScI, Baltimore, Maryland, USA; KU Leuven, Belgio), S.E. de Mink (University of Amsterdam, Paesi Bassi), F. Tramper (University of Amsterdam, Paesi Bassi), I. Soszynski (Warsaw University Observatory, Polonia), N. Langer (Universität Bonn, Germania), R.H. Barba (Universidad de La Serena, Cile), M. Cantiello (University of California, Santa Barbara, USA), A. Damineli (Universidade de São Paulo, Brasile), A. de Koter (University of Amsterdam, Paesi Bassi; Universiteit Leuven, Belgio), M. Garcia (Centro de Astrobiologa (INTA-CSIC), Spagna), G. Gräfener (Armagh Observatory, Regno Unito), A. Herrero (Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna; Universidad de La Laguna, Spagna), I. Howarth (University College London, Regno Unito), J. Maíz Apellániz (Centro de Astrobiologa (INTA-CSIC), Spagna), C. Norman (Johns Hopkins University, USA), O.H. Ramírez-Agudelo (University of Amsterdam, Paesi Bassi) e J.S. Vink (Armagh Observatory, Regno Unito). Gli astronomi prevedono che VFTS352 finirà con un cataclisma seguendo uno tra due diversi destini. Il primo scenario prevede la fusione delle due stelle che produrrebbe una singola stella gigante in rapida rotazione, forse con un campo magnetico elevato. “Se continua a ruotare rapidamente potrebbe concludere la propria esistenza con una delle esplosioni più energetiche dell’Universo, note come Lampi di luce Gamma di lunga durata”, rivela Hugues Sana dell’Università di Leuven in Belgio, lo scienziato responsabile del progetto. I lampi di luce gamma (Gamma-ray Burst, GRB) sono emissioni di raggi gamma molto energetici osservati dai satelliti orbitanti. Ne esistono di due tipi: quelli di breve durata, più brevi di pochi secondi, e quelli di lunga durata, più di qualche secondo. I lampi di lunga durata sono più comuni e si pensa che indichino la morte di stelle massicce, magari associati a una classe di esplosioni di Supernovae molto energetiche. La seconda possibilità è totalmente diversa. “Se le stelle sono ben mescolate, rimangono entrambe compatte e il sistema VFTS352 potrebbe evitare la fusione – osserva l’astrofisica teorica Selma de Mink dell’Università di Amsterdam – questo porterebbe l’oggetto in un nuovo percorso evolutivo completamente diverso dalle previsioni classiche dell’evoluzione stellare. Nel caso di VFTS352, i componenti probabilmente finirebbero la propria vita con una esplosione di Supernova, formando un sistema binario stretto di buchi neri. Un oggetto così notevole sarebbe una sorgente molto intensa di onde gravitazionali”. Provare l’esistenza di questo secondo percorso evolutivo sarebbe un vero successo osservativo nel campo dell’astrofisica stellare per l’Eso. Ma, in qualsiasi modo VFTS352 incontri la propria fine, il sistema ha già fornito agli astronomi una nuova preziosa conoscenza dei processi evolutivi, ancora poco compresi, nei sistemi di binarie massicce a contatto. Previste dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein, le onde gravitazionali sono vere increspature nel tessuto flessibile dello spaziotempo. Onde gravitazionali sono prodotte ogni volta che si producono variazioni estreme di campi gravitazionali intensi in funzione del tempo, come durante la fusione di due buchi neri. Alcuni astronomi hanno scoperto una componente della Via Lattea prima sconosciuta, utilizzando il telescopio VISTA al Paranal: mappando le posizioni di alcune stelle variabili appartenenti alla classe nota come Cefeidi, si è trovato nel rigonfiamento centrale un disco di stelle giovani nascosto dietro a spesse nubi di polvere. La survey pubblica dell’Eso, chiamata “Vista Variables in the Vía Láctea Survey”, cattura immagini multiple, a tempi diversi, delle zone centrali della Galassia a lunghezze d’onda infrarosse, riuscendo a svelare un elevatissimo numero di nuovi oggetti celesti, tra cui alcune stelle variabili, ammassi stellari e stelle esplosive. La survey VVV osserva le zone centrali della nostra Galassia in cinque bande del vicino infrarosso. L’area totale della survey è di 520 gradi quadrati e contiene almeno 355 ammassi aperti e 33 ammassi globulari. La survey VVV è multi-epoca per natura, ideata per rivelare un gran numero di oggetti variabili e fornire più di 100 osservazioni adeguatamente spaziate nel tempo su ogni zona di cielo coperta. Si prevede un Catalogo di circa un miliardo di sorgenti puntiformi di cui un milione di oggetti variabili. Questi serviranno a costruire una Mappa tridimensionale del rigonfiamento centrale della Via Lattea. Le nubi di polvere nello spazio interstellare assorbono e diffondono la luce visibile in modo molto efficace e diventano opache. Ma a lunghezze d’onda maggiori, come quelle osservate da VISTA, le nubi sono molto più trasparenti e le regioni al di là della polvere diventano osservabili. L’equipe di astronomi, guidata da Istvan Dékány della Pontificia Universidad Católica de Chile, ha ora utilizzato i dati di questa survey, presi tra il 2010 e il 2014, per realizzare una scoperta eccezionale: una componente precedentemente sconosciuta della nostra Galassia ospite, la Via Lattea. “Si pensa che il rigonfiamento centrale della Via Lattea sia formato da un gran numero di stelle vecchie, ma i dati di VISTA hanno svelato qualcosa di nuovo e molto giovane per gli standard astronomici!”, conferma Istvan Dékány, primo autore del lavoro “The VVV Survey reveals classical Cepheids tracing a young and thin stellar disk across the Galaxy’s bulge”, di I. Dékány et al., pubblicato su Astrophysical Journal Letters. L’equipe è composta da I. Dékány (Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile; Pontificia Universidad Católica de Chile, Santiago, Cile), D. Minniti (Universidad Andres Bello, Santiago, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica MAS e Basal CATA, Santiago, Cile; e Vatican Observatory, Città del Vaticano), D. Majaess (Saint Mary’s University, Halifax, Nova Scotia, Canada; Mount Saint Vincent University, Halifax, Nova Scotia, Canada), M. Zoccali (Pontificia Universidad Católica de Chile, Santiago, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile), G. Hajdu (Pontificia Universidad Católica de Chile, Santiago, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile), J. Alonso-García (Universidad de Antofagasta, Antofagasta, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile), M. Catelan (Pontificia Universidad Católica de Chile, Santiago, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile), W. Gieren (Universidad de Concepción, Concepción, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile) e J. Borissova (Universidad de Valparaíso, Valparaíso, Cile; Instituto Milenio de Astrofísica, Santiago, Cile). Analizzando i dati della survey, gli astronomi hanno trovato 655 possibili stelle variabili Cefeidi che si espandono e si contraggono periodicamente, con periodi che vanno da pochi giorni ad alcuni mesi per l’intero ciclo, cambiando nel frattempo in modo significativo la propria luminosità. Il tempo impiegato da una Cefeide per diventare prima più brillante e poi più debole è maggiore per le Cefeidi più brillanti e minore per quelle più deboli. Questa relazione straordinariamente precisa, scoperta nel 1908 dall’astronoma americana Henrietta Swan Leavitt, rende lo studio delle Cefeidi uno dei metodi più efficienti per misurare la distanza di oggetti distanti, nella nostra Galassia e oltre, e tracciarne così una mappa corretta delle posizioni. Ma le Cefeidi non sono tutte uguali e si dividono in due classi principali, una molto più giovane dell’altra. Nel campione di 655 stelle, il team ne ha identificate 35 che appartengono al sottogruppo delle cosiddette Cefeidi classiche, stelle giovani e luminose, molto diverse dalle più comuni e più vecchie stelle che si trovano di solito nel rigonfiamento centrale della Via Lattea. L’equipe ha raccolto informazioni sulla luminosità e sul periodo di pulsazione e ha dedotto la distanza di queste 35 Cefeidi classiche. I loro periodi di pulsazione, intimamente legati alla loro età, hanno svelato la loro sorprendente vitalità. “Tutte le 35 Cefeidi classiche scoperte hanno meno di 100 milioni di anni – rivela Dante Minniti dell’Universidad Andres Bello di Santiago in Cile – le Cefeidi più giovani potrebbero avere appena 25 milioni di anni, anche se non possiamo escludere la presenza di Cefeidi ancora più giovani e brillanti”. L’età di queste Cefeidi classiche fornisce una prova solida del continuo rifornimento di nuovi astri, precedentemente non confermato, nella zona centrale della Via Lattea negli ultimi 100 milioni di anni. Ma questa non è l’unica scoperta Eso importante ottenuta dai dati della survey. Costruendo la mappa delle Cefeidi scoperte, il team ha tracciato una struttura completamente nuova nella Via Lattea, un disco sottile di stelle giovani che attraversa il rigonfiamento galattico. Questa nuova componente nella nostra Galassia “barrata”, è rimasta invisibile e sconosciuta alle indagini precedenti perchè è nascosta dietro a spesse nubi di polvere. La sua scoperta dimostra la potenza di VISTA, progettato per studiare le strutture della Via Lattea in immagini a grande campo, alta risoluzione e lunghezze d’onda infrarosse. “La ricerca è una dimostrazione efficace delle potenzialità uniche e impareggiabili del telescopio VISTA per sondare le regioni galattiche molto oscurate dalla polvere, che non possono essere raggiunte da nessuna delle survey in corso o previste”, sottolinea Dékány. “Questa parte della Galassia era completamente sconosciuta fino a che la survey VVV l’ha trovata!”, rileva Minniti. Servono ora nuove indagini per stabilire se queste Cefeidi sono nate vicino a dove ora le si osserva, o molto più lontano. Comprendere le loro proprietà fondamentali, le loro interazioni e la loro evoluzione, è essenziale per capire l’evoluzione della Via Lattea e delle altre galassie. Un nuovo strumento, montato sul telescopio Atacama Pathfinder Experiment (APEX) da 12 metri di diametro, a 5000 metri sul livello del mare nelle Ande cilene, apre una nuova finestra sull’Universo finora inesplorato. Lo strumento SEPIA (Swedish–ESO PI receiver for APEX) è in grado di rivelare i deboli segnali emessi dall’Acqua e da altre molecole nella Via Lattea, in altre galassie vicine e nell’Universo primordiale. Installato all’inizio del 2015 su Apex, il sensore SEPIA è sensibile alla luce di lunghezza d’onda compresa tra 1,4 e 1,9 millimetri (frequenze da 158 a 211 GHz, per osservare l’Acqua cosmica). SEPIA è stato progettato e costruito dal “Group for Advanced Receiver Development” (GARD) dell’Onsala Space Observatory all’Università Chalmers University of Technology in Svezia, con il sostegno dell’Eso. SEPIA può ospitare tre ricevitori, uno dei quali è attualmente installato. La cartuccia per i ricevitori era stata originariamente sviluppata e verificata per la Banda 5 di Alma, nell’ambito del Programma Quadro FP6 della Commissione Europea (Alma Enhancement). L’Eso ha prodotto l’oscillatore locale mentre l’elettronica a temperatura ambiente è stata costruita dalla NRAO. “Sepia” è anche un colore connesso con l’acqua. La tonalità bruno-rossastra, caratteristica dei pigmenti raccolti dagli esemplari del genere Sepia, abbondanti sia nella acque della Svezia sia del Cile, dunque non soltanto nelle funzioni fotografiche digitali di pad e telefonini, è stato usata fin dai tempi antichi negli inchiostri, mentre il viraggio “seppia” è un modo ben noto per garantire una maggior durata alle stampe fotografiche e cinematografiche stile “Traffic”. Le condizioni osservative eccezionali dell’arida piana di Chajnantor nel nord del Cile fanno sì che, anche se questo intervallo di lunghezze d’onda viene bloccato dal vapor acqueo contenuto nell’atmosfera nella maggior parte dei siti osservativi al mondo, il sensore SEPIA possa comunque rivelare i deboli segnali provenienti dallo spazio. Questa regione dello spettro elettromagnetico è molto interessante per gli astronomi poichè vi si trovano i segnali emessi dall’Acqua nello spazio. L’Acqua è un indicatore importante di molti processi astrofisici, tra cui la formazione delle stelle, e si pensa che giochi un ruolo fondamentale nell’origine della vita così come la intendiamo sulla Terra. Studiare l’Acqua nello spazio, nelle nubi molecolari, nelle zone di formazione stellare e anche nelle comete all’interno del Sistema Solare, dovrebbe fornire indizi critici sul ruolo dell’Acqua nella Via Lattea e nella storia della vita sulla Terra. La sensibilità di SEPIA lo rende uno strumento molto efficace per rivelare il monossido di Carbonio e il Carbonio ionizzato nelle galassie dell’Universo primordiale. Il nuovo ricevitore SEPIA è stato usato per alcuni test astronomici su APEX durante il 2015. Ricevitori identici verranno installati sulle antenne di Alma. I risultati del nuovo rivelatore montato su APEX hanno dimostrato che funziona bene. “Le prime misure con SEPIA su APEX mostrano che stiamo veramente aprendo una nuova finestra che comprende la possibilità di osservare l’Acqua nello spazio interstellare – osserva John Conway, direttore dell’Osservatorio Spaziale di Onsala, Chalmers University of Technology in Svezia – SEPIA darà agli astronomi la possibilità di cercare oggetti che si potranno seguire con alta risoluzione spaziale quando gli stessi ricevitori saranno operativi su tutta la schiera di Alma”. Come il cielo buio è essenziale per vedere gli oggetti deboli in luce visibile, così un’atmosfera molto secca è necessaria per catturare i segnali dell’Acqua dal Cosmo a lunghezze d’onda maggiori. Ma le condizioni di bassa umidità non sono l’unico requisito. I rivelatori devono anche essere raffreddati alla temperatura molto bassa di meno 269 gradi Celsius, appena 4 gradi sopra lo Zero Assoluto, per poter funzionare. Recenti sviluppi tecnologici li hanno resi possibili e pratici da costruire. APEX, una collaborazione tra il Max Planck Institute for Radio Astronomy (MPIfR), l’Onsala Space Observatory (OSO) e l’Eso, è il più grande Telescopio submillimetrico ad antenna singola nell’emisfero australe e si basa su un’antenna prototipo costruita per il progetto Alma. I resti di un’interazione fatale tra una stella morta e la sua cena di asteroidi, sono stati studiati in dettaglio per la prima volta da un gruppo internazionale di astronomi utilizzando il VLT. È un assaggio del destino del Sistema Solare. Guidata da Christopher Manser, uno studente di dottorato all’Università di Warwick nel Regno Unito, l’equipe ha usato i dati del VLT e di altri osservatori per studiare gli avanzi frantumati di un asteroide intorno al nucleo stellare di una nana bianca nota come SDSSJ122859.93+104032.9, come recita il nome completo. Tra cui lo spettrografo UVES (Ultraviolet and Visual Echelle Spectrograph) e X-shooter, entrambi installati sul VLT. Il team ha così ottenuto osservazioni dettagliate delle luce proveniente dalla nana bianca e dal materiale che la circonda, per un intervallo senza precedenti di dodici anni, tra il 2003 e il 2015. Tali osservazioni servono per studiare il sistema da molteplici punti di vista. L’equipe ha identificato l’inconfondibile firma spettrale a forma di tridente del Calcio ionizzato (Ca II), detta tripletto del Calcio. La differenza tra le lunghezze d’onda di laboratorio e quelle osservate per queste tre righe, permette di derivare la velocità del gas con notevole precisione. “L’immagine ottenuta dai dati elaborati ci mostra che questi sistemi sono veramente discoidali e rivela molte strutture che non possiamo vedere in un’istantanea”, spiega Chistopher Manser, l’autore principale dello studio “Doppler-imaging of the planetary debris disc at the white dwarf SDSS J122859.93+104032.9”, di C. Manser et al., pubblicato dalla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. L’equipe è composta da Christopher Manser (University of Warwick, Regno Unito), Boris Gaensicke (University of Warwick), Tom Marsh (University of Warwick), Dimitri Veras (University of Warwick), Detlev Koester (University of Kiel, Germania), Elmé Breedt (University of Warwick), Anna Pala (University of Warwick), Steven Parsons (Universidad de Valparaiso, Cile) e John Southworth (Keele University). Il team ha usato una tecnica nota come tomografia Doppler, simile in linea di principio alla Tac di medicina nucleare per il corpo umano, che permette di ricostruire per la prima volta in dettaglio la struttura dei resti gassosi del pasto della stella morta, in orbita intorno a J1228+1040. Mentre gli astri grandi, quelli più massicci di circa dieci volte la massa del Sole, terminano la loro vita con un climax spettacolare e violento fino all’esplosione di Supernova, attesa da almeno 400 anni qui sulla Terra, le stelle più piccole non devono subire questo destino drammatico. Quando gli astri come il nostro Sole giungono alla fine dei loro giorni, esauriscono il combustibile e si espandono come giganti rosse, espellendo i loro strati esterni nello spazio. Il velenoso nucleo nudo, caldo e denso, ora una nana bianca priva di reazioni termonucleari, sostenuta soltanto dalle spettacolari proprietà quantistiche della Supermateria, è tutto ciò che rimane della stella originale. Più che sufficiente per illuminare tutti i gas e le polveri dispersi fino a diversi anni luce. Come il satellite Ibex della Nasa può fin d’ora effettivamente osservare nelle colossali bolle di Idrogeno disperse a macchia di leopardo nel nostro Sistema Solare! Ma tutti gli altri corpi che appartengono a quel sistema, pianeti, asteroidi e quant’altro, potrebbero sopravvivere a questa prova del fuoco quantistico? Cosa ne rimarrebbe? Le nuove osservazioni Eso aiutano anche a rispondere a queste domande. È raro che le nane bianche siano circondate da dischi di materiale gassoso in orbita intorno alla stella densa: ne sono state trovate solo sette finora. L’equipe rileva che un asteroide si sia spinto pericolosamente vicino alla stella morta, fatto a brandelli dalle immense forze mareali che l’hanno trasformato nel disco di materiale ora visibile. Pare che il disco si sia formato in modo simile agli anelli fotogenici che si osservano vicino ai pianeti più vicini, come Saturno. Ma J1228+1040 è più di sette volte più piccolo in diametro del Signore degli Anelli, con una massa però 2500 volte maggiore. L’equipe ha scoperto che anche la distanza tra la nana bianca e il disco è molto diversa: Saturno e i suoi anelli sono in equilibrio gravitazionale nello spazio che li separa. Anche se il disco intorno alla nana bianca è molto più grande del sistema di anelli di Saturno nel Sistema Solare, è comunque minuscolo rispetto ai dischi di detriti che formano poi i pianeti intorno alle giovani stelle. Il nuovo studio a lungo termine con il VLT ha permesso ora all’equipe di osservare come il disco precede sotto l’influenza dell’intenso campo gravitazionale della nana bianca. Gli scienziati hanno anche trovato che il disco è asimmetrico. E non ancora circolare. “Quando abbiamo trovato questo disco di detriti in orbita intorno alla nana bianca nel 2006 – rivela Boris Gänsicke, coautore dell’articolo – non potevamo immaginare i raffinati dettagli ora visibili in questa immagine, costruita utilizzando i dodici anni di dati: valeva proprio la pena di attendere!”. Resti come J1228+1040 danno indizi chiari per la comprensione dell’ambiente in cui le stelle raggiungono la fine della loro vita. Questo potrebbe aiutare gli astronomi a capire i processi che avvengono nei sistemi esoplanetari e prevedere il destino del nostro Sistema Solare quando il Sole incontrerà la sua fine tra circa cinque miliardi di anni. VISTA ha spiato anche un’orda di galassie massicce prima nascoste. Esistite quando l’Universo attraversava le prime fasi della sua esistenza. Scoprendo e studiando un numero di galassie di questo tipo, maggiore di quanto finora pensato, gli astronomi hanno scoperto esattamente, per la prima volta, quando sono apparse queste galassie mostruosamente grandi. Il solo computo di galassie in un pezzetto di cielo fornisce agli astronomi una verifica delle teorie di formazione ed evoluzione delle galassie. Questo compito così semplice però diventa sempre più complesso e difficile quando si cerca di contare le galassie più deboli e lontane. È ulteriormente complicato dal fatto che le galassie più brillanti, più facili da osservare, le galassie più massicce dell’Universo, sono sempre più rare a mano a mano che gli astronomi scrutano nel passato dell’Universo, mentre le galassie più numerose e meno brillanti sono sempre più elusive. Un’equipe di astronomi, guidata da Karina Caputi del Kapteyn Astronomical Institute all’Università di Groningen, ha portato alla luce molte galassie distanti che erano sfuggite ai controlli precedenti. Hanno usato immagini della survey UltraVISTA, uno dei sei progetti che usano VISTA per analizzare il cielo alle lunghezze d’onda dell’infrarosso vicino, censendo le galassie deboli osservate quando l’età dell’Universo era compresa tra 0,75 e 2,1 miliardi di anni dopo il Big Bang. UltraVISTA ha osservato ripetutamente la stessa piccola zona di cielo, grande quasi quattro volte la Luna piena, a partire dal Dicembre 2009. È la più grande area di cielo osservata a queste profondità nella banda infrarossa. Il telescopio VISTA scruta nella banda del vicino infrarosso tra 0,88 e 2,15 micron. Il team ha integrato i dati di UltraVISTA con quelli del telescopio spaziale Spitzer della Nasa, che osserva il Cosmo a lunghezze d’onda più lunghe, nell’infrarosso medio tra 3,6 e 4,5 micron. “Abbiamo scoperto 574 nuove galassie massicce, il campione più grande di queste galassie nascoste nell’Universo primordiale mai costruito – rivela Karina Caputi nell’articolo “Spitzer Bright, UltraVISTA Faint Sources in COSMOS: The Contribution to the Overall Population of Massive Galaxies at z = 3-7”, di K. Caputi et al., apparso sulla rivista Astrophysical Journal – studiarle ci permette di rispondere a una domanda semplice ma importante: quando sono comparse le prime galassie massicce?”. L’equipe è composta da Karina I. Caputi (Kapteyn Astronomical Institute, University of Groningen, Paesi Bassi), Olivier Ilbert (Laboratoire d’Astrophysique de Marseille, Aix-Marseille University, Francia), Clotilde Laigle (Institut d’Astrophysique de Paris, Francia), Henry J. McCracken (Institut d’Astrophysique de Paris, Francia), Olivier Le Fèvre (Laboratoire d’Astrophysique de Marseille, Aix-Marseille University, Francia), Johan Fynbo (Dark Cosmology Centre, Niels Bohr Institute, Copenhagen, Danimarca), Bo Milvang-Jensen (Dark Cosmology Centre), Peter Capak (NASA/JPL Spitzer Science Centre, California Institute of Technology, Pasadena, California, USA), Mara Salvato (Max-Planck Institute for Extragalactic Physics, Garching, Germania) e Yoshiaki Taniguchi (Research Center for Space and Cosmic Evolution, Ehime University, Giappone). Costruire mappe del Cosmo a lunghezze d’onda del vicino infrarosso, consente agli astronomi di osservare gli oggetti che sono sia oscurati dalla polvere sia molto lontani, creati quando l’Universo era ancora bambino. L’espansione accelerata dello spaziotempo implica che più lontana è una galassia e più veloce appare la sua velocità di allontamento da un osservatore sulla Terra. Questo “stiramento” fa sì che la luce degli oggetti distanti appaia spostata nella parte rossa dello spettro elettromagnetico, per cui sono necessarie osservazioni nella banda del vicino o medio infrarosso per raccogliere la luce di queste galassie lontane. Il team ha scoperto una vera esplosione nel numero delle galassie in brevissimo tempo. Una frazione significativa delle galassie massicce che vediamo ora intorno a noi era già formata appena tre miliardi di anni dopo il Big Bang. In questo contesto, l’aggettivo “massiccio” significa più di 50 miliardi di volte la massa del Sole, ossia prossimo alla massa totale di stelle nella Via Lattea! “Non abbiamo trovato prove dell’esistenza di queste galassie massicce prima di un miliardo di anni dopo il Big Bang – osserva Henry Joy McCracken, coautore dell’articolo – così siamo sicuri che questo sia il momento in cui si sono formate”. Gli astronomi hanno trovato che le galassie massicce erano più abbondanti del previsto. Le galassie che prima rimanevano nascoste costituiscono circa metà del numero totale di galassie massicce presenti quando l’Universo aveva tra 1,1 e 1,5 miliardi di anni (redshift tra z=5 e z=4). L’equipe non ha trovato prove della presenza di galassie massicce a un redshift maggiore di 6, che equivale a meno di 0,9 miliardi di anni dopo il Big Bang. Questi nuovi risultati contraddicono i modelli correnti di evoluzione delle galassie primordiali, che non prevedono nessuna colossale galassia così precoce. Per complicare ulteriormente la faccenda, se le galassie massicce nell’Universo primordiale avessero anche molta più polvere di quella prevista dagli astronomi, allora neppure UltraVISTA sarebbe in grado di osservarle. Se questo è davvero il caso, il modello attualmente accettato di come si formano le galassie nelle prime fasi dell’Universo dev’essere completamente ribaltato. Anche Alma cercherà queste galassie polverose. Se riuscirà a trovarle, queste saranno oggetto di osservazione con il Telescopio E-ELT che permetterà analisi estremamente precise di alcune delle primissime galassie in assoluto. Un team di astronomi ha catturato con il VLT le immagini finora più dettagliate della stella ipergigante VY Canis Majoris distante circa 5mila anni luce dalla Terra. Le osservazioni mostrano come la dimensione inaspettatamente grande delle particelle di polvere che circondano la stella, le consentono anche di liberarsi di enormi quantità di massa mentre comincia a morire. Questo processo, compreso ora per la prima volta, è necessario per preparare le stelle giganti ad affrontare la loro fine come spettacolari Supernovae. VY Canis Majoris è un vero Golia astrale, una ipergigante rossa di un miliardo di chilometri di diametro, una delle stelle più grandi note nella Via Lattea. Ha una massa 30-40 volte maggiore di quella del Sole ed è 300mila volte più luminosa. Nel suo stato attuale, la stella raggiungerebbe l’orbita di Giove, essendosi espansa incredibilmente durante i suoi stadi finali. Le nuove osservazioni della stella hanno impiegato lo strumento SPHERE sul VLT. Il sistema di ottiche adattive corregge le immagini a un livello superiore rispetto ai sensori precedenti e in questo modo si possono vedere dettagli anche molto vicini a sorgenti intense. SPHERE-ZIMPOL utilizza ottiche adattive estreme per creare immagini al limite di diffrazione, molto più vicine dei precedenti strumenti al limite teorico del telescopio in assenza di atmosfera. Le immagini di questo nuovo studio sono ottenute in luce visibile, a lunghezze d’onda minori rispetto al regime del vicino infrarosso, dove venivano soprattutto utilizzate le ottiche adattive di prima generazione. Questi due fattori si traducono in foto molto più nitide rispetto alle precedenti con il VLT. Risoluzioni spaziali ancora più elevate sono state raggiunte con il VLTI, ma l’Interferometro non crea direttamente immagini. SPHERE mostra chiaramente come la luce brillante di VY Canis Majoris stia letteralmente accendendo le nubi di materia che la circondano. È la fase immediatamente preliminare al grande botto cosmico? Grazie al metodo osservativo ZIMPOL di SPHERE, il team ha non solo osservato più in profondità nel cuore della nube di gas e polvere che circonda la stella VY Canis Majoris, ma ha anche capito come la luce venga diffusa e polarizzata dal materiale circostante. Queste misure sono fondamentali per scoprire le proprietà elusive della polvere. Un’analisi accurata dei risultati di polarizzazione mostra che i grani di polvere sono particelle relativamente grandi (0,5 micrometri di diametro). Questa misura può sembrare piccola, ma grani di questa dimensione sono circa 50 volte più grandi della polvere che si trova normalmente nello spazio interstellare. Nel corso dell’espansione, le stelle massicce perdono grandi quantità di massa ogni anno: VY Canis Majoris espelle sotto forma di gas e polvere dalla propria superficie una massa pari a 30 volte quella della Terra. Questa nube viene spinta via prima che la stella esploda. A quel punto parte della polvere viene distrutta mentre il resto si disperde nello spazio interstellare. Il materiale radioattivo viene poi usato, insieme agli elementi più pesanti che si formano durante l’esplosione di Supernova, dalla successiva generazione di stelle che lo utilizzerà anche per formare i pianeti. Finora non si era capito come il materiale delle zone superiori dell’atmosfera di queste stelle giganti venisse spinto via nello spazio prima dell’esplosione. Si è sempre pensato che la causa più probabile fosse la pressione di radiazione, la forza esercitata dalla luce stellare. Poichè questa pressione è molto debole, il processo sfrutta i grani di polvere più grandi, per avere una superficie sufficientemente ampia al fine di ottenere un effetto apprezzabile. Le particelle di polvere devono essere sufficientemente grandi per garantire che la luce delle stelle possa spingerle, ma non così tanto da farle semplicemente cadere verso il centro della stella. Troppo piccole e la luce delle stelle passerebbe di fatto attraverso la polvere; troppo grandi e la polvere sarebbe troppo pesante da spingere. Quella osservata su VY Canis Majoris è proprio della dimensione giusta per essere più efficacemente spinta verso l’esterno dalla luce astrale. “Le stelle massicce hanno vita breve – rivela Peter Scicluna dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan, il primo autore dell’articolo “A scattered-radiation-driven outflow from the extreme red supergiant VY Canis Majoris”, di P. Scicluna et al., pubblicato da Astronomy & Astrophysics – quando raggiungono l’ultimo periodo della loro vita, perdono molta massa. Nel passato potevamo solo fare teorie su come questo accadesse. Ora, con i nuovi dati di SPHERE, abbiamo trovato grani di polvere molto grandi intorno all’ipergigante, abbastanza grandi da essere spinti via dalla pressione di radiazione della stella, sufficiemente intensa da spiegare la rapida perdita di massa”. L’equipe è composta da P. Scicluna (Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics, Taiwan), R. Siebenmorgen (ESO, Garching, Germania), J. Blommaert (Vrije Universiteit, Brussels, Belgio), M. Kasper (ESO, Garching, Germania), N.V. Voshchinnikov (St. Petersburg University, St. Petersburg, Russia), R. Wesson (ESO, Santiago, Cile) e S. Wolf (Kiel University, Kiel, Germania). I grani di polvere osservati così vicini all’astro implicano che la nube possa diffondere in modo efficace la luce visibile della stella ed essere spinta via dalla sua pressione di radiazione. La dimensione dei grani di polvere indica anche che la maggior parte potrebbe sopravvivere alla radiazione prodotta dall’inevitabile fine drammatica di VY Canis Majoris quando esploderà come Supernova. L’esplosione accadrà presto per gli standard astronomici. Ma qui sulla Terra non vi è alcun motivo di allarme, in quanto l’evento drammatico non avrà luogo probabilmente per altre centinaia di migliaia di anni. Sarà spettacolare visto dalla Terra, forse brillante come la Luna, ma i terrestri sono al sicuro. Siamo entro i limiti di sicurezza. Non vi è alcun pericolo per la vita sulla Terra, secondo gli astronomi. La polvere di VY Canis Majoris contribuirà al mezzo interstellare circostante, alimentando le future generazioni di stelle e pianeti. Le conseguenze spettacolari di una collisione cosmica di 360 milioni di anni fa, sono rivelate in dettaglio nelle nuove immagini del VLT. Tra le carcasse dello scontro, una giovane galassia nana rara e misteriosa che fornisce agli astronomi un’eccellente opportunità di capire meglio questo tipo di galassie, che ci si aspetta siano comuni nell’Universo primordiale ma troppo deboli e distanti per essere osservate con gli odierni telescopi. NGC5291, la galassia che domina il centro dell’immagine come un ovale dorato, è un’ellittica distante circa 200 milioni di anni luce, nella costellazione del Centauro. Più di 360 milioni di anni fa, NGC5291 pare sia stata coinvolta in una collisione drammatica e violenta, quando un’altra galassia, viaggiando a velocità elevatissima, si è fusa con il suo nucleo. L’incidente cosmico ha lanciato fiumi di gas nello spazio circostante, che successivamente si sono condensati in un anello intorno a NGC5291 in interazione più dolce con MCG-05-33-005, la galassia Conchiglia a forma di virgola che sembra uscire direttamente dal nucleo luminoso di NGC5291. Con il passare del tempo, la materia di questo anello si è addensata e collassata in dozzine di zone di formazione stellare e in molte galassie nane che appaiono come regioni bianco-azzurre sparse intorno a NGC5291 nella nuova immagine catturata dallo strumento FORS installato sul VLT. Il grumo più massiccio e luminoso, a destra di NGC5291, è una di queste galassie nane e prende il nome di NGC5291N, come rivela lo studio “Ionization processes in a local analogue of distant clumpy galaxies: VLT MUSE IFU spectroscopy and FORS deep images of the TDG NGC 5291N”, di J. Fensch et al., pubblicato da Astronomy & Astrophysics. L’equipe è composta da J. Fensch (Laboratoire AIM Paris-Saclay, CEA/IRFU/SAp, Universite Paris Diderot, Gif-sur-Yvette, Francia [CEA]), P.-A. Duc (CEA) , P. M. Weilbacher (Leibniz-Institut für Astrophysik, Potsdam, Germania), M. Boquien (University of Cambridge, Regno Unito; Universidad de Antofagasta, Antofagasta, Cile) e E. Zackrisson (Uppsala University, Uppsala, Svezia). Si pensa che la Via Lattea, come tutte le grandi galassie, si sia formata dalla fusione di galassie nane durante i primi momenti dell’Universo. Queste galassie piccole, se sono sopravvissute indipendenti fino ad oggi, dovrebbero contenere stelle molto vecchie. Eppure NGC5192N sembra non averne. Osservazioni dettagliate con lo spettrografo MUSE hanno anche trovato che le zone esterne della galassia vantano proprietà tipicamente associate alla formazione di nuove stelle, ma ciò che si osserva non è previsto da alcun modello teorico. NGC5291N è stata osservata con uno spettrografo a campo integrale durante il primo test di verifica scientifica di MUSE. Lo spettrografo raccoglie uno spettro per ogni punto del cielo, fornendo una vista tridimensionale dell’oggetto osservato. Le analisi di MUSE hanno rivelato emissioni di Ossigeno e Idrogeno inaspettate nelle zone esterne di NGC5291N. Gli astronomi sospettano che questi dettagli inusuali possano essere il risultato delle massicce collisioni di gas avvenute nella regione. NGC5291N non è una galassia nana tipica, ma condivide molte somiglianze con le strutture grumose presenti in molte delle galassie ad alta formazione stellare dell’Universo lontano. Ciò la rende un sistema unico nell’Universo locale e un laboratorio importante per lo studio delle galassie primordiali ricche di gas, che di solito sono troppo lontane per essere osservate in dettaglio dai telescopi attuali. Questo sistema insolito è stato già osservato da molte strutture da terra, tra cui il telescopio da 3,6 metri dell’Eso all’Osservatorio di La Silla. NGC5291 è stata studiata dagli astronomi fin dal 1978. Le osservazioni rivelarono grandi quantità di materia nello spazio intergalattico intorno alla galassia, che ora sappiamo essere le regioni di formazione stellare e parecchie galassie nane create dal collasso dell’anello di gas della galassia. Ma le potenzialità di MUSE, FORS e del VLT hanno permesso solo ora di determinare alcune delle proprietà e la storia di NGC5291N. Osservazioni future, tra cui quelle dell’E-ELT, consentiranno di far luce su altri misteri di questa galassia nana. I telescopi dell’Eso hanno donato a un’equipe internazionale di astronomi la terza dimensione in una caccia extra-extra-large alle strutture gravitazionalmente legate più grandi dell’Universo, gli ammassi di galassie. Osservazioni con il VLT e il NTT completano quelle di altri Osservatori in tutto il mondo e nello spazio nell’ambito della survey XXL, una delle più grandi ricerche di ammassi di galassie. Che sono massicce congregazioni di sistemi stellari, da far invidia agli imperi di Star Wars, con enormi riserve di gas caldo: qui le temperature sono così alte che vengono prodotti raggi X. Queste strutture sono utili agli astronomi perchè si pensa che la loro costruzione sia influenzata dalle componenti “strane” dell’Universo, la Materia Oscura e l’Energia Oscura. Studiando le loro proprietà in diverse fasi nella storia dell’Universo, gli ammassi di galassie possono fare luce sul lato oscuro del Cosmo, ancora poco compreso. Il team, composto da più di 100 astronomi di tutta la Terra, ha iniziato la caccia ai “mostri” cosmici nel 2011. Se la radiazione X ad alta energia, che rivela la loro posizione, viene assorbita dall’atmosfera terrestre, può invece essere rivelata dagli osservatori per raggi X nello spazio. Si sono perciò combinati i dati della survey del satellite XMM-Newton dell’Esa, il più grande stanziamento di tempo concesso sul telescopio orbitante europeo, con le osservazioni dei telescopi Eso e di altri Osservatori. Il risultato è una raccolta enorme, ancora in crescita, di dati in tutto lo spettro elettromagnetico, chiamata integralmente “survey XXL”, su ammassi di galassie comprese nell’intervallo di lunghezze d’onda da 1x10E-4 μm (raggi X osservati con XMM-Newton) fino a 492 μm (submillimetrico osservato con il Giant Metrewave Radio Telescope). “Lo scopo principale della survey XXL è di fornire un campione ben definito di circa 500 ammassi di galassie fino a una distanza pari a quando l’Universo aveva la metà della sua età attuale”, spiega Maguerite Pierre del CEA di Saclay in Francia, la responsabile della survey. Il telescopio XMM-Newton ha mappato due zone di cielo, ciascuna cento volte l’area della Luna piena, per cercare un numero enorme di ammassi di galassie prima sconosciuti. Il gruppo di ricerca della survey XXL ha ora pubblicato i primi risultati in una serie di articoli che usano i cento ammassi più brillanti finora scoperti. Quelli riportati nei tredici articoli si trovano a redshift compresi tra z = 0.05 e z = 1.05, che corrispondono rispettivamente a quando l’Universo aveva circa 13 e 5,7 miliardi di anni. Le osservazioni con lo strumento EFOSC2 installato sul New Technology Telescope, insieme a quelle con lo strumento FORS sul VLT, sono state usate per studiare attentamente la luce proveniente dalle galassie di questi ammassi. Ciò ha permesso all’equipe di misurare le distanze precise degli ammassi di galassie, fornendo la visione tridimensionale del Cosmo necessaria per effettuare misure accurate di Materia ed Energia Oscure. Indagare gli ammassi di galassie richiede di avere una misura precisa della loro distanza. Mentre le distanze approssimative (redshift fotometrico) possono essere misurate analizzando i loro colori a diverse lunghezze d’onda, in questo caso sono necessari redshift spettroscopici più accurati estratti anche da dati di archivio all’interno del progetto VIPERS (VIMOS Public Extragalactic Redshift Survey), della VVDS (VIMOS-VLT Deep Survey) e della survey GAMA. Ci si aspetta che la survey XXL produca alla fine molti risultati inaspettati. Anche con un quinto dei dati totali si sono già fatte alcune scoperte importanti e sorprendenti. Uno dei lavori riporta la scoperta di cinque nuovi s
perammassi (ammassi di ammassi di galassie) che si aggiungono a quelli già noti, come il nostro, il superammasso Laniakea. Un altro riporta le osservazioni dettagliate di un particolare ammasso di galassie (XLSSC-116) a più di sei miliardi di anni luce dalla Terra (redshift z = 0.543). In questo ammasso è stata osservata, con lo strumento MUSE del VLT, una sorgente diffusa di luce stranamente brillante. “È la prima volta che riusciamo a studiare in dettaglio la luce diffusa in un ammasso distante, e questo sottolinea la capacità di MUSE di svolgere questi studi”, osserva il coautore Christoph Adami del Laboratoire d’Astrophysique di Marseille in Francia. Il team ha anche usato i dati per confermare l’idea che gli ammassi di galassie nel passato erano versioni in scala ridotta di quelli che osserviamo oggi: una scoperta importante per la comprensione teorica dell’evoluzione degli ammassi nella vita dell’Universo. Il semplice atto di contare gli ammassi di galassie nei dati della scansione XXL conferma uno strano risultato precedente: esistono, a quanto pare, meno ammassi di galassie lontani di quanto previsto in base ai parametri cosmologici misurati dal telescopio spaziale Planck dell’Esa. Il motivo di tale discrepanza non è noto, ma l’equipe spera di andare a fondo con questa curiosità cosmologica utilizzando il campione completo di ammassi nel 2017. I quattro importanti risultati sono solo un assaggio di quello che la massiccia survey XXL (http://irfu.cea.fr/xxl) dei più massicci oggetti dell’Universo sarà in grado di offrire alla comunità astrofisica mondiale. XXL è un progetto internazionale basato su un Large Programme del telescopio XMM-Newton per una survey di due zone di 25 gradi quadri di cielo extragalattico a una profondità di circa 5x10E-15 erg cm-2 s-1 nella banda 0.5-2 keV per sorgenti puntiformi. Informazioni multi-banda e osservazioni spettroscopiche delle sorgenti X sono state ottenute per mezzo di alcuni programmi di survey (http://xxlmultiwave.pbworks.com/). La ricerca di pianeti al di fuori del Sistema Solare costituisce un elemento chiave di quella che è la domanda più profonda per l’Umanità: esistono altre forme di vita nell’Universo? Gli Osservatori Eso hanno in dotazione un formidabile arsenale pacifico di strumenti unici nel loro genere, in grado di stanare, studiare e monitorare gli esopianeti, le esolune e i sistemi solari alieni, in cerca delle molecole della vita e dell’intelligenza extraterrestre. Con il Very Large Telescope, gli astronomi sono stati in grado di distinguere per la prima volta il fievole barlume di un pianeta al di fuori del Sistema Solare, facendo la prima foto in assoluto di un mondo extrasolare. Un gigante, circa cinque volte più grande di Giove. Questa osservazione segna un primo passo significativo verso uno dei più importanti obiettivi dell’Astrofisica moderna: caratterizzare la struttura fisica e la composizione chimica di esopianeti giganti prima, e di pianeti simili alla Terra poi. Con l’High Accuracy Radial velocity Planet Searcher (HARPS) gli astronomi hanno scoperto ben quattro pianeti orbitanti intorno a una stella vicina, con masse più piccole di quella di Nettuno, fra cui un esomondo di due masse terrestri, il più piccolo mai scoperto, e uno di sette masse terrestri che risiede nella zona verde abitabile “Riccioli d’Oro” della sua stella. Questo pianeta orbita intorno all’astro che lo ospita, in circa 66 giorni. Gli astronomi pensano che sia coperto da oceani, forse ospitando la vita acquatica in forme, specie e quantità che non possiamo neppure immaginare. A Gloria del Signore Onnipotente. Questa scoperta segna un risultato assolutamente nuovo nella ricerca di esopianeti che possano sostenere forme di vita aliena. Un altro telescopio a La Silla, usando una tecnica innovativa chiamata “microlensing”, ha operato come parte di una rete di telescopi sparsi per il globo. Questa collaborazione ha portato alla scoperta di un nuovo pianeta extrasolare, significativamente più simile alla Terra di ogni altro finora scoperto. L’esomondo, che è solo cinque volte più massiccio della Terra, orbita la sua stella in circa 10 anni, e quasi certamente ha una superficie rocciosa e/o ghiacciata. È un insolito banchetto cosmico, consumato in tempi relativamente recenti, quello scoperto dal giovane astronomo italiano Lorenzo Spina, ora in forza all’Università di San Paolo, in Brasile, e dal suo team in gran parte composto da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf). Nell’atmosfera di una giovane stella di tipo solare distante quasi 1200 anni luce dalla Terra, nell’ammasso aperto Gamma Velorum, gli scienziati hanno trovato, contrariamente a tutti gli altri membri dell’ammasso, un’elevatissima abbondanza di elementi più pesanti dell’Elio, per gli astronomi denominati genericamente “metalli”. Una peculiarità che i ricercatori interpretano come il risultato dell’ingestione da parte della stella di materiale costituente asteroidi, comete e pianeti alieni, inizialmente presente attorno ad essa. Grazie alle accurate misure della composizione chimica dell’atmosfera della stella, ottenute nell’ambito del programma osservativo Gaia-Eso con lo strumento FLAMES installato al Very Large Telescope, è stato possibile rivelare come questa sovrabbondanza di metalli sia limitata ad alcuni specifici elementi come il Titanio, l’Alluminio e il Ferro. Che, almeno nel Sistema Solare, sono i maggiori costituenti dei pianeti rocciosi, dei nuclei dei pianeti gassosi e anche dei meteoriti e delle comete, miniere a cielo aperto. Da questi dati i ricercatori sono giunti alla conclusione che l’astro abbia risucchiato verso di sé una grande quantità di materiale protoplanetario, soprattutto di tipo roccioso, formatosi nei primi milioni di anni di quel sistema stellare alieno. Il materiale, attirato dalla forza gravitazionale della stella, è stato letteralmente dissolto negli strati esterni della sua atmosfera, lasciando così negli spettri della radiazione emessa dall’astro le caratteristiche impronte degli elementi di cui era composto il suo pantagruelico pasto. “Questa è la prima stella che viene identificata per la sua proprietà di aver inghiottito materiale planetario o protoplanetario appena formatosi – rivela Lorenzo Spina, primo autore dello studio “The Gaia-ESO Survey: chemical signatures of rocky accretion in a young solar-type star”, pubblicato nella sezione “letters” dell’Astronomy&Astrophysics – le nostre osservazioni suggeriscono che la quantità di materiale roccioso precipitato sulla stella sia stata pari a circa 30 masse terrestri. In più, questo fenomeno, per causare effetti osservabili sullo spettro della stella, deve essere avvenuto quando l’astro aveva più di dieci milioni di anni. Considerato che, dalle nostre misure, la stella ha un’età di 15 milioni di anni, il banchetto deve essere stato consumato in tempi molto recenti, parlando di simili oggetti celesti: non più di cinque milioni di anni fa, quando i pianeti attorno ad essa si erano molto probabilmente già formati”. Il team di ricerca è composto da Lorenzo Spina, Francesco Palla, Sofia Randich, Giuseppe Germano Sacco, Rob Jeffries, Laura Magrini, Elena Franciosini, Michael R. Meyer, Gražina Tautvaišienė, Gerry Gilmore, Emilio Javier Alfaro, Carlos Allende Prieto, Thomas Bensby, Angela Bragaglia, Ettore Flaccomio, Sergey E. Koposov, Alessandro Carmelo Lanzafame, Maria Teresa Costado, Anna Hourihane, Carmela Lardo, John Lewis, Lorenzo Monaco, Lorenzo Morbidelli, Sergio G. Sousa, Clare Worley e Simone Zaggia. “Uno scenario che è in accordo con le attuali teorie sulla formazione dei sistemi planetari, non solo il nostro. Riteniamo infatti – spiegano i ricercatori – che molti esopianeti non si siano formati dove si trovano ad orbitare attualmente. Le osservazioni dei cosiddetti pianeti gioviani caldi (con la massa di Giove o anche maggiori, ma in orbite molto vicine alle loro stelle madri) o di pianeti con orbite molto eccentriche simili a quelle che possiedono ad esempio le comete che popolano il nostro Sistema Solare, indicano chiaramente che i sistemi planetari subiscono processi di riconfigurazione orbitale e migrazione di pianeti. Lo sviluppo della configurazione di tali sistemi caratterizza le prime centinaia di milioni di anni nella loro storia evolutiva, in cui dapprima piccoli corpi rocciosi (i planetesimi) si sono aggregati per formare veri e propri pianeti che poi hanno ripulito le loro orbite da gas, polvere e oggetti rocciosi, i residui del disco protoplanetario presente attorno alla loro giovane stella madre”. I risultati entusiasmanti disponibili nel caso della stella scoperta dal team “aprono la possibilità di estendere la ricerca di altre stelle con abbondanze chimiche anomale – rileva Sofia Randich dell’Osservatorio Astrofisico Inaf di Arcetri, coordinatrice insieme a Gerry Gilmore (Istitute of Astronomy all’Università di Cambridge) della survey – sfruttando il set di dati omogeneo e statisticamente significativo della Gaia-Eso Survey. Trovare una popolazione di tali oggetti ci permetterà di ricostruire le proprietà dell’ambiente estremamente dinamico che ha caratterizzato le prime fasi dell’evoluzione di altri sistemi simili al nostro che è ormai troppo vecchio per mostrare qualsiasi caratteristica peculiare”. Non è il primo e sicuramente non sarà l’ultimo, ma tra gli esopianeti rocciosi mai trovati è tra quelli più intriganti. Questo nuovo esomondo si trova ad appena 39 anni luce ed è caldo, caldissimo, ma non abbastanza da non avere un’atmosfera che possa essere osservata. “Il nostro obiettivo è quello di trovare una nuova Terra gemella, ma lungo la strada ci siamo imbattuti in un gemello di Venere – rivela David Charbonneau dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – abbiamo il sospetto che avrà anche un’atmosfera come quella di Venere e non vediamo l’ora di darci un’occhiata”. GJ1132b, questo è il nome del pianeta alieno, orbita attorno a una nana rossa di dimensioni appena un quinto del nostro Sole, oltre ad essere molto più fredda e debole della nostra stella. Emette infatti solo un duecentesimo della luce solare. GJ1132b orbita intorno il suo astro ogni 1,6 giorni, a una distanza di 2,25 milioni di chilometri, molto meno di Mercurio dal Sole, la cui distanza è di circa 60 milioni di chilometri. Questo fa sì che la temperatura di GJ1132b superi i 230 gradi Celsius, in grado di far evaporare tutta l’acqua del pianeta, ma non tale da non consentire la formazione di una esoatmosfera. È anche la temperatura più fredda finora registrata tra gli esomondi confermati rocciosi, come CoRoT-7b e Kepler-10b, che raggiungono temperature di oltre 1000 gradi Celsius. GJ1132b è stato scoperto dal MEarth-Sud Array, dedicato alla caccia di mondi alieni di tipo terrestre orbitanti antiche stelle nane rosse. MEarth-Sud Array è composto da otto telescopi robotici di 40 cm di diametro situati all’Osservatorio Inter-Americano di Cerro-Tololo in Cile. Dopo la scoperta da parte del MEarth-Sud Array, osservazioni supplementari sono state effettuate anche con il telescopio Magellan Clay in Cile ed è stata misurata l’oscillazione gravitazionale della sua stella madre con lo spettrografo HARPS dell’Osservatorio Eso di La Silla, grazie al quale è stato possibile determinarne la massa. GJ1132b è del 16 percento più grande della Terra, con un diametro di circa 14.000 km e una massa del 60 percento superiore alla Terra, densità tale da far ritenere che abbia una composizione rocciosa simile al nostro pianeta. Qui saremmo sicuramente più pesanti! Poiché la stella nana rossa è piccola, la dimensione relativa del pianeta è più grande di quanto lo sarebbe per una stella simile al Sole. Questo, combinato con la poca distanza dalla stella, rende più facile individuare e studiarne l’atmosfera esoplanetaria. Il team ha quindi richiesto osservazioni successive con altri telescopi, tra cui lo spaziale Spitzer e osservazioni future saranno sicuramente effettuate anche dal Telescopio Spaziale James Webb. Inoltre l’interesse per questo pianeta è stimolato dalla possibilità che il sistema stellare di GJ1132b abbia altri esopianeti non ancora rilevati, caccia alla quale si sono proclamati impegnati gli Autori dello studio apparso su Nature. Qui sulla Terra sta crescendo l’attenzione per l’attività del Sole e le sue possibili conseguenze sulla nostra vita e i sistemi tecnologici da cui dipendiamo, anche alla luce della Enciclica climatica Laudato si’ di Papa Francesco. Ma ci sono ambienti, nell’Universo, dove le cose sono molto più complicate. Come attorno alle stelle nane rosse, oggetti celesti molto comuni nella nostra Galassia, relativamente freddi in superficie, con una temperatura di circa 3.500 gradi Kelvin, contro i quasi 6.000 del Sole, e una massa pari a circa la metà o meno della nostra stella. A dispetto dell’identikit, le nane rosse tuttavia possiedono un’attività magnetica assai sostenuta, con brillamenti ed espulsioni di massa coronale (Coronal Mass Ejection) molto più intensi e frequenti di quello che accade dalle nostre parti. Quindi, i pianeti che sono stati scoperti orbitare attorno ad esse, pur trovandosi nella cosiddetta fascia di abitabilità, potrebbero essere stati resi del tutto inospitali alla vita a causa dei continui bombardamenti di radiazioni ionizzanti e degli impatti di nuvole di plasma e particelle energetiche provenienti dalle loro stelle madri. A sottolineare questa possibilità è lo studio “The Host Stars of Keplers Habitable Exoplanets: Superflares, Rotation and Activity” appena pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, a firma di David Armstrong e altri del Dipartimento di Fisica dell’Università di Warwick nel Regno Unito. Il lavoro si concentra sull’analisi delle caratteristiche delle nane rosse attorno a cui orbitano i pianeti finora noti con le proprietà più simili alla Terra e più promettenti per ospitare la vita, come Kepler-438b, ad oggi l’esopianeta dal più alto indice di somiglianza con il nostro mondo. La sua atmosfera potrebbe essere stata strappata via dai brillamenti (Super Flare) della stella madre, una nana rossa distante circa 25 milioni di chilometri, circa un sesto di quanto si trovi la Terra dal Sole. Il termine “Super” è d’obbligo parlando di questi fenomeni esplosivi che avvengono nell’atmosfera di tali stelle, essendo tipicamente dieci volte più potenti di quelli che si registrano sul Sole. Ma il maggiore impatto sugli ambienti esoplanetari sarebbe dovuto alle altrettanto violente CME emesse dalle nane rosse che spesso, almeno sulla nostra stella, si sviluppano in associazione a brillamenti. “A differenza del Sole, relativamente quieto, la stella Kepler-438 emette poderosi brillamenti ogni poche centinaia di giorni – osserva Armstrong – ciascuno più potente del più intenso brillamento mai registrato sul Sole. È probabile che questi brillamenti siano associati a espulsioni di massa coronale, le quali potrebbero produrre effetti talmente gravi da compromettere l’abitabilità stessa del pianeta”. Secondo Giuseppina Micela, direttrice dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Palermo, “quello di definire le proprietà di abitabilità di esopianeti attorno a stelle della classe spettrale M e V, nelle quali ricadono le nane rosse, è un vecchio ma ancora dibattuto problema. Da una parte cercare potenziali eso-Terre attorno a questi corpi celesti è più facile, perché le zone cosiddette abitabili si trovano a distanze molto minori dalla loro stella madre di quanto noi non lo siamo rispetto al Sole, sfruttando quindi al meglio il metodo dei transiti e delle velocità radiali. Tuttavia è noto che le nane rosse hanno un’attività nettamente superiore rispetto alle stelle evolute simili al nostro Sole. Questo, insieme alla maggiore vicinanza della zona abitabile alla stella, fa sì che la radiazione ad alta energia dell’astro, incidente sul pianeta, sia nettamente maggiore che sulla Terra. I frequenti brillamenti stellari, eventualmente accompagnati da emissioni di massa coronale, possono seriamente compromettere le atmosfere di questi pianeti, riscaldandole, facendole parzialmente evaporare e, infine, influenzare pesantemente la eventuale formazione ed evoluzione di forme di vita su di essi”. Fin dall’antichità gli esseri umani si sono interrogati su come si siano formati i pianeti del Sistema Solare. Oggi un team di astronomi annuncia la scoperta di un pianeta extrasolare in formazione. Le cui osservazioni potrebbero portare a una migliore comprensione della genesi degli esopianeti intorno ad altre stelle, e a scoprire se i processi che hanno dato vita al nostro Sistema Solare siano la regola o l’eccezione. L’esomondo scoperto si chiama LkCa15b, orbita attorno a una stella a 450 anni luce di distanza dalla Terra e sembra essere sulla buona strada per diventare simile a Giove. “Questa è la prima prova incontrovertibile dell’osservazione di un pianeta in fase di formazione, un cosiddetto protopianeta – rileva Kate Follette, ricercatrice postdoc alla Stanford University e co-autrice di uno studio pubblicato sua Nature. L’analisi dei dati condotta da Follette ha prodotto un’immagine di LkCa15b che brilla in un ambiente composto da Idrogeno gassoso ad alte temperature, esattamente ciò che la teoria prevede per sistemi planetari in formazione. Nell’articolo scientifico, oltre all’osservazione di Follette, sono stati aggiunti i dati di Steph Sallum dell’Università dell’Arizona, che ha osservato in modo indipendente lo stesso sistema alieno sfruttando una tecnica complementare. L’esopianeta si sta formando all’interno del disco protoplanetario, una specie di ciambella composta da polvere e detriti rocciosi in orbita intorno alla stella LkCa15. Si ritiene che le zone centrali vuote di questi dischi, ripulite da polveri e gas, siano dovute alla presenza di mondi in formazione che raccogliendo materiale svuotano la propria orbita. Gli astronomi hanno a lungo ipotizzato che l’osservazione di queste regioni avrebbe potuto portare alla scoperta diretta di protopianeti, ma ottenere immagini definite di queste zone è estremamente impegnativo. Per coronare questo ambizioso obiettivo, Follette e colleghi hanno progettato uno strumento di “imaging” che fosse in grado di indagare questa delicata fase. Il processo attraverso il quale un pianeta passa dall’essere un nucleo di roccia o ghiaccio a un gigante gassoso coinvolge grandi quantità di energia. La caduta dell’Idrogeno gassoso dal disco verso il nucleo del protopianeta, lo riscalda e lo illumina come una lampadina fluorescente, emettendo una particolare lunghezza d’onda nella luce visibile chiamata H-alfa. Così, utilizzando il Telescopio Magellano in Cile, Follette, il professor Bruce Macintosh della Stanford e i loro collaboratori sono riusciti a perfezionare la misura dell’emissione della luce H-alfa proveniente da LkCa15b. “Quando ho elaborato i dati ero molto emozionata, ma ho preferito essere cauta – ricorda Follette che ha iniziato la ricerca da laureanda – ero abbastanza sicura di aver scoperto qualcosa di interessante, ma in questo campo siamo sempre a caccia di oggetti e analizziamo dati al limite di ciò che è possibile rilevare. La cosa interessante è che quest’oggetto è sopravvissuto a tutti i test a cui lo abbiamo sottoposto per assicurarci che fosse reale”. Per effettuare la scoperta, gli scienziati hanno elaborato le immagini sottraendo la luce della stella ospite. Grazie a questo procedimento è possibile isolare i fotoni provenienti dal pianeta, che sono molto più deboli. Il protopianeta si trova molto vicino alla stella madre e se si fosse trovato un po’ più vicino o fosse stato un poco più debole, l’astro LcCa15 ne avrebbe impedito il rilevamento. “La differenza di luminosità tra una stella e un pianeta extrasolare è paragonabile alla differenza tra una lucciola e un faro – spiega Follette – è molto difficile isolare la luce del pianeta quando è così debole e così vicino alla stella. Ma poiché abbiamo potuto concentrarci su una lunghezza d’onda specifica, nella quale il pianeta brilla in modo intenso, il segnale era significativamente più forte”. Le immagini sono state affinate usando la tecnica dell’ottica adattiva che corregge le turbolenze subite dalla luce nel passaggio attraverso l’atmosfera terrestre. Il sistema adattivo del Telescopio Magellano è il primo con una camera a luce visibile capace di raccogliere immagini in H-alfa e sarà estremamente utile per la ricerca di pianeti extrasolari. Il professor Macintosh, che era a capo della recente scoperta del pianeta 51 Eridani b, spiega come l’imaging effettuato con l’ottica adattiva stia permettendo agli astronomi di completare il quadro del ciclo di nascita dei pianeti. “51 Eridani b è un pianeta adolescente, ha circa 20 milioni di anni, già completamente formato e in fase di raffreddamento – rivela lo scienziato – il pianeta di Kate è un bambino, ancora in piena fase di riscaldamento e accrescimento”. Il team continuerà a monitorare LkCa15b per comprendere meglio il processo di formazione dei pianeti e le impronte che questo processo lascia sul disco protoplanetario. Se questo pianeta è responsabile della lacuna nel disco, potrebbe voler dire che l’osservazione di lacune simili in altri dischi è fortemente indicativa per la presenza di pianeti in formazione. Questo tipo di studi è fondamentale per ottenere una migliore comprensione di come si formano i pianeti alieni e così capire se i meccanismi con cui riteniamo si sia formato il nostro Sistema Solare siano l’eccezione o la regola. “Una delle domande fondamentali dell’Uomo è se siamo soli o unici – osserva Follette – è bello osservare esopianeti simili a Giove, come LkCa15b, ma ciò che ci preme realmente è spingere la tecnologia che abbiamo a disposizione per arrivare a rilevare pianeti extrasolari simili alla Terra. Sono sempre stata ispirata dalla famosa immagine che Carl Sagan ha chiamato “pale blue dot” (“puntino azzurro”) scattata dalla sonda Voyager mentre passava nei pressi di Saturno. Ci piacerebbe osservare qualcosa di simile attorno a un’altra stella e ci stiamo muovendo in questa direzione”. Il nostro Sole è un astro piuttosto tranquillo. I brillamenti solari, le emissioni di plasma e le particelle cariche che vengono espulse dalla corona costituiscono al più una minaccia per satelliti, reti elettriche, pacemaker, smartphone e computer. Saremmo tentati di pensare che le più antiche, longeve, piccole e fredde stelle siano anche le più tranquille. E invece gli astronomi scoprono, sempre pescando nel totalmente inatteso, un piccolo astro dal forte temperamento magnetico. Una piccola peste, di gran lunga più inquieta del nostro Sole, che sembra far vacillare l’ipotesi sulle civiltà aliene e sulle condizioni per la vita nell’Universo: sono comuni sugli altri mondi lontani oggi irraggiungibili? “Se il nostro pianeta si trovasse nell’orbita di una stella di questo tipo – avverte Peter Williams dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – non solo non potremmo avere alcun tipo di comunicazione via satellite, ma probabilmente non ci sarebbe alcuna condizione perché una qualche forma di vita possa evolversi”. Si trova a 35 anni luce dalla Terra. È piccola, gelida rispetto al Sole, e oscilla su quel crinale tipico delle nane rosse, fra stelle che fondono l’Idrogeno e nane brune che non lo fanno. È un astro turbolento che gira vorticosamente attorno al suo asse, completando una rotazione in appena un paio d’ore. Il nostro Sole impiega quasi un mese per compiere lo stesso movimento. Dalle prime osservazioni eseguite con il Very Large Array si è subito capito che il campo magnetico di questa stella è fuori scala: diverse centinaia di volte più forte del nostro Sole. Una condizione che lascia perplessi gli studiosi e gli appassionati di fantascienza, per nulla abituati a fare i conti con processi di questa natura in stelle tanto piccole. Mai disperare! “Si tratta di una bestia ben diversa dal nostro Sole, magneticamente parlando”, rassicura Edo Berger, astronomo CfA e tra i firmatari dello studio. Una seconda osservazione del fenomeno è stata eseguita con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array dell’Eso, che ha rilevato emissioni ad una frequenza di 95 GHz. È la prima volta che un’emissione a frequenze così alte viene osservata su una nana rossa. Nel nostro Sistema dati simili vengono registrati solo in corrispondenza di brillamenti solari, ma quelli emessi dal piccolo corpo celeste alieno, che possiede una massa di meno di un decimo quella del Sole, possono essere anche 10mila volte più intensi dei Flare emessi dalla nostra stella. Un dato che ha forti implicazioni sulla ricerca di pianeti abitabili al di fuori del Sistema Solare. Le nane rosse sono di gran lunga le stelle più diffuse all’interno della nostra Galassia. Da sempre questa loro abbondanza le ha rese obiettivo privilegiato nella ricerca di esopianeti e civiltà extraterrestri degne di Star Trek e Star Wars. La fascia di abitabilità sembra però compromessa: non c’è acqua liquida, atmosfera o forma di vita che possa resistere di fronte a un temperamento di questa natura. Gli studi recenti non fanno che confermare come le nane rosse possiedano un’attività assai sostenuta. Così, i pianeti che sono stati scoperti orbitare attorno ad esse, pur trovandosi nella cosiddetta fascia di abitabilità, potrebbero essere stati resi del tutto inospitali alla vita proprio a causa dei continui bombardamenti di radiazioni ionizzanti e degli impatti di nuvole di plasma e particelle energetiche provenienti dalle loro stelle madri. Un team di astronomi ha usato il “Las Cumbres Observatory Global Telescope network” per osservare la danza di un esopianeta nettuniano transiente, simile al nostro Nettuno in misure e fattezze, attorno a una nana rossa. La particolarità è il colore blu del cielo sopra al pianeta, che si trova a soli 100 anni luce dalla Terra. Poche ore luce di navigazione relativistica! L’esomondo GJ3470b è stato scoperto nel 2012 con il metodo del transito, cioè osservando una variazione nella luminosità della sua stella madre al passaggio del pianeta. Quando l’orbita di un esopianeta è allineata perfettamente affinché si verifichi il transito, gli astronomi possono misurarne le dimensioni a diverse lunghezze d’onda per generare uno spettro della sua atmosfera, in modo da studiarne anche la composizione. GJ3470b è grande quattro volte la Terra, ma molto più simile alla nostra tipologia rocciosa di pianeta che ai gioviani caldi (circa 10 volte la Terra) che racchiudono la maggior parte degli esopianeti. Un gruppo di astronomi guidati da Diana Dragomir dell’Università di Chicago (Usa) ha osservato il transito di GJ3470b con i diversi Osservatori del network LCOGT (Hawaii, Texas, Cile, Australia e Sudafrica) per confermare la presenza di un fenomeno chiamato “scattering di Rayleigh”. Il risultato dello studio “Rayleigh Scattering in the Atmosphere of the Warm Exo-Neptune GJ 3470b” è significativo per diverse ragioni, perché GJ3470b è l’esopianeta più piccolo sul quale sia stato confermato lo “scattering di Rayleigh” da cui dipende il colore blu della luce. La misurazione degli astronomi indica che il pianeta ha una spessa atmosfera ricca di Idrogeno sotto uno strato di foschia che diffonde la luce blu. Per queste ragioni il cielo su GJ3470b assume il colore blu. L’esopianeta orbita intorno ad una piccola nana rossa, il che significa che blocca una grande quantità di luce durante ogni transito, rendendo l’esomondo più facilmente caratterizzabile. La misura è la prima chiara rilevazione di una caratteristica spettroscopica nell’atmosfera di un pianeta extrasolare realizzata con piccoli telescopi di 1 e 2 metri di diametro. “Questa osservazione ci avvicina alla comprensione della natura dei pianeti extrasolari sempre più piccoli – rileva Dragomir – attraverso l’uso di un nuovo approccio che permette di sondare le atmosfere anche senza nuvole”. Il risultati sono importanti anche perché evidenziano il ruolo di piccoli telescopi, specole e osservatori nella ricerca dei mondi alieni, per questo anche meno costosi e più facili da gestire, inquinamento luminoso permettendo. Tra i pianeti extrasolari scoperti ce n’è uno estremamente peculiare. È 11 volte più grande di Giove e si trova a una distanza dalla sua stella pari a 16 volte quella di Plutone dal Sole. Dai dati raccolti sembra che sia stato allontanato dalla sua orbita originaria da un processo simile a quello che ha avuto luogo nelle prime fasi di vita del Sistema Solare, come ci ricorda la mitologia greca. Le immagini raccolte dallo strumento Gemini Planet Imager montato sul Telescopio Gemini in Cile e dal Telescopio Spaziale Hubble mostrano che la stella è circondata da una cintura di comete inclinata e asimmetrica. Questo suggerisce che il sistema ha subito perturbazioni gravitazionali e che le interazioni tra i pianeti, così come hanno avvicinato le comete alla stella, possono aver allontanato il pianeta ai confini del sistema stesso. L’esopianeta esiliato sembra circondato da un anello di detriti, trascinato probabilmente durante l’allontanamento. “Riteniamo che il pianeta abbia catturato materiale dalla cintura di comete e che sia circondato da un anello o un alone di polvere – dichiara Paul Kalas, professore di astronomia all’Università di Berkeley – abbiamo condotto tre diversi test e i risultati sembrano indicare la presenza di una nube di polvere, ma non è ancora detta l’ultima parola”. Scenario degno di film come “Quando i mondi si scontrano”! “I dati che abbiamo raccolto suggeriscono che il pianeta sia molto più ricco di polvere del previsto – osserva Abhi Rajan dell’Arizona State University – stiamo eseguendo osservazioni di follow-up per verificare se sia effettivamente circondato da un disco, sarebbe molto emozionante!”. Questi esomondi sono di estremo interesse, poiché anche il Sistema Solare, quando era giovane, potrebbe aver attraversato fasi turbolente simili a quella descritta, allontanando dei pianeti che oggi non fanno più parte degli otto che vediamo e conosciamo. La perturbazione potrebbe essere stata causata dal passaggio ravvicinato di una stella che avrebbe modificato le orbite dei pianeti interni, oppure da un pianeta massiccio all’interno del sistema stesso. Il team GPI ha anche cercato segni di un altro pianeta più vicino alla stella che potrebbe aver interagito con l’esomondo, ma non ha trovato nulla entro un’orbita simile a quella di Urano. Lo studio è stato pubblicato su The Astrophysical Journal. La stella ospite si chiama HD106906, si trova a 300 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Croce del Sud, ed è simile al Sole, ma molto più giovane: circa 13 milioni di anni di età, contro i 4.5 miliardi di anni del nostro luminare. Si pensa che i pianeti si formino presto nella vita di una stella, eppure nel 2014 un team guidato da Vanessa Bailey dell’Università dell’Arizona ha scoperto il peculiare pianeta HD106906b che contiene 11 volte la massa di Giove e si trova all’incredibile distanza di 650 Unità Astronomiche dalla propria stella (1 UA è la distanza media tra la Terra e il Sole). È estremamente improbabile che un pianeta si formi a una distanza così grande dalla propria stella, perciò qualcuno ha inizialmente suggerito che HD106906b si sia formato come una stella, raccogliendo e addensando gas e polveri circostanti. I dati ottenuti con il GPI e Hubble mostrano invece la presenza di una cintura di comete asimmetrica, e forse un anello di detriti attorno al pianeta, che sembrano quindi indicare una formazione normale attorno alla stella ospite, con un episodio turbolento durante il quale l’esomondo pare sia stato sbalzato in un’orbita più distante. Stiamo forse osservando il nostro Sistema Solare quando aveva appena 13 milioni di anni? “Sappiamo che la nostra cintura di comete, la Fascia di Kuiper, ha perso una grande quantità di massa durante la sua evoluzione – rivela Kalas – ma non abbiamo una macchina del tempo per tornare indietro e vedere come questo sia successo. Uno dei modi per capirlo è studiare questi episodi violenti attorno ad altre stelle giovani, che rimodellano il sistema, a volte addirittura spostando le orbite dei pianeti”. Nel Maggio 2015 Kalas e collaboratori hanno utilizzato il GPI alla ricerca di altri pianeti attorno alla stella, scoprendo che era circondata da un anello di materiale polveroso molto simile, per dimensione, alla nostra Cintura di Kuiper. La regione centrale vuota ha un raggio pari a 50 UA, di poco più grande rispetto alla zona occupata da pianeti del Sistema Solare. “Questo indica che il sistema planetario di HD106906 si sia formato proprio lì”, spiega Kalas. Subito dopo la scoperta sono state analizzate le immagini raccolte in passato dal Telescopio Spaziale Hubble, grazie al quale è stato possibile notare che l’anello di materiale polveroso era molto più esteso e asimmetrico di quanto ci si aspettasse. Inoltre, sul lato rivolto verso il pianeta, il materiale polveroso era sottile e copriva quasi tutta la distanza che lo separa dal pianeta stesso, mentre dal lato opposto è denso e poco esteso. “Queste evidenze indicano che il sistema planetario è stato portato alla sua configurazione attuale da una perturbazione gravitazionale – osserva Kalas – un altro aspetto insolito del pianeta è che la sua orbita sembra essere inclinata di 21 gradi rispetto al piano del sistema planetario interno, mentre la maggior parte dei pianeti si trova di solito su un piano comune”. Kalas e colleghi hanno ipotizzato che il pianeta abbia avuto origine da una posizione più vicina alla cintura di comete e abbia catturato materiale polveroso che si trova attualmente in orbita attorno al pianeta. Per verificare questa ipotesi, hanno analizzato con attenzione i dati del GPI e le osservazioni di Hubble, rivelando tre proprietà dell’esopianeta coerenti con la presenza di un grande anello o alone di polvere che lo circonda. Tuttavia, per ciascuna delle tre proprietà, sono possibili spiegazioni alternative. I ricercatori stanno pianificando osservazioni più dettagliate da effettuare con il Telescopio Spaziale Hubble, che permetteranno di determinare se HD106906b sia o meno uno dei primi esopianeti simili a Saturno, con un esteso sistema di anelli. La cintura interna di polvere intorno alla stella è stata confermata in maniera indipendente da un gruppo di ricercatori che hanno utilizzato lo strumento SPHERE del Very Large Telescope. Tuttavia, la forma distorta del disco di detriti non si è manifestata in tutta la sua evidenza finché Kalas non ha pensato di analizzare le immagini d’archivio dell’Advanced Camera for Surveys di Hubble. La campagna osservativa volta alla ricerca di esopianeti e realizzata con l’utilizzo del GPI è un progetto gestito da un team di astronomi dell’Università della California e da altre 23 istituzioni. Ha come obiettivo 600 giovani stelle, tutte con meno di 100 milioni di anni di età. Lo studio aiuterà a capire come evolvono nel tempo i sistemi planetari e quali dinamiche contribuiscono a plasmare la disposizione finale dei pianeti, come quella attuale del nostro Sistema Solare. Ma non è tutto oro quel che lassù risplende! Il dubbio era nell’aria. Tanto che gli astronomi, nei casi incerti, antepongono sempre la precisazione “candidati”, quando di volta in volta annunciano un incremento del numero di pianeti extrasolari individuati dalla sonda Kepler della Nasa. C’erano dunque i pianeti confermati, a oggi oltre un migliaio, e quelli in attesa di conferma, i candidati appunto, di gran lunga più numerosi. Quello che però nemmeno i più pessimisti avevano messo in conto era quanto fosse elevata la percentuale di falsi positivi, per lo meno fra i pianeti giganti con periodo orbitale fino a 400 giorni: oltre il 50 percento, rivela ora uno studio su Astronomy & Astrophysics. “Da studi precedenti ci si attendeva una frequenza di falsi positivi significativamente più bassa – rileva Aldo Bonomo dell’Osservatorio astrofisico Inaf di Torino, coautore dello studio – ci sono state stime in letteratura del 10-20 percento, mentre qui siamo almeno a un fattore due più grande, anche un fattore tre”. Gli Americani hanno preso un granchio? Per giungere a questa sconcertante conclusione, il team internazionale di astronomi del quale Bonomo fa parte, guidato da Alexandre Santerne dell’Università portoghese di Porto, ha seguito per oltre cinque anni, dal 2010 al 2015, con lo strumento SOPHIE, uno spettrografo installato sul telescopio da due metri dell’Osservatorio dell’Alta Provenza, un campione di 129 fra i candidati giganti di Kepler. A differenza della sonda spaziale della Nasa che si affida al metodo dell’occultazione rilevando le eclissi parziali prodotte dal transito periodico dei pianeti, fra noi che li osserviamo e la loro stella madre, per individuare gli esopianeti SOPHIE si avvale della misura delle variazioni della velocità radiale delle stelle stesse, variazioni indotte dalla forza di Gravità esercitata dai pianeti in orbita. Non quella del film Gravity! Ebbene, proprio grazie al ricorso a un metodo radicalmente diverso, autonomo e in qualche modo complementare rispetto a quello di Kepler, i dati di SOPHIE hanno consentito di discriminare fra i diversi responsabili delle occultazioni. E di smascherare così chi è stato a trarre in inganno Kepler: le nane brune nel 2.3 percento dei casi e, soprattutto, stelle binarie a eclisse nel 52.3 percento dei casi. “Si tratta di stelle doppie o a volte anche stelle che fanno parte di sistemi tripli – spiega Bonomo – che in determinate condizioni possono produrre un segnale molto simile a quello di un transito planetario”. I prossimi a finire nel mirino scientifico dell’Inaf saranno i candidati esopianeti più piccoli, comprese le cosiddette Superterre. “Nel loro caso – prevede Bonomo – la percentuale di falsi positivi dovrebbe essere assai più contenuta”. L’ultima parola spetta alle misure che saranno condotte questa volta anche con HARPS-N, lo spettrografo montato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’Inaf, alle europee Isole Canarie. Cercare nuovi mondi è un po’ come andare a caccia di funghi e di asparagi. Trovarne non è un problema, al punto che ormai è possibile cimentarsi con successo nella rilevazione di transiti anche con un telescopio amatoriale e un computer. Ma trovarne di commestibili, ovvero di potenzialmente abitabili, è impresa assai più ardua. Certo, così come aiuta sapere che un buon ambiente per i porcini sono i boschi di faggi e castagni, non sarebbe male avere un’idea dell’habitat ideale per la formazione di un esopianeta piccolo e roccioso esattamente come la Terra. Gli studi esistenti suggeriscono che le stelle ricche di Ferro sarebbero le preferite. Un’ipotesi ora contraddetta da un’indagine condotta su un campione di sette stelle del catalogo di Kepler, il redivivo cacciatore di esopianeti della Nasa. Secondo il nuovo lavoro “Detailed Abundances of Stars with Small Planets Discovered by Kepler I: The First Sample”, di Simon C. Schuler, Zachary A. Vaz, Orlando J. Katime Santrich, Katia Cunha, Verne V. Smith, Jeremy R. King, Johanna K. Teske, Luan Ghezzi, Steve B. Howell e Howard Isaacson, pubblicato su The Astrophysical Journal, le stelle a bassa metallicità e in particolare le stelle con poco Ferro e poco Silicio, forniscono un ambiente ugualmente favorevole. Per stabilirlo, il team di astronomi dell’Università di Tampa in Florida (Usa) è andato a verificare ingredienti e dosi, ovvero l’abbondanza relativa rispetto all’Idrogeno, degli elementi chimici di Kepler-20, Kepler-21, Kepler-22, Kepler-37, Kepler-68, Kepler-100 e Kepler-130. Sette stelle del catalogo di Kepler, tutte (tranne una) circondate da almeno un esopianeta con raggio inferiore a 1.6 volte quello della Terra, dunque con buona probabilità un pianeta roccioso. Per ricostruire il ricettario alieno, Schuler e colleghi hanno analizzato lo spettro della luce delle sette stelle con uno strumento ad alta risoluzione, lo spettrografo HIRES montato sul telescopio Keck I alle Isole Hawaii, della classe “10 metri”. Questi sono i 19 ingredienti chimici per i quali sono state calcolate le dosi: Litio, Carbonio, Ossigeno, Sodio, Magnesio, Alluminio, Silicio, Zolfo, Potassio, Calcio, Scandio, Titanio, Vanadio, Cromo, Manganese, Ferro, Cobalto, Nichel e Zinco. Con una certa sorpresa è emerso che, sebbene i pianeti rocciosi alieni contengano Ferro e Silicio in abbondanza, non se ne incontrano di meno in stelle che di questi elementi siano carenti. Detto altrimenti, la formazione di piccoli pianeti rocciosi può avvenire attorno ad astri dalla composizione chimica assai diversa. “Questo significa che pianeti piccoli e rocciosi possono essere più comuni di quanto pensassimo”, osserva Johanna Teske della Carnegie Institution di Washington Dc (Usa). Sono stati pubblicati su A&A i primi quattro articoli con i risultati ottenuti nell’analisi dei dati raccolti per la delicata fase di test dello Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet Research (SPHERE). Il cui obiettivo principale di trovare e caratterizzare esopianeti giganti in orbita intorno a stelle vicine facendone un’immagine diretta. È un compito molto impegnativo poiché questi pianeti sono molto vicini alla stella madre e anche molto più deboli. In un’immagine normale, anche nelle migliori condizioni, la luce dalla stella sommerge completamente il debole bagliore dell’esomondo. L’intero progetto SPHERE è perciò indirizzato a raggiungere il massimo contrasto possibile in una piccola zona di cielo intorno alla stella abbagliante. Come da prassi, queste osservazioni di prima luce (Luglio-Dicembre 2014) sono state eseguite su oggetti noti proprio per verificare le prestazioni dello strumento e per confrontarne la precisione rispetto a dati raccolti con altra strumentazione. SPHERE è in grado di ottenere vere e proprie immagini dirette di corpi celesti, quali pianeti o nane brune, orbitanti attorno ad altre stelle. Questi risultati dimostrano quanto lo strumento sia in grado di rivelarci nuovi oggetti ma anche di caratterizzare quelli già noti con una precisione mai raggiunta prima. In particolare, grazie all’uso combinato dei due sotto-strumenti, IFS e IRDIS, SPHERE sta aprendo nuovi orizzonti nello studio di nane brune giovani e di esopianeti giganti grazie proprio alle capacità di “imaging” ad alto contrasto nelle lunghezze d’onda dell’ottico e del vicino infrarosso, e alla spettroscopia a bassa dispersione. La partecipazione italiana allo strumento è cospicua. In particolare, l’IFS e il software di SPHERE sono stati sviluppati da ricercatori e tecnologi dell’Inaf di Padova, da dove provengono molti degli autori dei quattro articoli. Il primo, “First light of the VLT planet finder SPHERE. I. Detection and characterization of the sub-stellar companion GJ 758 B”, è focalizzato sul sistema GJ758 fino ad oggi noto per essere costituito da una stella di sequenza principale di tipo solare attorno alla quale ruota, con un’orbita molto eccentrica, una nana bruna che si è rivelata essere la compagna più fredda mai rilevata con il metodo del “direct imaging”. I dati ad alto contrasto presi con IRDIS nel vicino infrarosso restituiscono, oltre ad una rilevazione dettagliata della nana bruna, anche un nuovo oggetto più interno. Nell’immagine si possono distinguere tre oggetti oltre alla stella centrale oscurata: la nana bruna GJ 758B (marcata con la lettera “B”), una stella di background (“bkg”) e la nuova candidata compagna (“cc”). “I dati suggeriscono la possibilità che anche questo nuovo oggetto sia una nana bruna – spiega Valentina D’Orazi dell’Inaf di Padova – il confronto dei dati IRDIS con modelli atmosferici e con le distribuzioni spettrali di energia, indica una compatibilità del candidato compagno con spettri attribuibili proprio a questo tipo di oggetti; tuttavia nuove osservazioni sono necessarie per poter confermare questo risultato ed escludere quindi la possibilità che si tratti di un oggetto di background”. Anche il secondo articolo, “First light of the VLT planet finder SPHERE. II. The physical properties and the architecture of the young systems PZ Tel and HD 1160 revisited”, alla stregua del primo, ha come oggetto di studio le nane brune: corpi celesti di massa tipica compresa tra le dieci e le settanta masse di Giove, che non sono classificabili né come stelle ma nemmeno come pianeti e sulle quali gli astronomi cercano ancora molte risposte. Come si sono formate? Qual è il limite fisico reale entro il quale possiamo dire che un dato oggetto è pianeta o nana bruna? Non tutti questi tipi di oggetti sembrano, infatti, essersi formati nello stesso modo e nello stesso ambiente. Il secondo lavoro, coordinato dall’astronoma Anne-Lise Maire durante il suo post-doc all’Inaf di Padova, ha raffinato le proprietà fisiche e architetturali di due sistemi in cui era nota la presenza di nane brune. “Abbiamo osservato questi sistemi con tutte le principali modalità di SPHERE per la rivelazione e la caratterizzazione delle nane brune e dei pianeti giganti, dall’immagine infrarossa e visibile fino alla spettroscopia infrarossa a bassa e media risoluzione – rileva Anne-Lise – questi dati sono stati analizzati confrontandoli con altri ad essi complementari, presi con strumenti diversi, questo per avere una visione completa degli oggetti. Confermiamo le caratteristiche fisiche di PZ Telescopii B e l’eccentricità della sua orbita e abbiamo realizzato la prima classificazione spettrale della compagna nana bruna più vicina di HD1160. Per uno dei due sistemi sono stati inoltre fondamentali i dati raccolti da Sergio Messina dell’Inaf di Catania, nell’arco di 38 anni, importanti per rilevare variazioni di luminosità del sistema su scala decennale”. Gli altri due studi hanno riguardato il sistema planetario HR8799 già noto per essere formato da una stella giovane di sequenza principale e almeno quattro pianeti giganti gassosi e molto massicci. I due lavori, “First light of the VLT planet finder SPHERE. III. New spectrophotometry and astrometry of the HR8799 exoplanetary system” e “First light of the VLT planet finder SPHERE. IV. Physical and chemical properties of the planets around HR8799”, partono dalla considerazione che questo sistema rappresenti un laboratorio unico per testare le teorie di formazione planetaria, per indagare le varietà architetturali, per eseguire quella che, in gergo, è chiamata Esoplanetologia Comparativa. Grazie alla loro giovane età, e quindi alla loro relativamente alta luminosità, questi esomondi permettono inoltre di indagare la Fisica e la Chimica in gioco nelle loro atmosfere aliene ma, per ricollegarsi ai due lavori precedenti, possono essere facilmente confusi con nane brune. Si capisce allora come, l’avere informazioni sempre più dettagliate, aiuti gli scienziati a dipanare la matassa dei sistemi esoplanetari che presentano un’ampissima varietà peraltro inaspettata fino a pochi anni fa! Alice Zurlo, all’epoca dottoranda a Padova e prima autrice del terzo articolo, rivela di aver “eseguito tutta la riduzione dei dati raccolti con SPHERE andando a completare la distribuzione di energia spettrale di questi corpi fornendo anche nuovi dati sulla posizione accurata dei quattro pianeti. Siamo così riusciti a raffinare le informazioni riguardanti le loro orbite. Come si vede nella figura a fianco anche qui sono state ottenute eccezionali immagini dirette in diverse bande”. Un articolo a parte è stato dedicato al confronto delle osservazioni con i modelli teorici. Ne è emerso che le atmosfere planetarie aliene hanno un elevato contenuto di polvere e che i due pianeti più esterni hanno caratteristiche diverse rispetto alle nane brune di background di temperatura simile, e che essi hanno masse probabilmente inferiori rispetto ai due pianeti più interni. Così, proprio grazie all’aiuto di SPHERE, all’Eso gli scienziati stanno percorrendo un altro piccolo tratto della lunga strada da seguire per avere un quadro completo della formazione planetaria (http://planetquest.jpl.nasa.gov/). Ad oggi sono stati scoperti e confermati 1930 pianeti in orbita attorno a stelle diverse dal Sole. Ben 5631 sono in attesa di conferma o smentita. Alcuni sono noti con il nome di pianeti gioviani caldi, poiché sono pianeti gassosi che presentano caratteristiche simili a quelle di Giove e alte temperature. Tali pianeti orbitano molto vicino alle loro stelle ospiti. Questo rende molto calda la loro superficie e difficile studiare in dettaglio il pianeta senza essere sopraffatti dalla luce dell’astro. A causa di queste difficoltà, il Telescopio Hubble aveva finora esplorato solo una manciata di pianeti gioviani caldi, utilizzando un’intervallo di lunghezze d’onda limitato. I primi studi avevano scoperto che molti di questi pianeti contengono meno Acqua del previsto. Ora, un team internazionale di astronomi ha realizzato il più ampio studio mai condotto sui gioviani caldi, analizzando in dettaglio dieci di questi pianeti con l’obiettivo di ottenere una panoramica chiara sulle loro atmosfere aliene. Tra i pianeti selezionati, solo tre erano già stati oggetto di analisi dettagliate, perciò questo lavoro estende di oltre tre volte il catalogo di dati spettroscopici a nostra disposizione su questi oggetti. Il team ha effettuato osservazioni con i telescopi spaziali Hubble e Spitzer. Grazie alla potenza combinata di entrambi, gli scienziati sono riusciti a studiare un intervallo senza precedenti di lunghezze d’onda: dall’ultravioletto (0.3 μm) all’infrarosso (4.5 μm) su un set di esopianeti con diversi valori di massa, dimensione e temperatura. “Sono davvero entusiasta di vedere finalmente questo gruppo di pianeti insieme – rivela David Sing, autore principale dello studio e ricercatore all’Università di Exeter – è la prima volta che otteniamo una copertura tale in termini di lunghezze d’onda da poter confrontare varie caratteristiche da un pianeta all’altro. Grazie a questi nuovi dati abbiamo scoperto che le atmosfere planetarie sono molto più diversificate di quanto atteso”. Tutti i pianeti analizzati hanno un’orbita favorevole che consente dalla Terra di vederli transitare davanti al disco della loro stella. Mentre il gigante gassoso passa davanti al proprio astro ospite, dalla Terra vediamo parte della luce che attraversa gli strati esterni dell’atmosfera aliena. “Il passaggio nell’atmosfera lascia un’impronta digitale inconfondibile sulla luce della stella, che possiamo studiare quando questa arriva fino a noi”, osserva la co-autrice dello studio Hannah Wakeford del Goddard Space Flight Center della Nasa. Queste impronte chimiche esoatmosferiche permettono al team di identificare la presenza di vari elementi chimici e molecole, tra cui l’Acqua, e di distinguere tra esopianeti con o senza nubi. Naturalmente siamo anche alla ricerca di molecole ben più complesse. Lo studio rivela che i pianeti extrasolari privi di nubi mostrano forti segnali di presenza d’Acqua, mentre le atmosfere aliene dei gioviani caldi con segnali deboli di Acqua presentano nubi e foschia, entrambi elementi noti per occultare alla vista eventuale Acqua. Ecco dunque svelato il “mistero”! “L’alternativa a questa spiegazione è che i pianeti si formino in un ambiente privo di Acqua – avverte Jonathan Fortney dell’Università della California, co-autore dell’articolo “A continuum from clear to cloudy hot-Jupiter exoplanets”, di David K. Sing, Jonathan J. Fortney, Nikolay Nikolov, Hannah R. Wakeford, Tiffany Kataria, Thomas M. Evans, Suzanne Aigrain, Gilda E. Ballester, Adam S. Burrows, Drake Deming, Jean-Michel Désert, Neale P. Gibson, Gregory W. Henry, Catherine M. Huitson, Heather A. Knutson, Alain Lecavelier des Etangs, Frederic Pont, Adam P. Showman, Alfred Vidal-Madjar, Michael H. Williamson e Paul A. Wilson – ma questo ci obbligherebbe a rivedere completamente le nostre attuali teorie sulla nascita dei pianeti. I nostri risultati sembrano escludere lo scenario di formazione in ambiente asciutto e suggeriscono che siano le nubi a nascondere l’Acqua dalla nostra visuale”. Lo studio delle atmosfere di pianeti extrasolari sta compiendo in questi mesi i suoi primi passi. Il successore di Hubble, il James Webb Space Telescope, aprirà una nuova finestra negli infrarossi, fondamentale per lo studio dei pianeti extrasolari e delle loro atmosfere, alla ricerca della vita aliena. Un gruppo internazione di ricercatori, guidati da Thomas Kallinger dell’Università di Vienna, ha trovato un nuovo metodo per misurare la forza di Gravità sulla superficie di una stella. Questa tecnica rappresenta uno strumento di vitale importanza specialmente per quei sistemi planetari distanti perchè potrebbe fornire preziosi indizi nel determinare l’eventuale presenza di forme di vita aliena sugli esopianeti. I risultati sono riportati su Science Advances nell’articolo “Precise stellar surface gravities from the time scales of convectively driven brightness variations” di T. Kallinger e altri. Conoscere la Gravità superficiale di un corpo celeste come una stella è un po’ come sapere quale sarebbe il nostro peso se ci trovassimo sulla sua superficie. Se le stelle avessero una superficie solida su cui potremmo idealmente esistere, allora il nostro peso cambierebbe da oggetto a oggetto. Sappiamo che il Sole è molto più caldo di una sauna ma certamente non perderemmo del peso se ci trovassimo sulla sua superficie. Infatti, se disponessimo di una sorta di bilancia solare, vedremmo che lancetta del nostro peso segnerebbe un valore 20 volte maggiore di quello terrestre. Nel caso estremo di una gigante rossa, l’evoluzione futura che subirà il Sole, la gravità superficiale è molto più debole perciò il nostro peso risulterebbe 50 volte più leggero di quello terrestre. Ecco perchè Superman è Superman sulla Terra! Ma non su Krypton. Il nuovo metodo proposto dagli Autori dello studio permette agli scienziati di misurare la Gravità superficiale nel caso di stelle molto distanti e deboli, con un’accuratezza pari a circa il 4 percento rispetto a quella ottenuta con le attuali tecniche. Dato che la Gravità superficiale dipende dalla massa e dal raggio dell’oggetto, così come il nostro peso dipende dalla massa e dal raggio della Terra, questa tecnica permetterà agli astronomi di definire meglio la massa e la dimensione delle stelle più distanti. Non solo. Ma gli astronomi potranno studiare numerosi esopianeti appartenenti a questi sistemi stellari remoti le cui proprietà non possono essere misurate accuratamente. “Se non sappiamo nulla della stella, non sapremo altrettanto nulla del suo pianeta – osserva Jaymie Matthews dell’Università del British Columbia e co-autore dello studio – le dimensioni di un pianeta sono ricavate relativamente alle dimensioni della sua stella ospite. Se troviamo un esopianeta che orbita attorno ad una stella che riteniamo sia di tipo solare ma che in realtà è una gigante, potremmo essere ingannati dal fatto di pensare di aver trovato un mondo alieno abitabile delle dimensioni della Terra. Il punto di forza del nostro approccio ci permette di determinare quanto grande e luminosa risulta una stella e se un eventuale pianeta che le orbita attorno ha le giuste dimensioni e temperatura tali da ospitare oceani ed eventualmente forme di vita”. Questo metodo, chiamato Funzione di Autocorrelazione Temporale, o tecnica del Tempo-Scala, utilizza le minuscole variazioni di luminosità di stelle distanti che vengono rivelate dai satelliti quali MOST e Kepler. L’obiettivo delle future missioni spaziali sarà quello di cercare esomondi potenzialmente abitabili che si trovano nella fascia Riccioli d’Oro, la regione ideale dello spazio dove non fa troppo freddo o troppo caldo e dove l’acqua può esistere allo stato liquido sulla superficie del pianeta. I futuri programmi scientifici europei, insieme alla Russia, dovranno prendere in considerazione tutte le migliori informazioni possibili sulle stelle, obiettivi della ricerca, in modo da caratterizzare adeguatamente le proprietà degli eventuali esopianeti. “La nostra tecnica rappresenta uno strumento semplice ma allo stesso tempo potente – rivela Kallinger – essa potrà essere applicata ai dati che saranno raccolti dalle prossime osservazioni. Lo scopo sarà quello di comprendere ancora meglio la natura di stelle simili al Sole in modo da identificare quei pianeti che hanno le caratteristiche della Terra”. Oggi, i nomi di eroi, miti e leggende terrestri “consacrano” ufficialmente, grazie all’International Astronomical Union e al voto di 573.242 persone, i primi 19 esomondi alieni là fuori (14 stelle e 31 esopianeti), con buona pace di ET.
© Nicola Facciolini
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