“Non è una guida. Però ci troverete lo stesso luoghi da vedere, ristoranti, alberghi, botteghe e cantine. Non è un romanzo. Però ci troverete lo stesso emozioni, passioni, meraviglia. Qualche volta un filo di luce, un mare argentato, le ombre di un campanile, il blu della notte. Il profumo di un vino. La seduzione di un piatto”. Così Giacomo Pilati presenta “Morsi d’Italia. Il Bello e il Buono:itinerari sentimentali del gusto” pubblicato con Tarka: un insieme di reportage realizzati dall’autore per diverse riviste. L’intervista.
In che cosa è consistita la rielaborazione degli articoli pubblicati su varie riviste?
Ho cercato di rimettere in discussione le mie emozioni. I viaggi che ho compiuto fra i confini del Paese sono un elastico della memoria che non tollera discrezione. Abbraccia le suggestioni e svela sensazioni che appartengono agli occhi, al cuore e alla mente. Ho rivisto i miei articoli di viaggio scritti per giornali come Qui Touring, Gente Viaggi, Anna, La Madia. E quelli che mi sono rimasti attaccati alla pelle ho deciso di metterli insieme. Per disegnare una mappa del cuore che ha a che fare con le fontanelle immobili delle stazioni e con i profumi delle stradine sospese fra il cielo e il mare.
Definisce il libro “un viaggio”: però è allo stesso tempo una guida e un romanzo. Quale approccio consiglia a chi si accinge a leggerlo?
Un approccio sentimentale. Coi sensi aperti per fare entrare dentro le cose che mi hanno stupito, le cose che non avevo mai visto, le cose che mi hanno fatto sgranare gli occhi. È un viaggio, di quelli che servono a costruire un modo per vivere, uno strumento per comprendere gli altri attraverso le pietre. Un itinerario che appartiene al vissuto, al prima di noi, all’universo invisibile dei sogni che ci portiamo dietro da chissà quante generazioni.
La sua idea e percezione del viaggio è cambiata lungo gli itinerari di “Morsi d’Italia”?
Sì, il viaggio oggi per me è una esperienza incastonata nella memoria. Non c’entrano le valige e le guide. Qui di mezzo ci sono le immagini che ognuno ha dentro di sè, le storie che rimangono fra le dita. Un viaggio attraverso un’Italia per caso, scelta con gli occhi curiosi di chi scrive. Per non perdersi nulla. Per incantarsi di fronte alle cose nuove. E qualche volta anche sconosciute. Senza piantine, strade e numeri civici. Con gli occhi sgranati, i sensi aperti, il taccuino pieno di note. Sguardi, incontri, una infinità di gente. Una geografia sentimentale. Con la palpitazione della scoperta a suggerire itinerari e cammini.
Su quali luoghi e città si è particolarmente ricreduto visitandoli personalmente?
Mi hanno affascinato le Marche. Il Conero, i Monti Azzurri, ma anche Pesaro, Urbino. Città lontane dalle grandi mete, eppure ricche di straordinarie risorse artistiche, culturali e gastronomiche.
Immagini, gusti, luoghi scoperti: c’è una sensazione che attraversa e unisce le esperienze vissute?
Ho iniziato a viaggiare che avevo un anno, o poco più. Minuscoli frammenti, e un pensierino che assomiglia alla felicità: un cancello, una bambina con le trecce bionde bella come un angelo, un triciclo rosso di ferro lasciato in mezzo a un cortile, un’altalena vuota col tetto azzurro, gli alberi grandi quanto i giganti, e mio padre che mi prende in braccio e mi fa volare e mi gira tutta la testa. Ho nel naso l’odore del brodo dell’albergo, e quello delle lasagne, il lacerto coi piselli, il budino e la torta al cioccolato la domenica. Recoaro, Montecatini, non so. Forse è per questo che ho cercato in tutti i miei reportage di ritrovare quel senso, quell’unica tessera che mi era sembrata così vicina alla felicità.
Il primo “morso” che le viene subito in mente…?
Ponza. Un pezzo di terra perso fra il Lazio, la Campania e l’Africa. Un sistema di rocce che spezza il fiato e fa restare per un poco in silenzio.
Il ringraziamento ai “lentissimi” treni delle Ferrovie dello Stato può essere interpretato ironicamente…
Assolutamente sì. Viaggi che hanno rimandi temporali. Lo spazio che si poggia sul tempo e lo sublima e lo fa diventare parola. È stata una maledizione, ma anche una fortuna. Ho visto i giardinetti malinconici dei paesi passarmi davanti agli occhi come un quadro sfocato, eppure chiaro nelle linee generali. Paesi imbalsamati, fermi come quelli delle cartoline dell’intervallo alla televisione negli anni Settanta. Con l’arpa a suonare l’immobilismo di un paesaggio senza coraggio. Con le case senza prospetto, i campetti di calcio spelacchiati, e i motorini coi manubri attaccati ai passaggi a livello. Ho visto pastori fermarsi davanti ai treni e restare con lo sguardo impietrito su tutto quell’acciaio che come una saetta bucava i loro sogni, le loro praterie; irredimibili entrambi. Ho incontrato sui vagoni di mezza Italia migliaia di persone, italiani lì per caso, stretti in uno scompartimento per diverse ore, obbligati a condividere fuliggini e olezzi, a dirsi cose che non stanno sui giornali e non fanno opinione perché appartengono alla normalità, agli amori e agli odi quotidiani. Quel “tanto non cambia mai nulla” che ha unito nel fatalismo generazioni e geografia. Coi gomiti appoggiati a braccioli unti e sdruciti ho letto decine di libri, corretto manoscritti, inventato e distrutto storie. Ho cominciato a scrivere un romanzo che ero nella sala d’aspetto della stazione di Falconara; un altro l’ho finito mentre fuori il treno era fermo davanti al Bar dei ferrovieri di Paola e la gente giù rumoreggiava per il ritardo della coincidenza per Maratea.
Anche quest’anno sarà presidente di giuria del premio letterario “Kaos”: perché? Anche “Kaos” può essere considerato una sorta di viaggio?
Kaos è un viaggio in mezzo alle storie. Un mondo sommerso che si accelera e diventa vetrina, Una esposizione improvvisa di virgole, punti. Frasi. Una magia che non si ferma e che colpisce ciascuno di noi.
Giovanni Zambito
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