Anche se non lo dicono i giornalisti ed i critici italiani, lo scrivono gli americani: il festival di Venezia ha riacquistato un ruolo centrale, anzi centralissimo, nel mondo del cinema.
E lo dimostrano i fatti: sono tre i film che in passato hanno aperto il festival e poi vinto l’Oscar. Quest’anno — le scommesse fioccano — sarà poker, con il quarto. Perché Birdman, Gravity e Il caso Spotlight — i tre premi Oscar appunto, presentati in anteprima mondiale alla rassegna veneta sono un fatto e probabilmente sarà poker con il musical “La la land” di Damien Chazelle, che ha certificato il ruolo strategico della rassegna.
Una rassegna bella ed interessante, incentrata sui documentari ed i recuperi inediti, ma anche sul cinema leggero, ma non per questo meno ben fatto, secondo quello che viene ormai chiamato il “ Venice Production Bridge”.
Il vero problema sono le infrastrutture. I contenuti hanno fatto tornare gli americani, ma non è nelle mani della Biennale far rivivere l’Hotel des Bains, la cui chiusura è stato un danno gravissimo per la Mostra del cinema, privata di uno dei sui luoghi mitici.
Difficile spiegare come un tale monumento non riesca a uscire dalle secche di uno stallo quasi decennale.
E, ancora, la novità della Sala Cinema nel Giardino, sorta in fretta e furia per chiudere il buco del mai nato nuovo Palazzo.
Qualcuno dice che i film presentati sono di modesto livello; ma non è così. Modesto è il sostegno mediatico al Festival, con pochi servizi e di pochissimi minuti sulle grandi reti nazionali.
Tre i film italiani in concorso, film molto diversi fra loro per genere e contenuto.
Per primo è stato presentato “Spira mirabilis”, filmato a quattro mani da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un documentario che è video-arte, che, fin dal titolo, fa riferimento alla formula logaritmica definita dal matematico Bernoulli, una spirale meravigliosa il cui raggio cresce ruotando e la cui curva si avvolge attorno al polo senza raggiungerlo mai. Un simbolo di infinito, di perfezione che nelle intenzioni degli autori ben rappresenta lo sforzo degli uomini migliori di lasciare un segno di sé attraverso la cura dell’operosità quotidiana. Il tutto declinato secondo i quattro elementi fondamentali.
C’è stato poi il più leggero “Piuma”, di Roan Johnson, una commedia su una coppia di maturandi che scopre, proprio alla vigilia dell’esame, di aspettare un figlio.
Quello con maggiori speranze di successo è senza dubbio il terzo: “Questi giorni” di Giuseppe Piccioni, presentato oggi dove si raccontano le piccole cose, come fa Piccioni, in questo caso attraverso il viaggio di quattro giovani amiche che dovrebbe sugellare per sempre il loro rapporto e che invece segnerà l’inizio di un cambiamento. Le promesse di una giovinezza senza limiti che improvvisamente ci si ritrova alle spalle. Delicato, profondo. Con quattro attrici semisconosciute che Piccioni fa vibrare come strumenti musicali.
Parlando sempre di cinema italiano, ma fuori concorso, le prime due puntate della miniserie “Il papa giovane”, di Paolo Sorrentino, che andrà in onda in ottobre in Europa e in America (Sky Atlantic, HBO e Canal+) e dove Sorrentino gioca col clero, svestendolo della sua sacralità, con l’ironia con cui aveva già punteggiato La grande bellezza (2013): le suore lì giocavano a pallavolo, qui a calcio. Mostra i lati comici di certa ritualità – non solo l’abito talare è immacolato, ma anche le infradito – , mentre il gran burattinaio del Vaticano, il cardinal Voiello (Silvio Orlando), è un battutista funambolico.
Abilissima, al solito, la mano registica, eccellente la fotografia (Luca Bigazzi), filologici i costumi (Barbara Adducci).
La questione fideistica è stata centrale al Lido quest’anno.
Ad esempio con, a metà kermesse ed in concorso, “Brimstone” di Martin Koolhoven, un western in cui Dakota Fanning per difendersi dalle persecuzioni del pioniere olandese (Guy Pearce) arriva a tagliarsi la lingua.
Un film quadripartito dalla struttura circolare, ambientato nell’Ottocento, con una vena perversa, violenta, gratuita e a tratti intollerabile, tra maschere di ferro, frustate, cappi al collo. Invece, Il Cristo cieco di Christopher Murray spende i colori e la povertà endemica latinoamericana per rappresentare l’attualità delle sofferenze della croce.
Interessanti poi sono stati Wim Wenders, che ha indagato le differenze tra uomo e donna con “Les Beaux Jours d’Aranjuez”, tratto da un testo di Peter Handke e Tom Ford, che ha piazzato un buon colpo con il suo “Nocturnal animals”, tratto dal romanzo Tony and Susan di Austin Wright, (Adelphi), film molto elegante e teso.
Molto bravo anche Philippe Falardeau, che con “The bleeder” racconta la storia di Chuck Wepner (Liev Schreiber), il peso massimo che resistette per 15 round sul ring contro Cassius Clay nel 1975. Il personaggio ispirò anche Rocky, interpretato da Silvester Stallone. Ma nelle mani di Falardeau c’è il vero brivido degli anni Settanta americani, che scivolano godibilissimi tra i cliché delle catenone al collo, disco music, donne scollacciate e cocaina.
Ad u giorno dalla fine e dai premi, qualcuno nota che, forse cpome effetto indesiderato della Brexit la l’edizione n. 73 della Mostra di Venezia non vede in concorso nessun film made in Gran Bretagna, la patria di Mendes, presidente della giuria.
In compenso però la pattuglia delle pellicole statunitensi è la più nutrita, contribuendo così a portare al festival il più ricco parterre di superstar degli ultimo anni.
Non faccio pronostici (che tanto non azzecco mai), ma spero che la giuria non si lasci commuovere dallo strappalacrime “The light beetween oceans”, noto alle cronache più che altro per essere stato il set galeotto della passione tra due sexy star come Michael Fassbender e Alicia Vikander.
Forse a vincere sarà “Jackie”, resoconto di una pagina di storia che tuttora rappresenta una ferita aperta nell’immaginario made in Usa: la morte del più amato dei presidenti vissuta dal punto di vista di sua moglie Jaqueline Kennedy. Un film poco convenzionale visto che a dirigerlo c’è il magistrale autore cileno Pablo Larraìn.
Ma magari la giuria sarà vittima dell’effetto Cannes 2016: cioè dareil premio più prestigioso a un grande vecchio, un Maestro del cinema che magari con la sua ultima opera riesce a commuovere le platee e smuovere le coscienze.
In questo caso si dovrà scegliere fra Wim Wenders, Andrei Konchalowski, Emir Kusturica e Terrence Malick.
O magari, data la dovizia di piani-sequenza, Mendes premierà il film più lungo presentato: “The woman who left”, poco meno di 4 ore, a firma del filippino, giá trionfatore di Locarno 2014, Lav Diaz.
Staremo a vedere.
Carlo Di Stanislao
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