Si deve essere trovata di fronte a un dilemma, B’Tselem, una delle più note organizzazioni per i diritti umani israeliane, da anni punto di riferimento sia per i palestinesi vittime delle violenze israeliane che per gli attivisti internazionali: continuare a rivolgersi alle corti israeliane per difendere le vittime palestinesi o tirarsi completamente fuori da un sistema “moralmente inaccettabile”? La prima strada, perseguita per molto tempo, non solo si è rivelata inefficace, ma ha prodotto il senso di frustrazione che prova chi teme, rivolgendosi a un carnefice, di legittimarlo rendendosene addirittura complice.
La seconda è quella che B’Tselem si è decisa a intraprendere in questi giorni, come si legge dal comunicato stampa di mercoledì 25 maggio: “L’organizzazione non intende assistere le autorità nel loro tentativo di creare un’immagine falsa di giustizia. B’Tselem ha deciso di non fare più riferimento al sistema giudiziario militare. Questa decisione si applica anche nei casi di soldati sospettati di aver violato la legge, anche se non ci sarà più nessuno a difendere di fronte ai tribunali le vittime palestinesi”.
Dopo 25 anni di lavoro di denuncia durante i quali B’Tselem si è presentata – dati alla mano – di fronte alle corti israeliane con casi singoli o collettivi, l’associazione ha deciso di smetterla, sostenendo che la giustizia israeliana sia una “macchina che lava” e ripulisce i 50 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania: “B’Tselem è gradualmente arrivata a capire che il modo in cui il sistema militare giudiziario funziona impedisce di ottenere giustizia per le vittime. Il fatto stesso che il sistema esista serve a dare una copertura di legge e giustizia”. L’esistenza di un sistema giudiziario e di legge, dice B’Tselem, sostiene la narrativa israeliana secondo la quale non si può negare la natura democratica dello Stato se un meccanismo simile opera e giudica.
A monte della decisione stanno i numeri. Dall’inizio della Seconda Intifada, nel 2000, B’Tselem ha presentato 739 denunce per uccisioni, ferimenti e danneggiamento di proprietà palestinesi: in 182 casi – quasi il 25% – i militari non hanno proprio aperto un’inchiesta, nemmeno di fronte a uccisioni giustificate, secondo loro, da “situazioni di combattimento”; in quasi la metà dei casi (343), l’inchiesta è stata aperta ma anche chiusa senza nessuna conseguenza. Solo in 25 casi (pari al 3%), i soldati sono stati effettivamente accusati di un reato.
Per questo il sistema giudiziario israeliano può permettersi ogni tanto di prendersela con i gradi più bassi dell’esercito e di parlare, eventualmente, di “aberrazioni”. Per lo stesso motivo, B’Tselem è convinta di dover interrompere le proprie attività: il tentativo di convincere i palestinesi a fidarsi della legge, di creare nella comunità la fiducia nel sistema giudiziario quando si è di fronte ad una violazione palese dei diritti umani, è fallito.
Al contrario, la stessa associazione si sente colpevole di aver sostenuto questo sistema, come spiega Karim Jubran, Direttore delle ricerche sul campo di B’Tselem: “Mi vergogno”, ha detto; come si vergogna il suo collega Yael Stein, che ha aggiunto: “Siamo diventati appaltatori dell’occupazione – – legittimando l’occupante”.
L’organizzazione continuerà comunque a documentare gli effetti devastanti dell’occupazione producendo i suoi Rapporti sui diritti umani.
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