La Costituzione della Repubblica afferma all’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Eppure, nella cultura delle forze politiche e di governo, questo articolo è cancellato e ignorato: lo si aggira costantemente, magari mascherando gli interventi come missione umanitaria, oppure nobilitandoli per costruire e importare democrazia.
I nostri governi occidentali continuano a perseverare su questa lunghezza d’onda, perché questa logica è dettata dalle lobby militari e dalla incapacità della politica ad immaginare strade diverse per gestire il dramma di questa complessità.
Perpetuiamo un atteggiamento ipocrita rispetto alle forniture di armi, preoccupati più dei nostri bilanci che non delle conseguenze che hanno sulle popolazioni civili: forniamo qualche vecchia arma ai curdi (innominabili), e al tempo stesso armiamo fortemente la Turchia, che usa quelle stesse armi non contro l’Isis, ma contro i curdi, l’unica popolazione dell’area che contrasta appunta Isis/Daesh.
Forniamo armi all’Arabia Saudita, che le rigira all’Isis e bombarda lo Yemen, zona nella quale la gran parte dei civili vengono uccisi con mine e armi italiane, per poi voler far parte della coalizione contro l’ISIS con i suoi mezzi e soldati inviati in Turchia…
Continuiamo a rapportarci alle situazioni di crisi e di conflitto con una logica confusa e manichea, separando nettamente il bene dal male, come se la complessità del sistema in cui viviamo possa essere ridotta ad una semplificazione di questo tipo, nella quale, per altro, il bene coincide sempre con gli interessi dell’occidente e del capitalismo.
Dopo avere destabilizzato, da qualche anno, la Libia e tutta l’area medio orientale, favorendo quegli stessi movimenti che ora si dice di voler combattere, nuovamente si ripropone l’intervento militare, magari ipotizzando una nuova spartizione della Libia.
A tutto ciò l’Italia partecipa attivamente con la solita ambigua ipocrisia: si autorizzeranno i voli dei droni valutando di volta in volta… come se la loro guerra, che è anche la nostra, fosse solo una pratica amministrativa.
Concedere la base di Sigonella è un atto di guerra, significa partecipare di quella guerra… e lo si fa, anche se con la copertura della legge, in disprezzo della nostra costituzione.
Lo si fa con la stessa logica dei terroristi che vogliamo annientare: come loro, anche noi semineremo morte in modo occulto, senza dichiararla la guerra; come loro, anche noi uccideremo – o comunque saremo complici e conniventi con chi lo fa – civili inermi insieme ai presunti guerriglieri; come loro, anche noi giustificheremo i nostri atti di guerra come difesa della vera civiltà contro il fanatismo, della umanità contro la barbarie, dell’occidente contro l’Islam, e come loro, anche noi non faremo che moltiplicare l’odio e il desiderio di futura rivalsa e vendetta.
Come Accademia Apuana della Pace invitiamo forze politiche, associazioni e cittadini ad assumere questa complessità come sfida, ad individuare e lottare per strade alternative alla guerra, strade che, pur apparendo utopiche, possono essere realmente praticate e realizzate, se solo la politica finalmente decidesse di farle proprie e di investirci in risorse e conoscenza.
La proposta di legge per l’istituzione del Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta va proprio in questa direzione, ma implica una scelta precisa della politica di voler esplorare altre opzioni rispetto a quelle volute dalla lobby economico militare.
Siamo chiamati ad un impegno dirimente, perché il discrimine tra guerra e pace non è puramente ideale, deve tradursi in azioni e scelte concrete, interne e internazionali… un’azione costante e continua, che non può essere relegata semplicemente ad una manifestazione della pace, ad un tenda, ad un presidio, ma deve essere il discrimine di valutazione delle forze politiche.
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