Il sociologo Mark Juergensmeyer è un esperto di conflitti religiosi e in un saggio molto scorrevole ha illustrato un procedimento per gestire i conflitti sociali e culturali in modo pacifico: “Come Ghandi. Un metodo per risolvere i conflitti” (Laterza, 2004, euro 16, 178 pagine effettive).
Gandhi è nato il 2 ottobre 1869, è quindi da oltre cento anni che le sue idee influenzano il mondo. Come tutti i grandi personaggi della storia alcune idee sono state travisate dal logorio comunicativo del tempo. Oggi quasi tutte le persone sono convinte del pacifismo “assoluto” di Gandhi, ma in verità Gandhi stesso ha sempre affermato di essere un nonviolento che non avrebbe mai approvato la passività se questa conduceva all’ingiustizia e alla debolezza morale: “una violenza eroica è un peccato meno grave di una nonviolenza vigliacca” (Gandhi).
Gandhi è stato un grande combattente grazie alla sua forza di volontà fuori dal comune. Nella sua filosofia la violenza in caso di autodifesa è ammessa e utilizzata. Infatti ha affermato: “Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza”. Naturalmente la violenza andrebbe sempre limitata utilizzando il buon senso, a seconda delle persone e delle situazioni che si è costretti ad affrontare. Per Gandhi in molti casi bisogna avere “la forza di punire prima di poter avere la forza di avere pietà e di perdonare” (p. 55).
Comunque la lotta passiva e attiva seguendo “la forza della verità”, presenta indubbiamente dei grandi vantaggi: si affronta il punto di vista dell’altro e si allarga la nostra prospettiva. Da una visione unipolare del mondo si può passare a una visione multipolare. Ovviamente bisogna essere in grado di rimanere vivi e attivi, altrimenti la filosofia vincente sarà sempre quella di chi è entrato in conflitto con il nostro spazio vitale. Naturalmente la lotta passiva e la non cooperazione non può essere utilizzata in tutti i casi. Tuttavia il principale obiettivo dell’approccio gandhiano “consiste nello spostare il punto focale dalle persone ai principi” e nel “persuadere entrambe le parti di un conflitto che le loro posizioni sono state trattate col giusto rispetto”.
Il metodo gandhiano “incoraggia i combattenti a immaginare soluzioni capaci di includere gli aspetti delle due parti”, e cerca di preformare un “gioco a somma maggiore di zero”, l’unico gioco in cui tutti i soggetti vincono. Le divergenze vanno risolte “a livello di principi e bisogna adottare metodi coerenti con i propri principi”. Però tutti i metodi hanno almeno un limite ed è sempre molto difficile instaurare un dialogo con un ignorante o con un fanatico. Chi è abituato a usare le armi di solito non lascia il tempo alle persone più civili di usare le parole. Per queste motivo anche le persone più civili sono costrette a utilizzare le armi, per far valere la propria visione del mondo.
Nel saggio preso in esame il sociologo americano mette molta chiarezza intorno alla vita di Gandhi e illustra in modo semplice alcune delle applicazioni del metodo gandhiano alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti. Il metodo può essere utilizzato in caso di contrasti familiari e lavorativi, e nel caso della più grande problematica di tutti i tempi: il fanatismo religioso. Questo metodo non offre certezze: “fornisce una licenza di caccia alla verità, non un certificato di proprietà”(p. 31).
In ogni caso tutte le risorse naturali sono limitate, ma le risorse culturali non lo sono. A mio parere è su questo punto che si sta giocando il futuro pacifico dell’umanità. La pressione demografica è arrivata a livelli molto critici, il fanatismo religioso si svilupperà ancor di più, dato che i fanatici sono sempre gli ultimi a pensare al controllo delle nascite. Il mondo è uno spazio pubblico è c’è chi ha capito che può provare a imporre il proprio punto di vista attraverso il numero dei figli che genera. Anche perché in caso di lotta armata il numero dei combattenti è molto importante.
I politici dei grandi paesi più civilizzati non si sono ancora resi conto delle conseguenze molto pericolose a medio e a lungo termine. Molti conflitti civili e religiosi intrastatali hanno già fracassato innumerevoli porte, ma a quanto pare nessun essere umano si preoccupa veramente fino a quando la situazione davanti alla sua porta di casa sembra tranquilla.
Damiano Mazzotti-Pressenza
Mark Juergensmeyer è un sociologo nato nel 1940 ed è uno dei più grandi studiosi del fondamentalismo religioso. Nel 2003 ha pubblicato “Terroristi in nome di Dio. La violenza religiosa nel mondo” (Laterza, 2003).Per ulteriori approfondimenti: http://juergensmeyer.org, www.youtube.com/watch?v=z0teEqUlHiA (2009),www.youtube.com/watch?v=1AtURjlArFY (2012), www.youtube.com/watch?v=a4Q5h6dEUk4,www.youtube.com/watch?v=5-ksEPbjQ7A (2016).
Nota – “Gandhi raccomandava ai suoi combattenti di essere consapevoli del potere della non cooperazione, e di non usarlo con leggerezza”, per non destabilizzare troppo le autorità (p. 55).
Nota dell’autore – La prima parte del libro rappresenta un’introduzione al metodo, la seconda parte è incentrata sull’applicazione e nella terza parte “le idee di Gandhi vengono contestate a partire da posizioni, marxiste, freudiane e di realismo politico, in una serie di conversazioni immaginarie, e il Gandhi ideale viene contrapposto a quello reale in una critica gandhiana di Gandhi stesso” (il Mahatma avrebbe apprezzato questa soluzione intellettuale).
Nota storica – A nessuno piace perdere qualcosa, figuriamoci la propria terra o la propria visione nel mondo (www.youtube.com/watch?v=za0K_CWZb0U, la dignità e il discorso di Toro Seduto).
Nota sulla Coercizione – Gandhi sconsigliava l’utilizzo della coercizione (va utilizzata in pochi casi).
Nota finale – “Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni”. Tu devi essere “il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Il Mahatma Gandhi è morto assassinato nel 1948 da un fanatico religioso. Questo fatto storico rappresenta il limite principale del suo metodo. E “in alcuni casi, c’è assai poco di positivo nelle posizioni dei contendenti, a parte il valore della loro stessa vita e il loro diritto a vedere il mondo diversamente, purché non danneggino altri” (introduzione).
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