A cinque anni di distanza da un referendum che ne ha sancito la definitiva espulsione dal nostro paese, è opportuno e doveroso tornare a parlare di nucleare, sia nell’interesse della collettività che per rinfrescare la memoria a tutti coloro che continuano a nutrire un minimo di ammirazione per una energia largamente diffusa sul nostro pianeta e, al contempo, in fase di chiaro superamento, se è vero che in Germania e nel Nord Europa sono sempre più numerose le città in grado di soddisfare il proprio fabbisogno energetico ricorrendo a fonti alternative e, quel che più conta, pulite.
Ma il club dei nostalgici dell’atomo conta ancora troppi sostenitori, sia in ambito politico che imprenditoriale, due categorie in questo caso molto difficili da distinguere quanto a prese di posizione ed interessi da perseguire, ragion per cui ci sarebbe ben poco da stupirsi se il responso della consultazione del 2011, inequivocabile da un punto di vista numerico e dei consensi, venisse messo in dubbio come peraltro già accaduto con il referendum del 1987.
Indubbiamente il nucleare ha una capacità di inquinamento notevolmente inferiore al carbone ed è in grado di ridurre sensibilmente la dipendenza dal petrolio, che pure continua ad essere massicciamente importato dalle maggiori potenze atomiche, ciononostante i pericoli e gli svantaggi ad esso connessi sono talmente numerosi da far sorgere dubbi sempre più marcati sulla sua effettiva utilità, e se l’Italia con scelta indubbiamente coraggiosa ha deciso di farne a meno altri paesi sono oramai pronti a seguirne l’esempio, ad iniziare dalla Germania.
Quando si affronta un argomento del genere il primo pensiero corre ai disastri delle centrali atomiche esemplificati alla perfezione dai drammi di Chernobyl e Fukushima, episodi che oramai fanno parte a pieno titolo della storia contemporanea e dell’immaginario collettivo dell’intero pianeta, ma che rappresentano solo la punta di diamante di una sequenza di eventi vecchia oramai di sessant’ anni e che trovano il loro comune denominatore nelle ancora scarse conoscenze in materia, dunque di un’energia che l’uomo crede di padroneggiare e che sfugge con eccessiva frequenza al suo controllo.
Gli incidenti nucleari sono classificati scientificamente in sette livelli di differente gravità, il che conferma se mai ce ne fosse bisogno il loro ripetersi e l’estrema pericolosità di situazioni: al livello zero corrisponde la deviazione, vale a dire un incidente non significativo per la sicurezza di cose e persone, al livello uno la anomalia, al due il guasto, al tre il guasto grave, al quattro l’incidente con conseguenze locali, al cinque l’incidente con conseguenze significative o di media gravità, al sei l’incidente grave ed al sette l’incidente molto grave.
Chernobyl e Fukushima appartengono a buon diritto alla settima categoria e non caso rappresentano oramai il paradigma del disastro atomico, ciononostante il numero di sinistri che coinvolgono i reattori nucleari sono talmente numerosi da rendere quasi impossibile una loro classificazione, e se l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ne ha riconosciuti ufficialmente 33, secondo Greenpeace ed altre organizzazioni ambientaliste essi sarebbero almeno 130, una cifra ragguardevole e che include tra gli altri anche l’incidente di Tricastin in Francia, datato 2008 e di cui a tutt’oggi si conosce ben poco complice anche una ferrea applicazione del segreto di stato.
Al quinto livello, quello dell’incidente con conseguenze significative, appartiene il primo episodio di un certo rilievo che nel 1952 ha coinvolto l’impianto di Chalk River in Canada, dove il malfunzionamento del dispositivo di spegnimento determinò una escursione di potenza nettamente superiore al normale, con conseguente fuoriuscita di materiale radioattivo, mentre cinque anni più tardi a Windscale Pike, Gran Bretagna, il rilascio di una massiccia dose di radioattività nell’atmosfera fu causato da un incendio nel nocciolo del reattore; al novero degli incidenti gravi, livello sei, appartiene invece l’episodio di Kyshtym, nell’ex Unione Sovietica, dove nel 1957 la centrale nucleare fu seriamente danneggiata da un’esplosione di un serbatoio di rifiuti ad alta attività, una sciagura quest’ultima che anticipò di fatto di ben 29 anni quella molto più nota di Chernobyl e di cui per molto tempo fu taciuta la gravità.
Ed in effetti il segreto di stato, concretizzato nelle situazioni di specie in quello di tipo industriale, accompagnato ad una informazione spesso e volentieri assente o superficiale sull’argomento, ha costituito da sempre un’ottima scusante per tenere i cittadini all’oscuro delle scelte nucleari di un paese e, in particolare, di ciò che realmente accade all’interno di una centrale, salvo poi fare i conti con la pericolosità di quest’ultima a disastro avvenuto, aprendo una questione allarmante su cui l’opinione pubblica farebbe bene a riflettere.
Nel 1969 il disastro fu sfiorato nella centrale di Lucens, Svizzera, dove la perdita totale del liquido di raffreddamento causò l’esplosione di un reattore sperimentale, mentre nel 1981 a Tsuraga, Giappone, più di mille lavoratori rimasero esposti a massicce dosi giornaliere di materiale radioattivo; in tempi più recenti, un incidente nella centrale di Sellafield, in Gran Bretagna ha provocato nel 2005 la fuoriuscita di una ingente quantità di sostanze inquinanti, e nel 2006 ad Erwin, Stati Uniti, durante un trasferimento, sono stati dispersi nell’ambiente 35 litri di una soluzione contenente uranio altamente arricchito, episodio questo che dimostra come il sinistro possa verificarsi anche al di fuori della centrale propriamente detta e che non esiste luogo dove ci si possa considerare al sicuro.
Gli Stati Uniti in più di un’occasione si sono vantati di essere una grande potenza atomica, forti di una propaganda atta ad “ammorbidire” anche i più sospettosi in materia, ma il nucleare gioca brutti scherzi e l’energia che ne deriva può trasformarsi di colpo nel peggiore degli incubi; è il caso del trizio, sostanza che in forma di idrogeno radioattivo viene rilasciata regolarmente dai reattori nucleari e che, stante un recente rapporto, avrebbe contaminato l’acqua potabile bevuta da milioni di americani.
“Trizio e radioattività nell’acqua potabile per milioni di americani” è il drammatico allarme lanciato nel 2012 dall’Istituto per la Ricerca Energetica e Ambientale, ente americano che fornisce accurate informazioni scientifiche sulle più comuni questioni energetiche ed ambientali, secondo il quale le centrali nucleari rappresentano una concreta minaccia per una larga fetta della popolazione americana, atte come sono a contaminare l’acqua potabile.
Sotto accusa, nello specifico, è la centrale di Prairie Island dove si sarebbero verificate almeno due perdite consistenti di trizio, con relativo inquinamento delle acque locali; secondo una nota dell’Istituto “questi eventi si inseriscono in un contesto di perdite di trizio in reattori di molti impianti, nonostante gli operatori dei reattori non abbiano ancora realizzato un adeguato sistema di comunicazione e di monitoraggio. Il trizio, come tutte le sostanze radioattive, è un noto cancerogeno. Ogni esposizione alle radiazioni produce un corrispondente rischio di cancro e tale rischio aumenta con l’esposizione. Non esiste una soglia sotto la quale vi sia un rischio zero”.
Una minaccia del genere in Italia è passata praticamente inosservata, posta anche l’assenza di impianti nucleari, e tuttavia l’inclusione del trizio tra le fonti di rischio dimostra per l’ennesima volta come quello dell’energia atomica sia un settore per più versi sconosciuto e pronto ad allargare il suo spettro di azione sia in termini di potenzialità energetiche che di situazioni di pericolo per persone ed ambiente; quest’ultime purtroppo vanno per la maggiore e, a dispetto di una serie di dichiarazioni ottimistiche anche da parte di scienziati, sono talmente numerose da giustificare più di un allarme.
Anche in Italia, seppur in termini e tempi più contenuti, abbiamo dovuto fare i conti con pericoli del genere; nel 1964 la centrale realizzata sul Garigliano, chiusa nel 1982, rischiò di esplodere per un guasto al sistema di spegnimento del reattore, mentre negli anni successivi fu registrato un numero imprecisato di incidenti (le associazioni ambientaliste parlano di 18 incidenti gravi), tutti accomunati dalla perdita di materiale radioattivo.
I dati Istat relativi al periodo compreso fra il 1972 ed il 1978 hanno ad esempio rilevato che nella piana del Garigliano il tasso di mortalità per tumori e leucemie aveva raggiunto una percentuale molto vicina al 45%, mentre nel 1984 una indagine effettuata dalla ASL di Latina sulle malformazioni dei neonati registrò nella stessa zona un tasso del 20% di bambini con problemi cerebrali ed affetti da ciclopismo; la stessa centrale, come puntualizzato da ben quattro campagne radiologiche condotte dall’Enea, avrebbe contaminato oltre 1700 kmq di mare previo versamento di metalli pesanti, tra cui il cobalto 60 ed il cesio 137 che poi sono entrati nella catena alimentare.
Quel che più conta, risulta scientificamente certo il rapporto causa-effetto tra inquinamento da materiale radioattivo e l’insorgenza e l’aumento esponenziale di patologie e malformazioni.
Ma gli argomenti a sfavore dell’energia nucleare sono tanti e tali da non poter essere esauriti in un unico articolo, molto meglio dunque sintetizzarne altri tre consentendo così al lettore di farsi un’idea più chiara della situazione, se ancora ce ne fosse bisogno.
1) l’energia legata all’atomo può costituire un ottimo presupposto per realizzare armi atomiche; giova ricordare infatti che non esiste a tutt’oggi in materia una netta separazione tra usi civili ed applicazioni militari, ragion per cui uno stato dotato di centrali nucleari può benissimo arrivare, ed in tempi brevi, alla fabbricazione di ordigni atomici;
2) non è vero che l’energia nucleare sia economicamente conveniente, al contrario i costi per la realizzazione di un impianto sono molto alti ed altrettanto dicasi per quelli di ammodernamento e manutenzione, il tutto tralasciando l’ipotesi di un incidente che comporterebbe un aumento massiccio delle spese, tutte rigorosamente a carico della collettività in quanto il nucleare è un’energia gestita quasi esclusivamente da imprese statali;
3) un problema dalla difficile soluzione è inoltre quello legato alle scorie nucleari; i depositi destinati ad accoglierle presentano, in termini di sicurezza, le stesse incognite legate alle centrali propriamente dette, sia per quel che concerne gli incidenti che la fuoriuscita di materiale radioattivo. Quel che è peggio, le scorie hanno un arco di vita lunghissimo, potendo conservare la radioattività fino a 300.000 anni, i depositi di alcuni paesi, tipo la Francia, sono praticamente al collasso ed esportarle in un altro paese è inammissibile, oltre che costosissimo
Giuseppe Di Braccio
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