Ottobre 2016, Palestina, mi trovo in questi territori da parecchi giorni, stando qui ci si rende subito conto di come le differenze tra gli esseri umani siano scandite non solo dall’occupazione dell’esercito israeliano, ma da precise scelte politiche personali.
Vi sono diatribe esterne che pesano sulla normale quotidianità degli abitanti. Come tutti ben sanno, a detenere il potere locale è l’ANP, Autorità Nazionale Palestinese, guidata e sorretta dal Presidente in carica Abu Mazen. La fazione più forte dopo il partito del Presidente è quella di Hamas, da anni in aperto conflitto con le scelte del partito opposto e che ha visto saltare anche la partecipazione alle ultime elezioni palestinesi. Le faide interne sono numerose, proprio a causa di una condizione voluta da chi della Palestina da tempo ne occupa i territori: dove nessuna forma di diritto è assicurato è molto facile che poi nascano dispute per interessi personali, per tutelare i diritti di singole famiglie o al massimo di una piccola parte dell’intera comunità palestinese; in questo contesto, così voluto e mantenuto, diventa impossibile tutelare diritti come quello all’istruzione oppure quello che garantisce l’accesso alle cure mediche.
In viaggio verso Jenin
E’ mattino e di buon ora siamo in cammino verso Jenin; abbiamo scelto di partire presto a causa dei numerosi blocchi militari che si possono incontrare verso la strada, forse il più rischioso, quello di Kalandia Checkpoint: per percorrere un tratto di strada per cui normalmente occorrerebbero meno di 90 minuti di strada a bordo dello Shirut, ( taxi collettivo) spesso occorrono anche più di 3 ore, solo per raggiungere la città.
Ad accompagnarmi in questo viaggio, oltre al fotoreporter Mohammed Abbas, c’è anche un interprete. Passando per ampie strade, arriviamo finalmente nel campo di Jenin, città famosa oltre che per i suoi numerosi martiri, per via dei molti libri che narrano delle vicissitudini del grande campo profughi insediato al suo interno, puntualmente boicottati dalla comunità internazionale in svariate occasioni, come a non voler far conoscere al resto del mondo una penosa realtà, quella di persone, di donne, di uomini, di bambini a cui non viene nemmeno più concesso il diritto ad esistere e di lottare per la propria sopravvivenza.
Dentro il campo profughi
Usciamo dalla città e cerchiamo d’intervistare la gente comune che però per paura non ci rivolge la parola, allora decidiamo che addentrarci nel campo profughi sia la scelta più ovvia. Agli angoli delle strade e sulle porte troviamo affissi ovunque i manifestini che ritraggono i militanti morti di Hamas, qui quasi ogni famiglia palestinese ha morti da ricordare ed è usanza affiggere, sull’entrata o sulle mura dell’abitazione, le foto di coloro che sono morti in quella famiglia, in particolar modo ci colpisce un’abitazione con una porta di ferro blu, su cui troviamo addirittura ritratte 9 persone. Parliamo con alcuni ragazzi che ci indicano un posto, la casa di un’importante famiglia di militanti di Hamas.
Giungiamo così a casa di Asma Abu Al Hija, membro di un’importante famiglia all’interno della comunità di Jenin, affiliata alle brigate Qassam, moglie dello sceicco Jamal Abu Hija, detenuto in carcere dal 2002 dopo avere portato a termine un’operazione militare che ha visto morire 9 militari israeliani. Nel 2015 vi furono scontri a fuoco tra la popolazione e la polizia israeliana che per due settimane tenne sotto assedio il campo profughi con l’uso di bulldozer, mitra e granate esplosive. In passato il campo venne raso al suolo distrutte abitazioni, scuole, e presidi medici, le intifade interne in seguito approdarono anche ad una guerriglia armata che vide sconfitte quelle fazioni legate alla jihad islamica.
La storia di Asma
Asma è malata di cancro e lotta da tempo contro questa malattia, quando di tempo ormai non ce n’è più. Ci vengono mostrati i documenti medici, dimostrano una volontà da parte dei sanitari di operarla al cervello, in tempi brevi, a causa della massa cancerogena di dimensioni oramai insostenibili e che la sta portando a un deterioramento non solo della vista ma anche a un progressivo peggioramento del suo stato di salute fisica. Asma Abu Hija è una donna di 52 anni di una bellezza particolare, dai modi leggeri, gentili, nello sguardo si cela la fierezza di una donna che conserva ancora oggi, pur nella malattia, il coraggio di difendere con tutta la forza la sua famiglia sottoposta da anni di soprusi, d’incursioni ed umiliazioni. Trattenuta anch’ella in carcere, dopo avere visto imprigionati tutti i suoi figli, successivamente all’arresto del marito. Asma tempo dopo, ha vissuto anche la morte di un figlio, per mano di un militare israeliano, durante un combattimento.
L’intervista
Come si è evoluta la situazione all’interno della sua famiglia dopo l’ultima incursione all’ interno del campo di una anno fa?
Sono una madre ed una moglie, ma prima di tutto sono una donna palestinese a cui sono stati negati tutti i diritti fondamentali, tutti i diritti normalmente riconosciuti ad un essere umano. Mio marito è stato arrestato nel 2002, da quel giorno è stata negata a me ed ai miei figli la possibilità di incontrarlo anche solo per un secondo, mio marito oggi ha 56 anni. Ho 4 figli maschi e 2 figlie femmine, uno dei miei figli è stato ucciso, Hamze, e nel frattempo in questi anni ho visto gli altri 3 portati via in carcere, uno ad uno, presero anche me e mi tennero in cella per 9 mesi, come detenzione amministrativa ma non mi venne mai formulata nessuna accusa.
Lei non ha mai incontrato suo marito e le è sempre stata negata la richiesta?
In verità mi è stata accettata una volta, il giorno che avrei dovuto incontrare finalmente mio marito, i militari uccisero mio figlio. Il giorno peggiore della mia vita, dalla felicità alla morte interiore, mi venne strappata l’anima in quelle ore. Pochi giorni dopo vi fu il funerale di Hamze, in cui si presentarono i militari israeliani, arrivarono anche in quel giorno per non darci pace.
Cosa accadde il giorno del funerale?
Una tragedia infinita, è di usanza durante il funerale di un martire, sparare colpi in aria con il mitra, per dare onore al suo viaggio in paradiso, come si fa normalmente in molte occasioni militari. I soldati israeliani, quel giorno aprirono il fuoco ed uccisero altri due ragazzi, fu un martirio. Nei mesi a venire, i nuovi nascituri del campo vennero chiamati Hamze, in onore di mio figlio e della tragedia che ha colpito non solo noi ma l’intero campo profughi.
Continuate a subire incursioni all’interno della vostra abitazione?
Sì, siamo nel mirino non solo degli israeliani, ma anche della polizia dell’ANP, perché siamo dichiaratamente militanti di Hamas, un fazione opposta, tengo a chiarire che all’ interno del campo entrano quasi tutte le sere. Spesso subiamo irruzioni continue, l’ultima risale ad un mese fa, entrando all’improvviso, come d’altronde fanno sempre, facendo saltare la porta di casa con l’esplosivo, distruggono tutto, senza curarsi nemmeno della presenza dei bambini, non hanno rispetto di nulla. Un mese fa sono andati anche nel negozio di telefoni cellulari di mio figlio, prima di fare a pezzi tutto hanno portato via quello che gli interessava (si chiama rubare). Hanno distrutto anche l’automobile che aveva appena acquistato, alla banca di certo questo non interessa, stiamo ancora pagando le rate per qualcosa che non abbiamo più.
E’ mai accaduto che siano entrati mentre una donna era sola in casa?
Accade spesso che facciano incursione nei campi durante la notte, tra le due e le tre, quando la gente dorme, ed è accaduto mentre eravamo sole io e mia figlia con tre bambini piccoli. Mi misi di fronte a loro, per difendere i bambini, quando videro le fotografie di Hamas sulle pareti divennero come animali selvaggi. Entrarono stanza per stanza distruggendo tutto, ogni più piccola cosa, poi ci chiusero in camera, obbligandoci a non parlare anche tra di noi. Questa casa ha visto molto dolore, le pareti sono intrise di sangue, abbiamo ancora negli occhi le immagini di quando uccisero un martire, lasciandolo agonizzante per terra che perdeva sangue sino a dissanguarsi, fino al suo ultimo respiro. Non hanno nessuna pietà.
Lei è malata, sta vivendo situazioni incredibili, dimostrando una forza difficile da concepire, le cure per lei sono gratuite?
No, non lo sarebbero neanche se me le prestassero qui nei campi l’Unrwa (Organizzazione dell’ONU) paga il 30 per cento delle cure, l’altro 70 per cento è a nostro carico. Ho un tumore al cervello diagnosticato da tempo e che deve essere rimosso attraverso un’operazione, i medici mi hanno rilasciato vari fogli perché io possa accedere alla chemioterapia ed altre cure per poi poter effettuare l’operazione. Ogni volta che mi presento alle porte di Gerusalemme o per andare in Giordania mi viene negato l’accesso e io davvero non so più come fare. Lei non è la prima a venire da me, alcune associazioni umanitarie sono venute qui, tante belle parole ma poi tutti spariscono. Nessuno vuole pestare i piedi alla politica, preferiscono lasciarti morire.
Non più politica nè guerra, bensì diritti umani fondamentali negati
Siamo di fronte ad una situazione di una donna gravemente malata che non dovrebbe avere niente a che fare con questioni di politica interna. Ma esiste di peggio, in Palestina ci sono associazioni ed ONG che vivono esclusivamente grazie al supporto di aiuti economici occidentali, della Comunità Internazionale, della Comunità Europea, e a volte anche grazie al contributo volontario di privati cittadini. Siamo di fronte ad una realtà di organizzazioni nate apposta per offrire aiuto alle popolazioni locali o quantomeno per alleviarne le sofferenze, ma che purtroppo non adempiono più allo scopo per cui sono nate, neanche la più minima richiesta di aiuto viene ormai soddisfatta. In Palestina, e in tutte le questioni ad essa legate, siamo d’innanzi ad una condizione generale legata alla paura, ai soprusi, alle violenze senza fine, alla mancanza totale di ogni più minimo diritto umano, all’assenza di ogni forma minima di assistenza, ma quel che è peggio è che siamo anche di fronte ad una forma vera e propria di omertà internazionale collettiva, che sempre per interessi politici e soprattutto economici si volta sempre più dall’altra parte, lasciando solo un popolo e un paese, quello palestinese che ancora oggi, secondo le leggi del diritto internazionale risulta occupato.
Antonietta Chiodo-Pressenza
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