Secondo uno studio commissionato dall’OLP, le forze di occupazione israeliane nel corso del 2015 hanno distrutto 478 edifici palestinesi, tra cui case, ambulatori e siti di interesse storico. Ad essere più duramente colpite, a partire da ottobre, le famiglie a cui la casa è stata demolita nell’ambito della punizione collettiva con cui le forze di occupazione infieriscono sui parenti di chi è già stato eliminato come elemento pericoloso. A conferma che si tratti di una strategia di annichilimento, quando a gennaio in Palestina è stata lanciata la campagna di raccolta fondi a sostegno di chi aveva perso la casa, l’esercito israeliano si è allarmato, sostenendo che questa colletta avrebbe disinnescato la sua “politica di deterrenza” contro la resistenza palestinese.
Da allora, le demolizioni sono continuate, con pretesti sempre diversi che vanno dalle ragioni di sicurezza, alla mancanza di permessi, alla eccessiva vicinanza agli insediamenti, alla collocazione su “terreni dello Stato” o su aree verdi. Ed è proseguita la raccolta, a cui hanno aderito aziende e negozi locali, anche attraverso scatole per donazioni come quelle sistemate nelle strade più frequentate di Betlemme, Ramallah, Tulkarem, Nablus, Salfit, Hebron e Al-IzzariYa (a est di Gerusalemme), dove una conferenza stampa organizzata in Piazza Yasser Arafat ha visto la partecipazione di religiosi cristiani e cattolici nonché di rappresentanti di diversi partiti politici.
Munthir ‘Amireh, un attivista di Betlemme, ha detto che anche se la campagna mira a raccogliere fondi, ha anche una profonda valenza morale. La vicinanza con le famiglie di chi è stato ucciso significa che i palestinesi sono uniti e hanno diritto a vivere.
Anche il governatore di Hebron, Kamel Hmaid, ha spiegato che la campagna è motivata da un senso di responsabilità nazionale che rafforza la determinazione dei palestinesi, specialmente a Gerusalemme.
Secondo l’ultimo rapporto statistico rilasciato dall’Istituto di Ricerca Applicata di Gerusalemme (ARIJ), solo durante lo scorso mese di febbraio, le forze di occupazione hanno demolito 97 case e altre 86 strutture in Cisgiordania, con il pretesto che fossero “illegali”. Lo stesso Istituto ha reso noto che altre 139 case e strutture sono state colpite da simili ordini di demolizione o di interruzione dei lavori in corso, mentre più di 65 ettari di terreno in varie parti della Cisgiordania sono sotto minaccia di confisca.
All’inizio di marzo, centinaia di palestinesi hanno partecipato a una manifestazione nel Negev, a sud di Gerusalemme, in solidarietà con gli abitanti dei villaggi di Atir e Umm Al-Hiran, le cui case sono state distrutte dall’esercito israeliano. Durante la protesta, il parlamentare arabo della Knesset Taleb Abu Arar ha detto: “Quello sta succedendo nel Negev è pulizia etnica”.
Allo stesso tempo, il settimanale israeliano Kol Ha’ir ha rivelato che il governo israeliano sta andando avanti con i progetti di costruzione di circa 1.000 nuove unità abitative in 4 insediamenti illegali di Gerusalemme – Har Homa, Pisgat Ze’ev, Maale Adumim, and Modi’in – nonostante le dure critiche a livello internazionale.
Le licenze per costruire sono molto care e difficili da ottenere per i palestinesi, soprattutto nell’area di Gerusalemme, a conferma del fatto che il governo israeliano sta cercando di cacciare i palestinesi e di modificare così il bilancio demografico della città.
Il gruppo per i diritti umani B’Tselem, israeliano, sostiene che nel corso degli ultimi 12 anni a Gerusalemme Est siano state distrutte almeno 600 case, lasciando senza tetto più di 2.000 palestinesi.
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