“Arrendersi o perire!”. Era questo motto a spingere i partigiani verso la definitiva cacciata di tedeschi e fascisti dall’Italia, il 25 aprile 1945.
In un Paese impoverito e dilaniato dalla guerra civile iniziata l’8 settembre 1943– data in cui venne firmato l’armistizio di Cassibile, con cui l’Italia si arrendeva alle forze alleate e che diede inizio all’occupazione tedesca-, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. Significava attaccare e attaccare ancora, fino a che gli occupanti non fossero ripiegati. Entro pochi giorni tutta la Penisola venne liberata, diversi giorni prima dell’arrivo delle forze alleate.
L’anno successivo, era il 1946, il 25 aprile venne dichiarato giorno di festa nazionale.
Questa mattina il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha deposto una corona di alloro commemorativa all’Altare della Patria.
Il 25 aprile è considerato non solo il termine della Seconda Guerra Mondiale per l’Italia, ma anche il punto di rinascita per il Paese. Da lì l’Italia ripartì verso un futuro democratico e di pace, fondato sulla Costituzione (entrata in vigore il Primo gennaio 1948). Tanti i versi e le parole dedicate da poeti e intellettuali alla Resistenza e alla Liberazione, con un solo scopo: non dimenticare, mai.
Piero Calamandrei, intellettuale e tra i fondatori del Partito d’Azione, così si rivolse agli studenti milanesi, nel 1955: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione,andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”. (Dire)
Questi i versi di Giuseppe Ungaretti, intitolati ‘Per i morti della resistenza’:
Qui vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti li avessero aperti
per sempre alla luce.
Infine, ecco ‘Alle fronde dei salici’, di Salvatore Quasimodo:
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
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