In questi giorni, il fronte del no che invitava all’astensionismo, ci dipingeva il referendum del 17 aprile come inutile e dannoso e ci faceva passare le trivelle in mare come “isole felici”. Le clamorose notizie sul Centro Oli di Viggiano e le intercettazioni che hanno scosso ieri la politica italiana fino alle dimissioni del ministro Guidi, la dicono lunga sulla sicurezza ambientale di queste piattaforme e “a chi conviene” la deriva petrolifera che si vorrebbe favorire in Italia anche attraverso il boicottaggio del referendum stesso. Quello che si evince con certezza è che purtroppo il nostro governo è ancora schiacciato da una lobby novecentesca che ne impedisce l’innovazione e un sano sviluppo “pulito”.
Il Comitato abruzzese “Vota SÌ per fermare le trivelle” non interviene nel merito dell’inchiesta in atto, limitandosi ad auspicare che la magistratura faccia piena luce su quello che sta accadendo. Al di là delle eventuali responsabilità penali, sul piano politico le intercettazioni gettano comunque una luce inquietante sulle scelte del Governo Renzi e rafforzano l’opinione di chi chiede che siano gli italiani, e non un esecutivo neppure legittimato da un passaggio elettorale, a decidere sul proprio futuro. Oggi ci rendiamo conto di quanto stonano quelle parole di plauso pronunciate giorni fa nel Nevada (USA) dallo stesso premier quando, partecipando all’inaugurazione del il primo impianto ‘ibrido’ geotermia-termosolare al mondo, ne parlava come esempio di prestigio del made in Italy, come legame virtuoso tra energia e tecnologia e precisava: “Se investiamo in tecnologia, possiamo creare un mondo nuovo…” peccato che questo valga solo fuori dall’Italia e che cronaca di ieri ci riporti ad un amaro risveglio.
Quando qualcuno afferma con ostinazione che è “tutto a posto” o che votare è inutile, vuole farci infatti sicuramente un bruttissimo “pesce d’aprile”. Le associazioni, le organizzazioni, i movimenti e i cittadini che si riconoscono nel Comitato abruzzese “Vota SÌ per fermare le trivelle” lanciano per questo un preoccupato allarme quando mancano ormai meno di venti giorni all’appuntamento referendario. Non è infatti per nulla vero che i pericoli sono ormai cessati e che le piattaforme a ridosso della costa sono soltanto un incubo del recente passato. Quella che il presidente della Regione Luciano D’Alfonso con una colorita espressione chiama “Ombrina di ferro”, ad esempio, non è affatto morta ma solo dormiente e potrebbe continuare a rappresentare una seria minaccia per il mare. Quel progetto del resto ha già scavalcato indenne un altro divieto assoluto entro le 12 miglia, quello del cosiddetto decreto Prestigiacomo, che era stato inserito e poi annullato: un pronunciamento referendario forte, insieme alla attesa perimetrazione del Parco Nazionale della Costa Teatina, darebbe più consistenti garanzie sul futuro dell’economia sana dei territori e sulla salute dei cittadini.
Nell’Adriatico abruzzese sono presenti oggi 2 permessi di ricerca e 6 concessioni di coltivazione, tra cui Rospo Mare con le sue 3 piattaforme e i suoi 28 pozzi. Ricordiamo che il 15 aprile dello scorso anno i Ministeri dell’Ambiente e dei Beni Culturali hanno decretato la compatibilità ambientale per quattro nuovi pozzi al largo di Vasto: la vittoria del Sì non impedirà a Rospo Mare di continuare a estrarre ma potrà farlo soltanto sino alla scadenza della attuale concessione, che è già in regime di proroga, e non a tempo indeterminato. E soprattutto impedirà ulteriori ampliamenti che altrimenti restano possibili. Non è vero – come afferma il Governo – che oggi sono proibite in assoluto trivelle in mare a meno di 12 miglia marine dalla costa: la Legge di Stabilità ha infatti reintrodotto il divieto solo per le nuove istanze ma non per le concessioni esistenti come, ad esempio, Rospo Mare o Vega.
Il voto referendario sarà in tal senso anche un chiaro segnale per chi ritiene che l’Abruzzo possa essere trasformato, senza colpo ferire e senza nulla chiedere agli abruzzesi, in un distretto minerario, con pozzi in mare e a terra, stoccaggi, gasdotti, porti petroliferi, centrali di lavorazione, ecc., così come previsto dalla Strategia Energetica Nazionale del 2013 e dallo Sblocca Italia. Quali siano i risvolti concreti di una simile infausta scelta con danni enormi per la salute dei cittadini e per l’economia del territorio le associazioni di categoria, le associazioni ambientaliste e la parte più attenta della politica locale lo hanno detto da tempo. In Italia del resto c’è un caso concreto che consente di farsi facilmente un po’ di conti, ed è la Basilicata, la regione nella quale si estrae l’80% del petrolio nazionale, l’area che era stata ottimisticamente definita il “Texas italiano”. Ebbene la Basilicata era prima delle estrazioni petrolifere e lo è ancora oggi la regione più povera d’Italia (dati Istat), ha una percentuale di morti per tumore più alta della media nazionale (dati dell’Associazione Italiana Registro Tumori), ha oltre 400 siti contaminati dalle attività estrattive (dati della Commissione Bicamerale sul Ciclo dei rifiuti), ha perso in dieci anni la metà delle sue aziende agricole (dati della Confederazione Italiana Agricoltori) mentre nella sola Val d’Agri ci sono 8.000 persone tra disoccupati e inoccupati (dati CGIL) e, a fronte di576mila abitanti “vanta” appena 143 residenti impiegati nel settore estrattivo. Tutto questo benché i petrolieri paghino per le estrazioni in Basilicata royalties tra le più basse al mondo ma comunque decisamente significative (139 milioni di euro nel 2011) rispetto al quasi nulla delle altre regioni italiane, Abruzzo compreso. Sono questi i vantaggi per i territori garantiti dalle estrazioni di idrocarburi? I posti di lavoro in realtà non sono messi a rischio dal referendum ma da una politica cieca che non sa guardare al futuro. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel corso del 2016. In Italia nell’ultimo decennio c’è stato un nettissimo calo dei consumi sia del gas (-22%) che del petrolio (-33%) mentre le rinnovabili – nonostante la politica spesso di segno opposto del Governo – hanno coperto nel 2014 il 40% del fabbisogno elettrico nazionale. Negli Stati Uniti gli impiegati nel solare sono di più di quelli delle compagnie petrolifere mentre in Italia si continuano a sostenere assurdamente anche sul piano fiscale e degli incentivi fonti fossili che dovremmo invece cominciare ad abbandonare. Il referendum darà una spinta a un Governo che continua a restare in grave ritardo rispetto alle esigenze e alle scelte del Paese. Anche perché, e le intercettazioni emerse ieri sembrano confermarlo in pieno, il petrolio non conviene alla totalità dei cittadini ma sempre e soltanto ai soliti noti…
Comitato abruzzese “Vota SÌ per fermare le trivelle”
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