A dispetto di chi parla di un paese in fase di ripresa economica e di tutti coloro che guardano alla realtà con un ottimismo spesso ben lontano dai fatti la povertà torna a reclamare lo spazio che le compete, forte di dati difficili da smentire e soprattutto di una situazione nel suo complesso molto più fosca da quanto non si creda.
Vero è che un argomento del genere, che in una società ipertecnologica ha il sapore di un tuffo in un passato remoto, può provocare sconcerto spesso unito ad un mal dissimulato senso di fastidio, e tuttavia l’indigenza è oramai una componente a tutti gli effetti del nostro vivere quotidiano, ragion per cui prenderne atto può costituire il primo passo per una valutazione critica del problema.
E che un argomento del genere sia effettivamente scomodo da affrontare è dimostrato dalla sostanziale noncuranza dei media, poco propensi a discuterne e ad offrirne un quadro esaustivo che vada al di là delle solite dichiarazioni di facciata, ciononostante le statistiche si dimostrano ancora una volta più forti dell’indifferenza ed è su di esse che siamo chiamati a riflettere e, se possibile, ad agire.
Secondo dunque una recentissima indagine compiuta dall’ufficio studi di Confcommercio, volta di fatto a tracciare un quadro sinottico di almeno otto anni di crisi, le famiglie in condizione di povertà assoluta nel suddetto periodo sono quasi raddoppiate, con un incremento del 78,5% ed una incidenza sul totale passata dal 3,5% pre-recessione al 5,7% del 2014, ed infatti se queste ultime nel 2007 erano circa 823.000 nel 2014 sono salite a quasi un milione e mezzo; inoltre nello stesso lasso di tempo il reddito disponibile si è ridotto di oltre il 10% e la spesa delle famiglie di sette punti percentuali, con una contrazione superiore al 12% per quel che concerne la spesa alimentare. Questi dati, che segnalano una situazione di assoluta criticità tale da condizionare pesantemente abitudini e modelli di consumo, si saldano alla perfezione a quelli forniti due anni fa dalla Lega dei consumatori, che agli inizi del 2014 segnalavano in 8.078.000 le persone residenti in Italia che versavano in condizioni di difficoltà economica estrema, una cifra equivalente grosso modo al 13,6% della popolazione ed all’11% del totale dei nuclei familiari; incredibile poi la sproporzione tra Nord e Centro-Sud, là dove nel Mezzogiorno la percentuale di persone prossime alla soglia di povertà sfiora il 25%, una cifra cinque volte superiore al resto del paese e che dimostra come la crisi si sia particolarmente accanita nei confronti di aree già tradizionalmente a disagio e come tali scarsamente attrezzate ad affrontare situazioni di emergenza.
L’impiego di simili statistiche potrà apparire strano al lettore ma, al di là della inoppugnabilità delle cifre, la cui valenza ha ben altro spessore e dignità rispetto agli sproloqui del politico di turno, sono proprio i numeri ed il loro “linguaggio” stringato a delineare con assoluta nitidezza le dimensioni del problema, dimostrando altresì come l’argomento in questione proprio per la sua incidenza sul vivere quotidiano sia oramai parte integrante della moderna economia, e vada dunque esaminato di conseguenza. L’utilizzo di parametri economici permette in tal modo di affrontare la “questione povertà” con precisione pressoché assoluta, monitorandola sia a livello locale che nazionale ed offrendo a tutti coloro che vi abbiano un minimo interesse gli strumenti necessari per capirne di più e per discuterne con la dovuta competenza, tuttavia un minimo di precisazione si impone.
Di assoluto rilievo, al riguardo, è la distinzione tra povertà assoluta e povertà relativa, due termini squisitamente convenzionali eppure entrati a far parte del linguaggio degli economisti, e che testimoniano come il dramma della indigenza abbia svariate sfaccettature ed indici di riferimento (tra cui spicca quello geografico) tali da generare un campionario di situazioni, il cui comune denominatore è l’impossibilità o la difficoltà più o meno evidente di fare fronte ai più comuni bisogni quotidiani.
La povertà assoluta è così riconducibile in termini stringati alla nozione di “miseria nera”, cioè ad una situazione individuale o familiare in cui le criticità di ordine economico sono talmente gravi da impedire l’accesso ai beni e servizi di uso comune, il soddisfacimento dei bisogni primari ad iniziare da quelli di tipo nutrizionale ed in generale di tutto ciò che permetta di condurre una esistenza degna di questo nome; la povertà assoluta, colpendo necessità ineludibili quali cibo, vestiario, alloggio, salute ed igiene pone così in pericolo l’esistenza stessa dell’individuo, estromettendolo dalle relazioni affettive e collocandolo di fatto al di fuori della società o in una posizione talmente residuale da mortificarne dignità ed aspettative.
Per altro verso, la nozione in esame assume rilievo perché permette di distinguere i poveri da coloro che tali non sono, ma che potrebbero diventarlo, il che rende molto labile la linea di demarcazione dalla povertà relativa, ed in effetti tra coloro che possono essere definiti “poveri assoluti” abbondano i neodisoccupati, persone dunque che a causa della perdita del lavoro sono passate, spesso senza accorgersene, da un tenore di vita dignitoso ad una esistenza fatta di sole privazioni; questo aspetto, spesso trascurato anche da coloro che si occupano di simili problematiche, riveste un’importanza decisiva in quanto consente di stabilire un nesso eziologico inconfutabile tra l’avanzata della povertà assoluta e la crisi esplosa grosso modo intorno al 2008, là dove la gravità di quest’ultima, vergognosamente sottovalutata dalla classe politica dell’epoca, è confermata proprio dalla sua incidenza sulla miseria e sull’aumentare vertiginoso dei poveri totali.
Fuor da ogni dubbio, le cause che possono far precipitare l’individuo nel baratro dell’indigenza assoluta sono molteplici e spesso collegate tra di loro, in particolare la perdita del lavoro e della conseguente retribuzione, una esposizione debitoria divenuta nel corso del tempo insostenibile, e questo è il caso di molti autonomi, e, da ultimo, una errata programmazione degli investimenti e in senso lato delle scelte economiche, nondimeno tutte queste situazioni sono state accentuate fino al parossismo dalla grande crisi datata 2008 e dal sostanziale fallimento di un intero sistema politico e finanziario, un fallimento di cui, è opportuno sottolinearlo, i poteri forti non si sono assunti alcuna responsabilità.
La gravità del problema, il che lo rende di estremo interesse in termini di una disamina squisitamente economica, discende in ogni caso dalle sue innumerevoli sfaccettature, un coacervo di situazioni che spiegano come i tentativi di arginare questa forma di indigenza risultino spesso e volentieri inefficaci; indubbiamente è povero assoluto colui che è privo di occupazione e quindi del reddito che ne consegue, o le cui condizioni lavorative sono peggiorate a tal punto da rendere problematico il soddisfacimento dei più elementari bisogni, ma lo sono altrettanto, anche se il fenomeno è meno appariscente, tutti coloro che vivono senza una abitazione.
Al riguardo, le cifre forniteci dall’Istat ci informano che nel 2014 erano oltre cinquantamila le persone senza dimora che, con l’arrivo dell’inverno, hanno usufruito di un servizio mensa e di accoglienza notturna; il grosso di loro è concentrato nel Nord Italia anche se i senza tetto del Sud sono in costante aumento ed hanno superato l’11% del totale e, altro aspetto interessante, l’ottantacinque per cento circa è composto da uomini.
Poveri assoluti e relativi sono accomunati certamente dall’esclusione sociale o dal rischio più o meno accentuato di essere relegati in una posizione marginale, il che rende estremamente difficile alzare la voce e reclamare istanze e diritti, tuttavia i primi se la passano molto peggio dei secondi tant’è che una famiglia di due persone è stimata in condizioni di povertà relativa se la spesa mensile pro capite risulta inferiore a poco più di 1000 euro mensili, cifra corrispondente alla soglia di povertà relativa; i nuclei familiari che versano in una condizione di povertà assoluta invece non riescono a condurre un tenore di vita “minimamente accettabile”, il che rende quanto mai problematico l’accesso a beni e servizi ritenuti essenziali e l’impossibilità di goderne con un minimo di continuità.
I concetti di “soglia di povertà assoluta” e “soglia di povertà relativa” sottolineano una volta di più come la scienza economica, stante anche il fallimento dell’attuale classe politica, abbia tutti i requisiti per occuparsi in concreto del dramma della povertà, ed in effetti un elevato numero di cittadini in condizioni di difficoltà più o meno esplicita pone una pesantissima ipoteca sugli scenari economici di un qualunque paese, condizionandone altresì le politiche sociali e le scelte che ne conseguono.
Queste ultime, per quel che concerne l’Italia, non risultano particolarmente brillanti, se è vero che da noi si spende meno rispetto alla media europea per la protezione ed il sostegno dei nuclei di popolazione “debole”, tra cui rientrano a tutti gli effetti anche le famiglie che versano in condizioni di indigenza; la stessa Banca d’Italia, in un recentissimo intervento sul tema, ha preso atto che nel nostro paese non esiste ancora uno strumento di sicura efficacia che consenta di contrastare la povertà e, al contempo, di fornire valide risposte alle famiglie che fanno fatica a far quadrare i propri bilanci.
L’Istituto centrale ha auspicato che alla lotta contro la povertà si possa destinare un ammontare non trascurabile di risorse, ricavabili anche da una più convinta redistribuzione a livello reddituale e da interventi che ci pongano al passo con i principali paesi europei, e tuttavia il problema in questione permane in tutta la sua gravità, alimentando sofferenze e riducendo le sue vittime al rango di perfetti quanto sconosciuti emarginati.
Giuseppe Di Braccio
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