E’ uscito il 15 settembre e resterà in programmazione solo fino al 21 il docufilm “The Beatles – Eight Days a Week”, regista Ron Howard: una straordinaria carrellata sulla carriera dei Beatles, dagli inizi nei locali di Amburgo e al Cavern Club di Liverpool, nel 1962, alle tournee in tutto il mondo dal 1963 al 1966, alle registrazioni in studio, all’ultima esibizione dal vivo nel gennaio 1969, improvvisata sul tetto della Apple Records a Londra.
Ne esce il ritratto non solo di una band leggendaria, ma anche di un’epoca forse irripetibile, che vede l’irruzione sulla scena musicale (e non solo) di una nuova cultura giovanile sfrontata, creativa, ironica e allegra. Certo, le immagini dei fans adoranti (soprattutto, bisogna dire, ragazzine bianche) fanno una certa impressione. D’altra parte urla di gioia, pianti e scene isteriche rappresentavano una rottura liberatoria con una società che all’inizio degli anni Sessanta era ancora rigida, repressiva e tradizionalista e non riusciva a capacitarsi di un fenomeno di un’intensità mai vista prima (e forse nemmeno dopo).
Materiali d’archivio, molti dei quali inediti e interviste scandiscono le due ore di film, in un crescendo che tocca il suo culmine nel finale a sorpresa: dopo i titoli di coda, ecco altri trenta minuti eccezionali, che mostrano il concerto del 1965 allo Shea Stadium di New York, davanti a oltre 50.000 fans urlanti, con un audio pessimo, ma un’emozione alle stelle. Per fortuna la versione presentata nel film è invece di alta qualità e mostra l’incredibile affiatamento e il talento scenico e musicale dei quattro.
Il taglio scelto dal regista privilegia l’amicizia tra John, Paul, George e Ringo, il processo creativo che porta alla composizione di centinaia di memorabili canzoni e l’accoglienza trionfale che li segue nelle loro massacranti tournee, con una pressione tale da portarli alla scelta di dedicarsi alle registrazioni in studio, mettendo fine alle esibizioni dal vivo.
Ron Howard evita temi controversi come la droga (a parte un breve accenno di Paul in un’intervista) e soprattutto le tensioni e le liti che portarono alla rottura e allo scioglimento della band, nel 1970 e forse è meglio così. Dà tuttavia spazio a due fatti meno noti, ma di grande significato: in occasione del concerto del 1964 al Gator Bowl di Jacksonville, in Florida, la band si rifiutò di suonare a meno che non venisse cancellata la segregazione razziale del pubblico, allora ancora in vigore, condannandola come una “cosa stupida”. Per la prima volta così bianchi e neri poterono assistere assieme a un concerto, segnando un precedente storico. I Beatles inserirono poi il divieto di segregazione nelle clausole di tutti i loro successivi concerti, contribuendo alla grande ondata di cambiamento portata dal movimento per i diritti civili. Il secondo fatto mostrato nel docufilm segue la dichiarazione di John Lennon, secondo cui i Beatles erano ormai più famosi di Gesù Cristo. Apriti cielo! Le reazioni furono così violente e scandalizzate da costringerlo a scusarsi, ma nel sud degli Stati Uniti portarono a impressionanti manifestazioni di odio, con pubblici roghi dei dischi dei Beatles e folle, questa volta furibonde, decise a cacciarli. Un contrasto stridente con le immagini di fan adoranti che prevalgono nel resto del docufilm.
La sintesi migliore è forse quella offerta dall’attrice nera Whoopi Goldberg, che grazie all’impegno della madre nel trovare i biglietti riuscì ad assistere al concerto allo Shea Stadium di New York. “Ti permettevano di essere ciò che eri realmente. La loro musica univa ed emancipava. Se oggi sono così è merito loro. I Beatles hanno illuminato il mondo.”
E in effetti, uscendo dal cinema tutto sembra più luminoso e leggero.
Anna Polo-Pressenza
Lascia un commento