L’olio d’oliva è l’immancabile compagno delle nostre tavole. E’ il prodotto tradizionale nostrano per eccellenza, che eleva l’Italia a leader riconosciuto in tutto il mondo. Extravergine, Dop, Igp o biologico, l’oro verde è un lusso irrinunciabile. Si cerca qualità, garanzia, sapore. L’olio è parte del DNA nazionale, prodotto tipico della nostra alimentazione, così apprezzato e invidiato da non poter evitare, come vini e formaggi, imitazioni e contraffazioni. Cade quindi come un macigno sulle abitudini di ognuno di noi il grido d’allarme di Compag, l’associazione nazionale dei commercianti di prodotti per l’agricoltura che, per voce del Presidente Fabio Manara, da tempo richiama l’attenzione di istituzioni e consumatori su un dramma che si sta compiendo lentamente e inesorabilmente: una vasta parte delle 776 mila aziende olivicoltrici italiane è a rischio chiusura. Siccome l’olivicoltura è in mano a piccole e medie imprese agricole, più del 70% di esse risulta oggi inadempiente perché non in possesso del patentino richiesto dalla legge che regolamenta l’uso dei fitofarmaci.
Perché la legge c’è, e si chiama PAN (Piano d’Azione Nazionale). E’ entrata in vigore lo scorso 26 novembre con decreto del 22 gennaio 2014. Il PAN prevede che tutti i fruitori di agrofarmaci, da chi li compra a chi li vende, siano in possesso di regolare patentino rilasciato da organi competenti a seguito della frequentazione di un corso di abilitazione. Una norma giusta, riconosciuta come tale perché studiata per aumentare la conoscenza e la coscienza di quanti potrebbero creare danni alla salute e all’ambiente.
Nulla sarebbe se i corsi ci fossero, se le abilitazioni richieste fossero conseguibili. I corsi invece sono inesistenti o insufficienti in tutta Italia, nessuna Regione esclusa. Lo Stato ne ha demandato l’organizzazione alle Regioni, e queste si sono perse in una pletora di organi territoriali come l’ispettorato agrario, la Forestale, le Ulss, l’Avepa o altri enti di formazione che avrebbero dovuto rispondere alle richieste, ma non lo hanno fatto. E così imprenditori grandi e piccoli, hobbisti, produttori amatoriali e appassionati di ogni genere si trovano fuori legge, impossibilitati ad acquistare quanto serve per combattere batteri e insetti devastanti come la mosca dell’olivo Bactrocera oleae, la tignola dell’olivo Prays oleae, la cocciniglia Saissetia oleae. E gli ulivi secolari si infestano, infestano, si seccano e muoiono, rendendo inutilizzabili intere aree contaminate. L’olio, l’olio buono che si comprava dal contadino amico, che si trovava nel ristorante a km zero, l’olio extravergine prodotto nella determinata zona e così caratterizzante per densità e sapore non c’è più. Si fermerà una filiera che occupava 1 milione e 150 mila ettari di terreno agricolo e che produceva oltre tre milioni di quintali d’olive per un controvalore di circa un miliardo di euro.
E non è tutto, perché in questa cieca gestione del potere, in questa incapacità di capire le priorità e di movimentare il sistema affinché il meccanismo burocratico sia a servizio della popolazione c’è anche chi, come Regione Veneto e Regione Lombardia, restringe la norma a suo piacimento escludendo dall’acquisto di fitofarmaci anche le realtà terze in possesso di patentino e fino ad ora utilizzate dalle aziende agricole con regolari contratti. Un’interpretazione, un abuso amministrativo, vieta alle aziende agricole la possibilità – riconosciuta per legge – di appaltare il lavoro di esecuzione dei trattamenti fitosanitari ad aziende abilitate. Quale speranza?
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