Mi trovo all’ interno di un campo profughi creato nel 1948, Al Amari Camp, in Palestina, alle porte della città di Ramallah. Condivido i miei giorni con i profughi e come loro annuso ogni mattina l’odore della spazzatura distribuita confusamente nelle strade. Questa viene di norma “utilizzata” quotidianamente dai bambini, come gioco abituale, destreggiandosi con la scopa, spostandola il più lontano possibile. Ma l’odore non cambia, resta sempre lo stesso, acido e nauseante ad ogni ora del giorno e della notte.
Le vie sono strette e congiungono ampli agglomerati di case, tra strade talmente piccole che nei periodi delle piogge, l’acqua giunge sino alle ginocchia, creando così problemi non indifferenti soprattutto per i più piccini. La popolazione qui si aiuta da sola e nulla è gratis, neanche l’energia elettrica o la sanità. Viene da chiedersi perché i soldi raccolti dalle associazioni ed i fondi della Comunità Europea per i rifugiati, stanziati anche a favore della Croce Rossa Internazionale, non giungano mai all’interno di questi campi profughi.
Solo nella zona di Ramallah i campi profughi arrivano a 4, con una media minima di 300 famiglie a campo. Pochi studenti universitari riescono a terminare gli studi. Non hanno accesso alla scuola pubblica; la spesa media sostenuta da una famiglia è di 2.000 dollari annui per accedere alla sola università esistente, quella privata.
Gli uomini sono impegnati all’interno del campo nell’organizzazione di attività sociali e culturali a favore soprattutto di disabili e adolescenti, le donne si occupano della famiglia e di creare gruppi di lavoro per un possibile futuro economico.
Tutti hanno morti da raccontare lasciati alle proprie spalle, figli, mariti, fidanzati, non uccisi solo dalle bombe, ma spesso morti in maniera inconcepibile. Colpisce in particolar modo la morte di un padre di famiglia schiacciato da una jeep militare alcuni anni addietro all’interno del campo. La vicenda avrebbe potuto evolversi in maniera differente se solo i militari non avessero deciso di fare marcia indietro sul suo corpo per una decina di volte almeno. Gli abitanti del campo mi raccontano della loro solitudine, chiedono che la gente sappia della loro esistenza, che il mondo si accorga delle loro difficoltà e che non rimanga indifferente.
Mi avvio con la mia guida verso la sede di Red Cross Crescent, un plesso spaventosamente imponente che costeggia Al Amari Camp. Per gli addetti ai lavori basta affacciarsi a una qualsiasi finestra per entrare nelle case e nelle strade della gente.
Gli abitanti ed i responsabili del centro mi confermano che il diritto alla sanità gli è totalmente negato: l’ospedale non consente loro visite ed operazioni se non a pagamento, come profughi i loro diritti sono praticamente inesistenti. Differente è l’aiuto che viene erogato ai turisti europei e alle famiglie agiate perché accessibile con semplice modalità di ticket. Un uomo all’interno del campo racconta di avere 4 figli, per il primo parto pagò l’ospedale 200 Shekel; la cifra è aumentata a ogni nascita, arrivando sino a 500 Shekel per assicurarsi il parto del figlio più piccolo. Qui non esistono diritti tutelati dalla comunità internazionale, qui vige lo spirito di adattamento e sopravvivenza. All’interno del campo vi è un centro medico della famosa Unrwa, associazione dell’ONU che si occupa di fornire assistenza sanitaria, mentre la popolazione si lamenta del fatto che il dottore è in realtà reperibile solo su prenotazione e non disponibile per le emergenze.
Le medicine erogate gratuitamente sono solamente due, paracetamolo e un antiallergico dal nome di Cetralon. Questo antistaminico viene utilizzato dal mal di denti a dolori che possono provenire da qualsiasi infezione interna. fino a rappresentare anche l’unica cura per il cancro, che in Palestina, da studi recenti, sembra sia in continuo aumento.
Riassumendo, il lavoro e i servizi che vengono erogati dalle ONG sono pari a zero, sembra che l’unico bisogno dei medici sia di tenere i profughi tranquilli e silenziosi. Sì perché questo “miracoloso” farmaco, il Cetralon, viene dato a donne uomini e bambini come palliativo a qualsiasi problema, compromettendo le loro attività quotidiane. Stando a quello che ci raccontano i profughi del campo, questo medicinale causa infatti forti stati di sonnolenza, mancanza di appetito, nausea e spesso anche diarrea; le madri accusano che dopo la somministrazione di Cetralon i più giovani, e non solo loro, sono costretti a letto per alcuni giorni. Ad oggi quindi, non c’è nessuna presenza costante di reale aiuto all’interno del campo. Le medicine non sono quasi mai reperibili e questo porta la popolazione ad auto-curarsi o chiedere assistenza al presidio ospedaliero più vicino, che però è a pagamento.
Antonietta Chiodo
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