La Gran Bretagna ha appena presentato un ambizioso piano di riduzione delle tasse su imprese e cittadini. Entro il 2020 la tassa sulle imprese scenderà dal 20 al 17% sulla scia della tassazione “accomodante” dell’Irlanda che con un’imposta al 12,5% ha la fila delle imprese internazionali fuori dalla porta per mettere una sede in terra irlandese. Inoltre il piano messo nero su bianco nel Budget (la finanziaria inglese) dal Cancelliere George Osborne, prevede anche tagli alla tassa sul capital gain che cala dal 28 al 20% e in casi particolari al 10% e degli aumenti per quanto riguarda gli sgravi fiscali sui depositi di risparmio.
Il governo inglese con la sua finanziaria cerca di rilanciare l’economia che quest’anno crescerà “solo” del 2% a fronte di una previsione più ottimista del 2,4% dando ossigeno a imprese e cittadini che si apprestano a votare al referendum per l’uscita del Paese dall’UE. E chissà che fuori dall’Unione, la Gran Bretagna non decida di diventare il nuovo paradiso fiscale delle imprese tagliando ulteriormente le tasse sulle imprese senza avere più l’obbligo di rispettare i paletti di bilancio europei.
Ma mentre le imprese vanno in Irlanda e inizieranno a guardare con interesse anche alla Gran Bretagna, l’Italia continua a registrare un flusso inverso. Il quadro fiscale e legale in Italia svolge il ruolo di massimo deterrente per coloro che vorrebbero fare impresa nel Belpaese e anche le imprese italiane sono sempre più tentate dalla delocalizzazione. Ma niente paura il premier Renzi ha promesso il taglio di IRES e IRPEF, non si sa bene come, né quanto, né quando, ma ci sarà.
In Italia, in controtendenza rispetto al taglio annunciato dalla Gran Bretagna, il governo ha alzato dal primo luglio 2014 l’imposta sul capital gain. Cameron lo taglia al 20 o al 10%, mentre in Italia è entrato in vigore il rincaro dal 20 al 26%. Ma, ormai, è inutile piangere sul latte versato, è meglio guardare al futuro.
Il governo ha promesso nel 2015 il taglio dell’IRES poi rinviato per questioni di bilancio. Allo stato attuale la riduzione dell’IRES è prevista per il 2017 quando la tassa passerà dal 27,5% al 24%, mentre il taglio IRPEF è rimandato al 2018. In realtà, nelle settimane scorse, membri del governo e lo stesso Renzi avevano annunciato un anticipo della riduzione della pressione fiscale, ma sembra che l’ipotesi sia finita su un binario morto, soprattutto dopo le note pubblicate da commissione ed Eurogruppo sul rischio di “significativa deviazione dei conti pubblici rispetto al cammino tracciato verso il pareggio di bilancio” anche in caso di concessione di di tutta la flessibilità richiesta.
Intanto oggi il tema della flessibilità per la riduzione della pressione fiscale è sul tavolo del Consiglio europeo per il quale Renzi sembra essere partito più battagliero che mai. Il problema dell’Italia, però, resta sempre lo stesso: una coperta economica terribilmente corta. Con un PIL che oscilla verso il basso ad ogni rallentamento globale, l’occupazione che da segnali di vita solo se ci sono forti incentivi fiscali, una ripresa della produzione poco incisiva, è difficile creare le condizioni per fare ulteriori spese in deficit. Con dei margini fiscali così stretti, l’Italia dovrebbe ponderare bene le scelte economiche e mettere sulla caselle giuste i pochi miliardi a disposizione.
Solo per fare un esempio, l’abolizione della TASI vale da sola quasi 4 miliardi di euro, un intervento che sarebbe potuto essere modulato per incidere sulle fasce più povere della popolazione, lasciando la tassa sugli altri e quindi risparmiare risorse preziose per altro. Insomma, la crescita è scarsa, i soldi sono pochi e soprattutto mal gestiti, per questo in Gran Bretagna si tagliano la tasse su imprese e cittadini, mentre in Italia si fanno solo annunci.
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