Lo scorso 20 settembre, nella sua casa milanese, era riuscito a nascondere la sua sofferenza improvvisando una vecchia canzone napoletana, per la presentazione del suo ultimo libro: “Darwin”, un libro in cui si vede ancora vivissima la sua voglia senza fine di confrontarsi con il sapere e la storia per capire meglio l’uomo e il suo mondo, per comprendere da dove veniamo e superare tutti i pregiudizi che abbiamo in testa, dettati dall’ignoranza.
Nel libro racconta, in modo attento, divertente e divertito, di un teologo che diventa padre dell’evoluzionismo, che diventa scienziato confutando le teorie deterministe della Bibbia, che dimostra che noi tutti siamo discendenti dello stesso ominide: siamo tutti uguali.
Una ennesima favola vera, di più di duecento, ancora attualissima, come lo è il suo capolavoro “Mistero Buffo”, del 1969: un susseguirsi di satire al vetriolo, sulle quali spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici accessibile a tutti.
Una magnifica invenzione che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura.
E’ morto oggi, all’età di 90 anni, lucido fino alla fine Dario Fo, che ha reinventato Ruzzante e Molière ed è riuscito, per citare la motivazione degli Accademici svedesi: “seguendo la tradizione dei giullari medioevali a dileggiare il potere restituendo dignità agli oppressi”.
Un’esistenza lunga e fortunata: “esageratamente fortunata”, ripeteva lui, che a differenza di quelli mai contenti, sapeva dire grazie alla sorte.
Dagli anni dell’Accademia di Brera, così ricchi di stimoli culturali, ai brutti mesi con la divisa della Repubblica di Salò “per non finire deportato in Germania”.
Dai testi radiofonici del Poer nano all’esordio con Parenti e Durano al Piccolo Teatro con Il dito nell’occhio, all’unica esperienza cinematografica, con Carlo Lizzani, che gli cuce su misura il film Lo svitato.
Ma fatale è l’incontro con Franca, la donna della sua vita, la compagna di scorribande d’arte e d’amore, morta nel 2013.
E lui, da quel momento, deve andare avanti da solo. Azzoppato, gli occhi celesti stanchi e dolenti, eppure sempre curiosi e beffardi. Consapevoli che la vita, come l’amore, come il teatro, spesso fa male.
Al lutto di Franca si aggiungono quelli di Enzo Jannacci, amico e complice di canzoni irriverenti, da “Ho visto un re” a “El purtava i scarp del tennis” e quello recente di Gianroberto Casaleggio, amico e alleato su nuovi fronti politici.
Di lui resta e resterà l’impegno civile, politico e morale, ma soprattutto l’invenzione di un nuovo linguaggio, fatto di onomatopee e parole prive di significato, che imitano il ritmo e l’intonazione di linguaggi esistenti, snaturandoli e facendone altro.
Certamente una cospicua parte di lui era già morta il 29 maggio 2013, con la morte della adorata Franca Rame. Al funerale, stringerà il cuore di una folla immensa, urlando un disperato “Ciaooooo”.
Di Franca negli ultimi anni dirà che la sentiva, sentiva la sua presenza e il suo aiuto. E a chi gli chiedeva se questo era il segno di una sua conversione al soprannaturale, ironico e lucido rispondeva: “Io credo nella logica. Ma una volta di là, spero di essere sorpreso”.
Carlo Di Stanislao
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