Il 23 giugno scorso la Gran Bretagna ha votato in maggioranza per l’uscita dall’Unione Europea ed è la prima volta che uno Stato abbandona il progetto di integrazione continentale.
Il fatto non sorprende più di tanto poiché, come scrivono il Wall Street ed altri giornali, non fa altro che sancire una chiusura definitiva dell’Isola di Sua Maestà verso un’istituzione mai troppo amata, con uno scarso feeling sempre sottolineato dalla mancata adesione all’Euro da parte della Gran Bretagna stessa.
Ma, nonostante il poco amore verso l’UE, non è però così facile per il Governo Cameron pilotare questa uscita, tanto è vero che il premier ha tenuto prima del referendum un atteggiamento che gli antieuropeisti hanno definito non netto e preciso ed anzi, al contrario, di essere proprio lui il primo a nutrire forti dubbi sul Brexit. D’altra parte, Euro o non Euro, far parte dell’UE ha permesso alla Gran Bretagna di non rimanere isolata rispetto decisioni importanti in materia di economia e geopolitica.
La notizia della vittoria di “Brexit” ha causato un crollo della sterlina sul dollaro, con perdite oltre il 10 per cento, le più alte degli ultimi 30 anni e, nel giorno della vittoria degli antieuropeisti inglesi, le principali borse europee hanno avuto perdite consistenti a causa delle incertezze sui mercati: Milano ha chiuso a -12,48 per cento, il suo peggior risultato degli ultimi decenni.
La seduta della borsa di Londra si è chiusa a -3,15 e il direttore della Banca centrale britannica, Mark Carney, ha tenuto una conferenza stampa per rassicurare i mercati e promettere fino a 250 miliardi di sterline in interventi per stabilizzare l’economia britannica nelle prossime settimane.
Inoltre, un recentissimo documento (pubblicato appena prima del referendum), a firma di Michael Grubb (professore di politiche energetiche internazionali presso UCL Institute of Sustainable Resources) e Stephen Tindale, direttore dell’Alvin Weinberg Foundation, avverte di conseguenze invece negative ci dice che l’uscita causerà in Gran Bretagna un rallentamento degli investimenti per nuove infrastrutture e anche una frenata nello sviluppo delle fonti rinnovabili (l’UE, infatti, con ogni probabilità non avrebbe più alcun interesse a “premere” su Londra per il raggiungimento degli obiettivi in tal senso al 2020).
Inoltre, sul versante elettrico, il quadro rischia di essere molto complicato, poiché la Gran Bretagna importa una piccola frazione di elettricità, pari al 6,5% circa dei suoi consumi nazionali, l’ostacolo più rilevante è di tipo fisico, perché la capacità d’interconnessione tra il Regno Unito e l’Europa continentale è tuttora sottodimensionata.
Non a caso, National Grid (l’equivalente inglese della nostra Terna) vorrebbe raddoppiare questa capacità, stimando benefici nell’ordine di 500 milioni di sterline l’anno grazie a un incremento delle importazioni elettriche.
Altrimenti l’Inghilterra rischia di diventare un’energy-island, cioè un’isola energetica dove gli scambi con l’esterno sono limitati.
Se per il gas Londra potrebbe rimediare facendo arrivare più combustibile liquefatto via nave, nel campo della generazione elettrica è impensabile affidarsi a importazioni che non siano provenienti dai Paesi più vicini.
La costruzione di nuovi impianti di generazione in Gran Bretagna (parchi eolici offshore, centrali a gas e anche reattori nucleari), in buona sostanza, dovrà andare di pari passo con un potenziamento delle reti elettriche transnazionali.
Ma per realizzare i nuovi interconnettori, come evidenzia il documento redatto da Grubb e Tindale, servono accordi bilaterali e un notevole livello di cooperazione tra i paesi coinvolti e la Brexit potrebbe rallentare parecchio gli investimenti o anche bloccarli del tutto.
Nella peggiore delle ipotesi, cioè la fuoriuscita inglese dall’area economica europea (i cui paesi membri, è bene ricordare, devono comunque seguire le regole UE in tema di energia), i progetti inglesi come la prevista rete del Mare del Nord, perderanno i fondi europei.
Altre conseguenze si potrebbero avere nel settore farmaceutico, poiché, come scrive a freddo in una nota del 24 giugno Massimo Scaccabarozzi presidente di Farmindustria, Londra dovrà anche dare continuità all’impegno e agli investimenti delle imprese del farmaco ed anche se le Istituzioni britanniche e quelle europee sapranno individuare in tempi brevi le giuste soluzioni, certamente la Gran Bretagna si troverà per un certo lasso di tempo a mal partito e, per una volta, minacciata da altre nazioni fino a ieri considerati “minori”.
A tal proposito (e questo ci fa molto piacere), Scaccabarozzi ribadisce che in questa difficile pagina di storia, l’Italia ha le carte in regola per ospitare in futuro la sede dell’European Medicines Agency, “A nostro favore – conferma Scaccabarozzi – giocano importanti fattori. L’industria farmaceutica made in Italy è ormai una realtà 4.0 di primo piano in Europa. Siamo secondi per produzione a un’incollatura dalla Germania, ma primi per valore pro-capite e con un export da record che supera il 70% della produzione, con investimenti in crescita (+15% negli ultimi due anni) e ad un passo dal diventare un hub europeo per la ricerca, anche clinica, con investimenti di 1,4 miliardi.
L’Italia può poi contare su un’Agenzia del farmaco (Aifa) riconosciuta a livello internazionale come modello di best practice per l’innovatività delle modalità di accesso ai farmaci.
Un effetto negativo italiano, invece, secondo il filosofo Cacciari, il Brexit l’avrà sul Governo Renzi.
In una intervista sull’Unità il filosofo dice: “Questo voto inglese è il sintomo di una crisi che viene da lontano, non mi sorprende più di tanto” e il “caos europeo avrà delle ripercussioni anche su di noi, certamente. A partire dal referendum di ottobre. Parliamoci chiaro: il voto inglese è un favore ai sostenitori del No perché per molti aspetti va nel senso della contestazione, della disgregazione”; e di fatto “gli inglesi hanno indebolito anche la leadership italiana nel momento in cui hanno dato un colpo all’Europa”.
Rispondendo alla domanda del giornalista, Cacciari afferma che, in caso di sconfitta al referendum, Renzi “volente o nolente dovrebbe andar via, certo”.
Il motivo è che “sarebbe troppo debole per continuare. E sarebbe il caos italiano. Anzi, una situazione molto più incasinata di quella della Gran Bretagna. Un caos italiano dentro un caos europeo. Dio ci salvi”.
E’ sempre Cacciari che, su “Le interviste della Civetta” afferma che il vero punto è che o l’Europa, senza fughe in avanti, ridiscuta tutte le sue politiche, rimettendo mano ai suo diversi Trattati e cominci un’Europa sociale, opposta a quella della Grecia, in modo che i cittadini europei avvertono il cambiamento e comincino a pensare, come pensavano venti anni, fa fino all’euro, o scapperanno tutti.
In effetti uno dei principali effetti del Brexit riguarda il fatto che un certo tipo di “racconto” dell’Unione Europea non funzioni più e che questo voto, cavalcato, strumentalizzato e non capito, ha partorito scenari deteriori; perché, evidentemente, ha fatto capire che è l’Unione Europea da riformare profondamente, da ripensare, da trasformare in un’istituzione trasparente e davvero orientata alla giustizia sociale, anziché alla schiavitù nei confronti dei mercati. E questo è un effetto certamente propositivo.
Tornando all’Inghilterra, va detto che il Paese è nel totale sbalordimento, c’è chi chiede una secessione scozzese, chi propone un’annessione dell’Irlanda del Nord all’Irlanda, anche molti londinesi stanno esprimendo la loro insofferenza e chiedono che la capitale se ne vada per la sua strada, diventando una “città Stato”. Non va dimenticato a questo proposito che non è stata Londra a far vincere la Brexit, bensì l’Inghilterra più profonda, rurale e conservatrice: il “Remain”, a Londra ha stravinto (2,2 milioni rispetto a 1,5 milioniI i “Leave”, coloro che volevano restare.
Un altro effetto internazionale negativo e che Brexit potrebbe spingere altri paesi a muoversi sulla stessa direzione; soprattutto quei paesi che alcuni europeisti chiamano “sanguisughe” perché necessitano dei fondi Ue per andare avanti, come, ad esempio, Polonia ed Ungheria. In questo modo si rafforzerebbe l’idea di UE solo economica della Germania, ma si assisterebbe ad una capitolazioni degli assunti innovativi e sociali sostenuti da Cacciari ed altri.
Di questo Camerun è ben conscio ed è ben felice che la raccolta di firme per un referendum bis sia giunta in poche ore a 2 milioni.
Ora, secondo l’ANSA ed altre agenzie di stampa, appare molto improbabile l’organizzazione di un nuovo referendum sulla Brexit come chiesto dai firmatari della petizione, ma esiste un doppio precedente nell’Unione europea.
In Irlanda la ratifica dei trattati Ue di Nizza e di Lisbona è stata realizzata in due tempi, organizzando un secondo referendum, con risultati positivi, dopo la bocciatura di una prima consultazione popolare.
Il 7 giugno 2001 i no al Trattato di Nizza furono il 53,87% contro il 46,13%. L’anno successivo, il 19 ottobre 2002 il 53,65% degli irlandesi dette invece via libera al Trattato (contrari il 46,13%), dopo qualche leggera modifica, in un secondo referendum.
Il 12 giugno 2008, ancora una volta gli irlandesi, 53,4% contro 46,6%, dicono di no ad nuovo Trattato europeo, quello di Lisbona.
Eppure il nuovo Trattato prospettava una cessione di sovranità inferiore a quella prevista dal Trattato di Nizza, bocciato definitivamente nel 2005 dal ‘no’ ai referendum di ratifica di Francia e Paesi Bassi, mettendo la parola fine al progetto di dotare l’Unione di una Costituzione europea.
Si rivotò l’anno successivo, anche questa volta dopo alcune leggere modifiche, il 2 ottobre 2009: 61,5% di sì, 28,5% di no.
Una curiosità infine: persi i referendum sul Trattato di Nizza, Francia e Olanda decisero di non prendere rischi per la fase successiva e il trattato di Lisbona venne ratificato per via parlamentare in ambedue in paesi nel 2008.
Staremo a vedere come si muoverà il governo Cameron. I tempi previsti sono comunque lunghi e si parla di un paio di anni, prima che sia completata l’operazione. Le autorità europee si sono inoltre impegnate a fare tutto il possibile per mantenere tutti gli altri 27 paesi dentro l’Unione.
Come ha scritto su Il Sole 24 Ore Joschka Ficher, dopo il Brexit, al pari dei britannici, molti altri abitanti dell’Europa continentale si chiedono se l’unione politica e le regolamentazioni transnazionali varate dalle istituzioni con sede a Bruxelles siano davvero necessarie.
Non sarebbe sufficiente una confederazione meno rigida di stati nazione sovrani, disposta ad avere in comune il cuore economico di un mercato comune continentale – il modello britannico? Perché prendersi la briga di una complicatissima integrazione che include il trattato di Schengen, l’unione monetaria, le regolamentazioni dell’Ue, che in definitiva non funzionano nemmeno bene e indeboliscono soltanto la competitività globale degli stati membri?
Dopo Brexit gli interessi economici sono stati predominanti nel sostenere il progredire dell’Ue, ma l’idea di unire l’Europa chiaramente deve trascendere la mera unificazione economica. Essa era ed è tuttora legata al fatto di superare la frammentazione europea tramite un processo di integrazione che inizia con l’economia e si conclude nell’integrazione politica. Winston Churchill lo sapeva bene, come si deduce chiaramente dal discorso che tenne a Zurigo nel 1946 – e che varrebbe proprio la pena di rileggere oggi – nel quale auspicava la creazione degli “Stati Uniti d’Europa”.
Carlo Di Stanislao
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