L’approvazione della legge sul c.d. “omicidio stradale” è stata salutata da ampi settori della politica e dei media come una sorta di “conquista” che finalmente elimina l’impunità (così il vice-Ministro Ferri) dei “pirati della strada”. Si tratta di una vera e propria mistificazione, di un arretramento verso forme di imbarbarimento del diritto penale, frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della “grammatica” del diritto penale. Innanzi tutto, non è affatto vero che i “pirati della strada” rimanessero “impuniti” prima della emanazione di questa legge ed è falso il messaggio mediatico secondo il quale “l’omicidio stradale ora è reato”: il fatto era già previsto come reato (art. 589, 3° comma c.p.) ed era già severamente punito (da tre a dieci anni) cui ben poteva aggiungersi l’aggravante della previsione dell’evento (art. 61, n. 3) con pena finale che in casi particolarmente gravi poteva raggiungere gli anni quindici. Senza contare che spesso la giurisprudenza (certo con eccessi assolutamente non condivisibili) aveva ricondotto il fatto alla previsione dell’omicidio doloso, con dolo c.d. “eventuale” (pena da ventuno a ventiquattro anni). Quindi non è assolutamente vero che prima non ci fossero gli strumenti per scoraggiare, mediante la minaccia di severe sanzioni, un fatto certamente molto grave e socialmente intollerabile.
Né, almeno nella maggioranza dei casi, si può dire che le decisioni dei Giudici fossero ispirate a criteri di particolare clemenza, anzi. In secondo luogo, le leggi penali proprio per essere destinate ad incidere sulla viva carne delle persone (imputati e vittime) e a condizionare i comportamenti di tutti i consociati dovrebbero essere approvate con ampio consenso, previo dibattito parlamentare e senza ricorrere alla fiducia, secondo canoni razionali e non con il solo obiettivo di raccogliere facile approvazione dalla opinione pubblica spesso male informata, dimenticando perfino le statistiche che danno in netta diminuzione, grazie ad una capillare opera di prevenzione e di educazione culturale, le c.d. “stragi del sabato sera”. Pene così elevate, con raddoppio insensato dei termini di prescrizione (tempo minimo, salvo l’aumento in caso di interruzione, ventiquattro anni!) sono inconcepibili per un fatto qualificato come colposo. Non solo, ma non avere previsto come adeguata attenuante ad effetto speciale (suggerita dalla UCPI) per chi presta soccorso, è un vero e proprio incentivo alla fuga. Chi provoca un incidente, se ha il minimo dubbio che il mezzo bicchiere bevuto possa avergli alterato il tasso alcoolemico (e certo non può sapere di quanto!) nella maggioranza dei casi fuggirà. Con quali possibili conseguenze per le vittime è facile immaginare. Infine, la nuova norma così come presentata sembra istituire una sorta di presunzione di colpa e di causalità fra lo stato di ebbrezza e l’evento lesivo. Ma così non può essere, pena lo stravolgimento di tutti i principi fondamentali del sistema penale.
L’evento deve essere la concretizzazione del rischio specifico insito nella guida in elevato stato di ebbrezza. Occorrerà insomma verificare che l’evento lesivo sia dovuto proprio alla incapacità del conducente di osservare le regole sulla circolazione stradale in ragione dell’alterazione delle sue condizioni psico-fisiche dovute all’ingestione di alcool o stupefacenti. Inammissibile la codificazione di una colpa in re ipsa. Sotto questo profilo è poi stupefacente la previsione di una aggravante per la guida senza patente e, soprattutto, senza che il proprio mezzo abbia copertura assicurativa. Circostanze, forse non sempre la prima, ma certamente sempre la seconda, che non hanno nulla a che spartire con la violazione di regole cautelari che costituiscono per così dire il nucleo fondamentale del delitto colposo. Ancora una volta, dunque, una norma “manifesto” che non servirà a prevenire seriamente questi gravi fatti, ma solo a placare l’allarme sociale, vero o “drogato” dai media, che questi fatti suscitano, a far sentire la classe politica con la “coscienza a posto”, a placare i bisogni di repressione della comunità sociale. Che poi norme come queste servano davvero, poco importa.
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