Non si può parlare di diritti umani senza parlare di Palestina e non si può parlare di Palestina senza parlare di diritti umani. Lo ha fatto il 24 marzo il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc), con sede a Ginevra, approvando una risoluzione proprio su questo tema che esprime “grave preoccupazione per la continua e sistematica violazione dei diritti umani del popolo palestinese da parte di Israele, la potenza occupante”.
Le dimissioni a gennaio dell’inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi ci hanno però mostrato le difficoltà nel lavoro delle organizzazioni internazionali. L’indonesiano Makarim Wibisono ha lasciato l’incarico perché non era mai stato autorizzato da Israele a recarsi nell’area, come il suo predecessore, lo statunitense Richard Falk, giudicato di parte.
Ciò non sorprende. Va detto che sebbene in casi abominevoli come quello della famiglia Dawabsha, distrutta dall’incendio appiccato alla sua casa, siano evidenti le responsabilità individuali di coloni che mal sopportano la presenza di abitanti palestinesi nella vicinanza dei loro insediamenti illegali, il clima di impunità di cui godono le forze di occupazione e il fatto che le spedizioni punitive dei coloni vengano spesso fatte sotto gli occhi se non sotto la scorta dell’esercito israeliano, fanno sì che si possa tranquillamente parlare di discriminazioni e di violenze di uno Stato che non rispetta i diritti umani.
Le violazioni sono tante e tali che possono essere solo elencate per gruppi o categorie, a partire dagli episodi più recenti:
- Dalla metà di settembre, la repressione delle forze di occupazione israeliane ai danni della popolazione civile palestinese ha visto un tale incremento delle esecuzioni sommarie – con l’uccisione a sangue freddo di più di 200 persone, per lo più molto giovani, che non rappresentavano un pericolo reale e i cui corpi in alcuni casi non sono stati nemmeno restituiti alle famiglie – da allarmare importanti settori della comunità internazionale, altrimenti troppo spesso assuefatta alle ingiustizie commesse contro il popolo palestinese.
- Nello stesso periodo, è aumentato il numero di arresti che hanno coinvolto anche bambini, e di“detenzioni amministrative” senza processo, accompagnate da maltrattamenti e torture, tra cui spicca la nutrizione forzata imposta a chi, come il giornalista Al-Qeeq, aveva scelto insieme a tanti altri prigionieri politici palestinesi lo sciopero della fame come forma di protesta pacifica.
- Anche le demolizioni hanno subito una forte accelerazione nel corso dell’ultimo anno. Secondo uno studio commissionato dall’OLP, le forze di occupazione israeliane nel 2015 hanno distrutto 478 edifici palestinesi, tra cui case, ambulatori e siti di interesse storico. Ad essere più duramente colpite sono, da un lato, le famiglie a cui la casa è stata demolita nell’ambito della punizione collettiva con cui le forze di occupazione infieriscono sui parenti di chi è già stato eliminato come elemento pericoloso; e dall’altro, per motivi espansionistici, le comunità dei beduini nel Negev.
- Oltre ad essere uno strumento di deterrenza contro la resistenza palestinese, le demolizioni sono infatti propedeutiche all’espansione degli insediamenti, una delle forme più eclatanti di come possano essere calpestati i diritti di un popolo. A metà febbraio, il movimento israeliano Peace Now ha pubblicato il suo Rapporto annuale – relativo al 2015 – sulla situazione degli insediamenti in Cisgiordania. Il titolo del Rapporto parla chiaro: “Il 2015 negli insediamenti: nessun congelamento”, cioè nessuno stop alla costruzione di unità abitative e infrastrutture illegali.
- Il Muro è forse il simbolo più evidente della prepotenza dei successivi governi israeliani. Ricordiamo che Israele cominciò a costruire il Muro piantando cemento, recinzioni e filo spinato nel territorio della Cisgiordania occupata a partire dal giugno del 2002, al culmine della Seconda Intifada palestinese. Questa costruzione, si disse a Tel Aviv, era necessaria per motivi di sicurezza. Ma già nel 2004 la Corte Penale Internazionale (ICJ) si espresse dicendo che il Muro rappresentava una “annessione de facto” della terra palestinese, in nessun modo giustificata da motivi di sicurezza. Conseguentemente, la ICJ decretò che il Muro era illegale, chiese che fosse smantellato e intimò ad Israele di pagare ai palestinesi riparazioni adeguate, aggiungendo che tutti gli altri Stati, ed in particolare le Nazioni Unite, sarebbero dovuti intervenire contro il Muro. Stando ai dati dell’Istituto di Ricerca Applicata di Gerusalemme (ARIJ), se sarà completato secondo i piani, l’85% del Muro si troverà all’interno della Cisgiordania. Lo scorso mese di luglio, con un pronunciamento sorprendente che ne contrastava uno precedente, la Corte Suprema d’Israele ha dato il via libera alla costruzione del “Muro di Apartheid” – o di Annessione – nel tratto che attraversa la valle di Cremisan, a Nord di Betlemme. La valle rappresenta la quintessenza della Palestina biblica, “terra di ulivi e di vigne”, nonché il principale “polmone verde” per la popolazione che vive nell’area di Betlemme. Il tracciato del Muro di separazione voluto da Israele sta devastando questa zona, conosciuta come uno degli ambienti naturali più belli di tutta la Terra Santa. Per contrastare lo scempio – condannato apertamente anche dal Vaticano – si è mobilitata una vasta campagna internazionale.
- L’impatto dell’occupazione israeliana, degli insediamenti e del Muro sugli ulivi, sulla raccolta di olive e sulla società palestinese si può riassumere così: gli ulivi e le olive costituiscono da sempre la principale fonte di sostentamento del popolo palestinese. I palestinesi piantano ogni anno in Cisgiordania circa 10.000 nuovi alberi di ulivo, per lo più da olio. L’olio è il secondo prodotto di esportazione della Palestina. Ad oggi circa il 48% del terreno agricolo (soprattutto in Cisgiordania) è coltivato a ulivo. Per costruire il Muro di Separazione e le infrastrutture per gli insediamenti esclusivamente israeliani, le ruspe hanno sradicato finora più di 800.000 alberi d’ulivo mettendo a rischio la sopravvivenza di 80.000 famiglie. Ciò equivarrebbe a dissodare l’intero Central Park per ben 33 volte. Il Muro separa puntualmente i palestinesi dai loro ulivi, cosicché i coltivatori sono costretti a chiedere un permesso alle autorità israeliane per lavorare la propria terra e raccogliere le proprie olive. Incredibilmente, il 42% delle richieste ha esito negativo. Se tutto ciò non bastasse, durante la raccolta i coltivatori subiscono costanti attacchi da parte dei coloni israeliani, che danneggiano volutamente le coltivazioni e perseguitano letteralmente i coltivatori, sparando non solo in aria. Per questo si è mobilitato già da qualche anno un accompagnamento internazionale nonviolento alla raccolta delle olive organizzato dal Servizio Civile Internazionale, AssopacePalestina e Un Ponte Per. E per questo il Presidente Abu Mazen ha voluto ricordare gli ulivi palestinesi alla Conferenza dell’ONU sul Clima che si è tenuta Parigi.
- Nemmeno il diritto alla salute è così scontato per il popolo palestinese. Ricordiamo l’azione dei soldati israeliani appartenenti alla sezione “Mistaravin”, che, a fine novembre, travestiti da palestinesi, hanno fatto irruzione in un ospedale di Hebron (Cisgiordania) con le mitragliette nascoste sotto i vestiti portandosi via un uomo ricoverato e uccidendo sul posto suo cugino. E ricordiamo come l’esercito israeliano avesse già fatto irruzione nell’ospedale Makassed di Gerusalemme Est per ben tre volte, forzando l’accesso alle cartelle cliniche dei pazienti e violandone la privacy. Questa struttura sanitaria era stata ripetutamente esposta al lancio di gas lacrimogeni che avevano colpito il personale e i pazienti. Ma un trattamento simile viene riservato alla Mezzaluna Rossa Palestinese, costantemente vittima di attacchi da parte dell’esercito israeliano. Tra ottobre e dicembre, l’esercito ha compiuto almeno 277 aggressioni che hanno portato al ferimento di più di 130 paramedici e volontari, e al danneggiamento di 76 ambulanze. Inoltre, in 70 diverse occasioni è stato impedito alle squadre di soccorso di raggiungere le persone malate o ferite che avevano bisogno del loro aiuto.
- Il diritto allo studio in un luogo sicuro, sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, viene continuamente calpestato. Lo dimostra anche il fatto che le forze di occupazione israeliane stiano bloccando la costruzione di scuole e distruggendo le scuole già esistenti nei villaggi dei beduini intorno a Gerico. Lunghi e accidentati sono i percorsi che devono affrontare i giovani studenti palestinesi per raggiungere le loro scuole dai villaggi dove vivono, evitando di essere aggrediti dai coloni degli insediamenti circostanti. Terribili le vessazioni a cui vengono sottoposti questi ragazzi ai posti di blocco, come quello di Gerusalemme Est costruito ad ottobre, dove passano ogni giorno in 5.000 per raggiungere le scuole di Ras al-Amud. Il Ministero dell’Istruzione ha spiegato poi che 45 scuole della Cisgiordania sono state recentemente attaccate dalle forze armate israeliane o dai coloni, e che almeno 19 studenti sono rimasti uccisi, mentre centinaia di alunni e decine di insegnanti sono stati feriti dai proiettili rivestiti di gomma o picchiati dai soldati, soffrendo di problemi respiratori per aver inalato gas lacrimogeni. 102 studenti e 15 insegnanti sono stati arrestati o rapiti, come è avvenuto alla preside della scuola Beit al-Maqdes di Hebron, Haifa Abu Ramila, portata via da casa sua all’alba. Nel migliore dei casi, è stato impedito l’accesso a scuola degli insegnanti, facendo saltare circa 800 lezioni. Ma gli studenti universitari sono ugualmente colpiti dalle aggressioni dell’esercito israeliano. Sono già 80 gli studenti della Bir Zeit e centinaia gli studenti delle altre Università rinchiusi nelle carceri israeliane per proteste contro l’occupazione
- A partire dall’autunno 2015 si è scatenata una vera e propria guerra ai media e in particolare alle radio palestinesi. Le autorità israeliane ne hanno fatte chiudere svariate, soprattutto a Hebron, con il pretesto di presunte “istigazioni contro Israele”. Secondo il presidente di Radio Manbar al-Huriya, Ayman al-Qawasmi, che ha testimoniato come decine di soldati israeliani abbiano fatto irruzione nella sua radio interrompendo la trasmissione, confiscando e distruggendo materiale, si tratta di un tentativo di oscurare la narrazione palestinese e in particolare quella dei giornalisti che hanno documentato come Israele pianti regolarmente un coltello accanto ai palestinesi che vuole uccidere.
- La questione dei diritti dei rifugiati resta irrisolta. Come sappiamo, buona parte del popolo palestinese è stata costretta ad abbandonare la propria terra prima, durante e dopo la costruzione della Stato di Israele nel 1948, in seguito alle successive guerre che hanno man mano ridotto il territorio della Palestina storica, portando, di fatto, ad uno stato di occupazione permanente. A nulla sono valse, sin qui, le risoluzioni ONU che, a partire dalla 194 (11 dicembre 1948) sanciscono il Diritto al Ritorno: “I rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo il prima possibile, e un risarcimento dovrebbe essere pagato per le proprietà di coloro che scelgono di non ritornare, così come per la perdita o i danni alle loro proprietà”. Sono passati quasi 70 anni, la perdita di terre e proprietà è cresciuta a misura dell’’espansione territoriale di Israele, e non solo il principio del Diritto al Ritorno è rimasto disatteso, ma le condizioni in cui vivono molti rifugiati sono andate peggiorando. Ad oggi, i rifugiati palestinesi sono 7 milioni, la maggior parte dei quali vive a non più di 100 Km dal confine con Israele. Per lo più assistiti dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), questi rifugiati si sono visti ridurre di anno in anno i servizi prestati dall’agenzia ONU.
- Molti dei rifugiati si trovano a Gaza, che però rappresenta una prigione a cielo aperto per tutti coloro che la abitano. Il blocco della striscia di Gaza è un esempio di punizione collettiva e costante del popolo palestinese, a cui si aggiungono azioni violente ricorrenti che per via del blocco assumono connotati ancora più tragici. Gaza è stata distrutta dai raid israeliani dell’estate del 2014 che non hanno risparmiato le strutture sanitarie. Sono circa 17mila le persone ancora in attesa di cure. Oltre all’impossibilità di svolgere liberamente qualsiasi attività di sostentamento a cominciare dalla pesca, e in aggiunta al costante isolamento che vede migliaia di giovani nella necessità di uscire dalla Striscia per completare i propri studi, gli abitanti di Gaza sono costretti a vivere tra le macerie. La ricostruzione più che lenta è ferma. I soldi promessi all’indomani degli oltre 50 giorni di bombardamenti indiscriminati sull’enclave sono arrivati soltanto in parte, in una percentuale bassa e insufficiente a ricostruire le case degli abitanti di Gaza.
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